venerdì 26 luglio 2019

La serata era deliziosa


La serata era deliziosa, la cena era squisita, la compagnia era tanto, ma tanto, tanto perbenino, di quelle compagnie che, se a qualcuno, e chissà come, scappa un «cazzo!», le signore arrossiscono facendo finta di non aver sentito e i signori esprimono il loro biasimo con leggeri colpetti di tosse. Poi, d’un tratto, quando tutto fin lì era stato pure troppo amabile, perfino con qualche cedimento all’affettazione, e già si era alla crema catalana, copia perfetta della splendida luna piena, la discussione è caduta sull’audiolibro (chi ha avuto la sciagurata idea di farvi cenno l’ha chiamato audiobook, il che sospetto abbia contribuito in modo decisivo a risvegliare le opposte reazioni alla «cosa nuova», di qua la diffidenza prossima al rigetto, di là la curiosità incline all’entusiasmo, sopite anche in chi è un campione di moderazione), e allora la terrazza è diventata un’arena in cui retiarii e secutores hanno dato il meglio dei rispettivi repertori, insomma, è mancato poco che volassero i bicchieri. Per l’audiolibro, poi. E tra personcine che pure su temi irrimediabilmente divisivi non avevo mai visto negarsi preziose formule di reciproca tolleranza confetturate in leziose glasse di carineria.
Ho provato a stemperare la tensione: «Certo che siete tipi strani, sapete? Pro o contro la riforma costituzionale di Renzi – ho detto – tre anni fa qui era tutto un “comprendo, ma...”, “la tua posizione è legittima, tuttavia...”, “hai ragione, però...”. E lanno scorso, quando cè stata la calata dei barbari, a questo stesso tavolo se nè discusso come si trattasse di un acquazzone ad agosto, e pure chi era più preoccupato annuiva a chi, più tranquillo, diceva: “Vabbè, ma quanto può durare?”. Poi, stasera, quasi vi sgozzate su una questione non assai dissimile da quella che negli anni Cinquanta opponeva chi era affezionato alla stilografica e chi preferiva la biro. E sì che qui non guasterebbe affatto un po di tolleranza e di equilibrio...». Parole al vento, perché ho ottenuto solo che lo sgozzarsi avesse una peraltro breve parentesi sulla stilografica e la biro: «Vuoi mettere la varietà del tratto che si esprime nella pressione sul pennino?», ha detto uno; «Sciocchezze, parliamo di scrittura o di disegno?», gli ribatteva un altro; e «sciocchezze» aveva effetto di una rasoiata.
Estromesso dall’accapigliamento per manifesta insensibilità alla portata della questione – se cioè «Proust va sentito con tutti e cinque i sensi, e la lettura li consente, l’ascolto no» o se «Proust è flusso di memoria e nulla meglio di una voce può dargli scorrimento» – mi sono riservato di venirne a parlar qua, con voi che siete gente daltra pasta, e Proust siete capaci di gustarvelo comunque, e senza fare tante storie, in lingua originale e in italiano, in Braille e a fumetti.
E dunque. Comincerei col dire che audiolibro è termine improprio per la genericità di ciò che è «libro»: è ragionevole credere si possa ridare in audiolibro un saggio, un trattato, un manuale, un dizionario? Non scherziamo, neanche su un tablet potranno accostarsi alla resa che ne dà il cartaceo, che lì sopra sarà raggiunta, e a stento, solo da giornali e riviste: l’avanti-e-indietro che impone la lettura di un saggio (di un saggio serio, voglio dire, a dispetto del definire saggi, oggi, le amene chiacchierate di certi talentuosi intrattenitori), il salto di pagine che è inevitabile nella consultazione di un lemmario, lindispensabile ripetizione a blocchi e sottoblocchi che impone la trattatistica, saranno mai consentiti da un file audio? Ma neanche a farsi venire la ialinosi allabduttore del pollice tra stop e replay. Sicché è bello sentir dire: «Dostoevki mi fa tanta compagnia in auto», ma portaci de Saussure, e poi mi fai sapere.
Non audiolibro si dovrebbe dire, ma audioracconto, audionovella, audioromanzo: solo la narrazione (ancor più, la poesia) consente di affiancare, senza pericolosi scollamenti, testo e ascolto, e anche lì non è da escludere che qualcosa possa andar perso a causa della mediazione tutta arbitraria dell’interpretazione data dalla voce narrante, che invece la lettura lascia al lettore, a suo vantaggio o discapito.
Mi si dirà che però con la musica funziona: c’è uno spartito e c’è l’esecuzione, si può tranquillamente scegliere il Bach che si ritiene più fedele alla notazione. Certo, ma quante versioni di Moby Dick abbiamo/avremo in audiolibro per poter compiere la stessa scelta? Un rischio cè, ma – sia chiaro – è giusto venga data a tutti la libertà di correrlo o meno, e questo rischio è che, dopo aver ascoltato una prima versione del Moby Dick, sarà difficile venga voglia di ascoltarne una seconda, e Melville sarà per sempre uguale a se stesso, cioè al Melville ascoltato la prima volta. Così con il riascolto, che non potrà mai consentire un processo di rielaborazione simile a quello della rilettura.
Anche qui prevedo unobiezione: non accade la stessa cosa con la riduzione di un romanzo in un film? Certo, ma romanzo e film rimarranno sempre ben distinti, mentre un audiolibro giocoforza sostituirà il libro da cui è tratto.
E dunque, sì, ci si accosti a Dostoevski come meglio si creda – sempre meglio che perderselo – ma non si pretenda di poter dire, dopo averne ascoltato un audiolibro: «Ho letto I fratelli Karamazov»Non lhai letto: te lo sei fatto leggere, risparmiando tempo ma perdendo altro, e di più.
En passant, sarebbe corretto riconoscere lantecedente dellaudiolibro nella radionovella brasiliana degli anni Quaranta, dichiaratamente destinata «para aqueles que não têm tempo para ler».

martedì 23 luglio 2019

Le parole sono pietre


Coi tempi che corrono, pensare a un Codice della Comunicazione, alle cui regole debba attenersi chiunque voglia prendere la parola nel dibattito pubblico, pena il privarsene del diritto, è più folle che pensare a «unEuropa libera e unita» nel 1941. Più folle, perché le condizioni che diedero vita al Manifesto di Ventotene oggi mancano.
Scrive Colorni, infatti, che la cosa prese vita in un «ambiente deccezione, fra le maglie di una rigidissima disciplina», mossa da «un processo di ripensamento di tutti i problemi che avevano costituito il motivo stesso dellazione compiuta e dellatteggiamento preso nella lotta». In più, cera che, a lui, a Rossi e a Spinelli, «la lontananza dalla vita politica concreta» era imposta dal confino, e dunque quello «sguardo più distaccato», che avrebbe consentito loro di «rivedere le posizioni tradizionali, ricercando i motivi degli insuccessi passati non tanto in errori tecnici [...], quanto in insufficienze dellimpostazione generale», era quanto di necessità virtù. Un altrettale «ambiente deccezione» oggi è inimmaginabile.
A nessuno, infatti, manca il giga necessario per fare – diciamo – «vita politica concreta», e ogni «sguardo più distaccato» è generalmente percepito come imperdonabile insensibilità dinanzi al dovere di schierarsi, nella migliore delle ipotesi, se non come sostanziale solidità col nemico, nella peggiore. In quanto al «rivedere» le proprie «posizioni tradizionali», manco a parlarne: si corre il rischio di essere marchiati a fuoco come opportunisti, conformisti di ritorno, voltagabbana. Intoccabile, poi, è ogni «impostazione generale», se nel parallelo qui proposto così vogliamo definire larmamentario di pregiudizi coi quali si scende in campo, perché mettere in discussione la ragione stessa del twittare pro o contro sovvertirebbe la Weltanschauung che a ogni passero, a ogni corvo e a ogni cinciallegra dà la sensazione di avere occhio di falco, ali daquila e becco di sparviero. Di «rigidissima disciplina», infine, meglio non parlarne in tempi in cui i saggisti hanno pose da romanzieri e, più che articolare concetti, argomentare analisi e sistematizzare tesi, in libricini che raramente superano le 200 pagine frullano citazioni, fatterelli, immagini, suggestioni, con una incoercibile tentazione allintrattenimento.
Ciò nonostante, in ogni dove si è concordi sul ritenere che le parole siano pietre, e che dovrebbero servire a costruire templi e case, a lastricare piazze e strade, piuttosto che ad essere impiegate in brutali sassaiole. Ti avvicini, guardi chi lha detto, e in fronte ha un bernoccolo, e in mano una fionda: piange, sanguina, e intanto prende la mira per restituire il colpo.
Sarebbe ingiusto, tuttavia, farne una questione morale: quando la posta in gioco è uccidere o morire – e poco importa se lo sia davvero o come tale è percepita, perché è la percezione che apre la partita – non si può biasimare che ogni mezzo giustifichi il fine: a fallacia, dunque, fallacia e mezza; mistificazione contro mistificazione, con lattenzione – quando cè – a fare in modo che la mia sia meno scoperta della tua.
E allora a chi potrebbe mai venire la folle idea di credere possibile un Codice della Comunicazione? Solo a chi, come a Colorni, Spinelli e Rossi, è fuori dalla partita. Solo a chi, come loro, nutra lillusione che, affrescata lutopia, a nessuno possa venire in mente di spicconarla. Condizioni incompatibili: chi è fuori dalla partita, lo è proprio perché non nutre più alcuna illusione. 

giovedì 18 luglio 2019

Raffaele Angelo Ventura, La guerra di tutti





«La violenza è già qui, lo è sempre stata» (pag. 289)


Allego in coda a questo post la recensioncella de Le ultime avventure di Gummo che scrissi quattordici anni fa, perché quello che oggi ho da dire su La guerra di tutti mi sarà in gran parte risparmiato. Ma quello era un romanzo (era un romanzo?), una novella (una novella?) – unapocalisse apocrifa, diciamo – diciamo che lAngelo era precipitato in una Patmos assai simile a un bar infestato da giovinotti di belle speranze e precario stipendio, per fare ingoiare un libricino dalle pagine imbevute di allucinogeno a uno pseudo-Giovanni felicemente libero da ogni speranza – e questo invece è un saggio (è un saggio?), peraltro semidichiarato seguito di un altro saggio (ma pure quello: era un saggio?), il fortunato Teoria della classe disagiata, e poi sono passati quattordici anni: chi resta uguale a se stesso dopo quattordici anni? Raffaele Ventura, sì, semplicemente insieme al libricino si è mangiato pure lAngelo, che infatti adesso sta tra Raffaele e Ventura. Direi: La guerra di tutti è semplicemente una glossa de Le ultime avventure di Gummo, una sua riscrittura in favore del lettore che ha problemi con la scrittura allegorica. Dai miei taccuini di quattordici anni fa, riporto un passaggio tratto da unintervista che Ventura concesse a La Voce di Milano il 26 dicembre 2005 (potrebbe essere il 24, la grafia è incerta). Cosera Gummo? «Una storia sul rapporto tra immaginazione e Storia. Linsurrezione delle forme narrative sepolte nellideologia. La metafisica come b-movie. Luigi Castaldi scrive che sono eversivo». Ed è vero che lavessi scritto, ma avevo pure scritto che Ventura si fosse divertito un mondo a prenderci per il culo: travestito da gnostico, ci aveva annunciato il Violent Unknown Event, e subito fatto «bù!», per ritrarsi a ridacchiare del nostro sconcerto. Una scrittura eversiva, dunque, ma come parodia di profezia. Quattordici anni dopo Gummo, il visionario e il grottesco trovano appigli nella realtà e reclamano un riconoscimento, che tutto sommato gli si deve. Rimando perciò alla chiusa del post di quattordici anni fa: «“Come cazzo è possibile che un libro così sia sugli scaffali delle librerie?” chiederebbe l’ingenuo in me. Il cinico in me ha la risposta e con un dito sulle labbra gli fa: “Sssss!”». E così è stato, aveva ragione il cinico: il Terzo Millennio ha bisogno di unapocalisse (non di un disvelamento, sia chiaro, non di una rivelazione: di unapocalisse come stravolgimento che azzera) e Raffaele (Angelo) Ventura aggiorna Gummo e lo manda in libreria. Avrà successo, senza dubbio. Peraltro – e qui sta lunico rimprovero che riesco a muovergli – La guerra di tutti si adegua assai furbescamente allo stile della saggistica odierna: nessuna articolazione, nessuna tesi, dunque neppure lonere dellargomentazione: immagini, citazioni, aneddoti, pettegolezzi letterari, evocazioni, suggestioni, un frullato gradevole, piacevolmente speziato. Insomma, scende giù che è un piacere. E il retrogusto ha l’inquietante che oggi è un must per l’intellettuale à la page. Ebbravo Ventura!

Nota
Ventura fa sapere che il suo secondo nome non è Angelo, ma Alberto. La cosa non impone correzione: se «il momento è vicino» (Ap 22, 10), l’Angelo è indispensabile.

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Raffaele Ventura, Le ultime avventure di Gummo 

Ho letto Le ultime avventure di Gummo di Raffaele Ventura. Ne avevo già letto brevi estratti che, suppongo, l’autore postava sul suo blogPseudepigrapha, mentre il lavoro era in fieri. “Sarà pronto per Natale – scriveva pressappoco il Ventura, uno o due mesi fa – e sarà mandato a chi ne farà richiesta”. Qualche giorno fa, in homepage, l’annuncio dell’invio e in un post-post-scriptum: “Vi prego di trattare il libricino con cura, aprirlo con moderazione, poiché sulla tenuta della colla ho soltanto speranza e immutata stima”. Ecco, ho voluto aprire questa veloce recensione di un libro portentoso (por-ten-to-so) con notizie che danno solo la misura laterale del portento. Sì, un blogger ha scritto un libro autoprodotto; speranza e stima riposte sulla tenuta della colla sono intrepide; il plico della cassetta della posta non ha mittente come gli artigianali confetti di esplosivi; la dedica (“a Cristina”) è tutto un ricamo di rimandi a maniere letterarie che poi saranno tradite e devastate da una intelligenza traditrice e devastatrice… Sì, ma non abbiamo ancora detto niente. E’ come se avessimo detto: l’acqua è bassa, si tocca; la folla è una folla di pezzenti; entrano in acqua uno a uno e si avvicinano al Battista; ne viene avanti uno con due occhi di brace… Così con questo libro, che andrà letto e riletto (mi conosco, mi conosco) fino a polverizzare tutta la colla della costa. “Non ti preoccupare, fa quello che devi fare, sbrighiamo ‘sta formalità” fa Cristo al Battista. Il libro di Ventura dà in felicissima analogia il trasalire che si avrebbe dinnanzi all’Anticristo, mentre si stava lì a battezzare la teoria di automi partoriti dalla fabbrica delle letterature lisergiche, delle fantascienze automatiche, dei testi tratti da b-movies e – toh! – di chi sono questi occhi di brace? Perdinci, siamo nell’Annuncio, noi, che venivano dall’Avvertenza. Sarà per questo che il libro di Ventura è crudelmente natalizio, com’era in qualche modo intuibile dalla considerazione (dal trasalimento) che dietro la barba di Santa Klaus si nasconde Satana, trionfante per “aver scalzato Cristo nel giorno stesso della sua nascita” (così su Pseudepigrapha scriveva l’anno scorso, il Ventura, dando il fondamento alle odierne reprimende del Natale scristianizzato da parte delle gerarchie ecclesiastiche). Quando involontari, gli errori di un libro sono incolpevolmente tratti da un altro libro. Perciò deve esistere un ‘errore originario’, deliberato” scriveva tempo fa sul suo blog, il Ventura, e ogni errore originario ne Le ultime avventure di Gummo è invece deliberatamente – dolosamente, in verità – tratto dalle Scritture. Dick, Burroughs, chi più ne ha, più ne metta – sono le negative, Ventura dev’essersi divertito un mondo a prenderci per il culo. Scriveva tempo fa (ed eravamo ancora all’Avvertenza di un possibile Annuncio): “Dove tutto è sacro, ogni gesto è una bestemmia” (più avanti: “La teodicea perfetta resta sostenere che gli eventi non hanno avuto luogo”). E nelle pagine di Gummo tutto procede per azioni che affollano le scene, i quadri. Sia chiaro, le azioni sono dialoganti, c’è sempre un A. e un B. (C. non datur): l’assonometria squaderna il boudoir, la philosophie che vi si consuma diventa comica gnostica. Molto probabile che il Ventura abbia voluto prendere per il culo anche sé stesso, almeno come gnostico, almeno come contranalogo di gnostico. In Gummo (perciò ne scrivo come affascinato, ma con un ultimo indugiare) ogni cosa rimanda e aderisce – dove c’è una bolla di scollamento, sollevando, c’è carne viva, rossa, non necessariamente dolente, ma sempre urlante. Svia (eccome!) l’apparenza del mosaico con tessere a margini aspri, ma qui l’ontologia, lì l’eschaton, e ancora, più in là, una pocket-theology riescono, più che a dare il sobbalzo, a farne riavere il riverbero, come per mero rimbalzo. La trama è quella di una favola che ogni volta ci spaventa e ci addormenta: la fine del mondo, il Violent Unknown Event, in queste 130 pagine guardato attraverso una dozzina di variazioni. Gummo, il protagonista, ha preso gli abiti dell’Anticristo col quale s’avanza da una bottega dell’usato punk, con qualche orrido accessorio aramaico, greco, perfino latino. Ha un’unghia ritorta che parrebbe istigazione, addirittura eversiva. Poi, chiuso il libro dopo averlo letto in discesa, con accelerazione quadratica (almeno così è stato per me), rimane la sensazione di un impatto terribile, il lettore è in ciascuno dei suoi stessi frantumi. “Come cazzo è possibile che un libro così sia sugli scaffali delle librerie?” chiederebbe l’ingenuo in me. Il cinico in me ha la risposta e con un dito sulle labbra gli fa: “Sssss!”. Sì, ma come cazzo è possibile che un libro così sia sugli scaffali delle librerie? (Malvino, 13.12.2005)

mercoledì 17 luglio 2019

Stop


Da inguaribile bibliomane sono divorato dalla curiosità riguardo ai libri che portava in braccio il ragazzino diventato simbolo dell’odiosa ingiustizia consumatasi con lo sgombero di Primavalle. Mi aspettavo almeno qualche ipotesi dai finissimi analisti che dalle scaffalerie alle spalle di Berlusconi e di Salvini sono stati in grado di desumerne livello culturale, gusto estetico e profilo psicologico, ma pare che stavolta la questione non si ponga, quei libri sono libri e basta, non meritano alcuna indagine, stanno in braccio al ragazzino a far l’effetto che fanno, quello della sacralità del sapere offesa dalla brutalità del potere, ovviamente di quello al di là dei Pirenei, perché quello al di qua è tutt’uno col sapere. Tanto meno è stata sollevata la questione se l’immagine potesse essere stata costruita per sortire l’effetto che ha sortito, e sì che oggi è di moda fare il fact checking pure al bacio che ti dà mamma. È evidente che ogni domanda, ogni dubbio, sarebbe iconoclastia. Non sembrano libri di testo scolastici. Tranne quello rilegato in pelle, che reca appiccicato alla costa un cartiglio come s’usa per i volumi di una biblioteca pubblica, sono tutti in condizione penosa. Sembra materiale recuperato da una discarica, ma tant’e, sono libri, e un angelo li trae in salvo, stop.

martedì 16 luglio 2019

[...]




Si può – per certi versi, si deve – infine, se non da subito – cedere, rinunciare al troppo comodo né-né, e scegliere il menopeggio, e sul menopeggio, benché puzzi solo un po meno del peggio, non ci sono dubbi, sta da quella parte, e da quella parte, allora, cominci ad inclinare, quandecco che, a un niente dal caderci dentro, urlando «datemi una mazza, deh, datemi un coltello, santa è la rissa, dannato è chi ne resta fuori», vedi Gino Strada, e lo senti, e con un disperato colpo di schiena fai giusto in tempo a ritrarti: dio santo, che stavi per fare?


Tagliare


Si parla di carta geografica, quando la rappresentazione grafica del territorio preso in oggetto è in una scala uguale o inferiore a 1:1.000.000, rammentando che la grandezza di una scala è inversamente proporzionale al suo denominatore. Al diminuire del denominatore, quando dunque la rappresentazione diventa più particolareggiata e la scala è tra 1:1.000.ooo e 1:100.000, si parla di carta corografica, mentre con una scala tra 1:100.000 e 1:10.000 siamo alla carta topografica. Di mappa, sebbene il termine venga spesso impiegato per rappresentazioni in scale assai minori, come è nel caso di quella lunare, sarebbe proprio parlare solo per ordini da 1:2.000 in su. Sarà per questo che lacribia con cui Borges confezionava i suoi falsi letterari ci dà mapa, anziché carta, per quella rappresentazione dellImpero in scala 1:1, che dunque «tenía el tamaño del Imperio y coincidía puntualmente con él» (Del rigor en la ciencia)?
La questione meriterebbe un certo interesse, se questo fosse un blog serio. Si dovrebbe partire dal considerare la terminologia in uso nelle opere d’interesse cartografico a disposizione di Borges intorno alla metà degli anni Trenta del secolo scorso, per verificare se la distinzione tra carta e mappa in base alla grandezza della scala fosse già in uso allora come lo è oggi. Non guasterebbe a tal proposito una capatina alla Biblioteca Nazionale di Buenos Aires, ma anche alla «Miguel Cané», perché è vero che Borges vi prese servizio solo nel 1938, ma Del rigor en la ciencia non compare nella prima edizione della Historia universal de la infamia, che è del 1935, per entrarci solo nella seconda edizione, che è del 1940. Se questo – dicevamo – fosse un blog serio. Ma non lo è. Il che mi risparmia il volo in Argentina, ma mi costringe in ogni caso a dare spiegazione del perché un post che ha per titolo Tagliare attacchi dando ragguagli sul concetto di scala nella rappresentazione grafica di un territorio.
Do un aiutino? Pensate per un attimo alla comune radice di rappresentazione e di rappresentanza: in entrambi i casi si tratta della riproduzione di qualcosa che è altrove, ma che si fa in modo abbia re-ad-praesentia qui, dove il prae- è quel dinanzi che gli dà più o meno piena corrispondenza al reale. Ci siete? Vabbè, pretendo troppo, meglio porvi la faccenda in altro modo.
Posto che la democrazia rappresentativa fa corrispondere un eletto a un tot di elettori (1:1.000, 1:10.000, 1:100.000, ecc.), non cè contraddizione in termini tra il voler ridurre il numero dei parlamentari e poi dirsi paladini della democrazia diretta, che invece ha lambizione di cavare la volonté générale da una riproduzione dellelettorato in scala 1:1? Se riduci il numero di deputati e senatori, ogni parlamentare rappresenterà un numero maggiore di elettori, con un ulteriore allontanamento dalla democrazia diretta.
Mi si dirà che il M5S è per il vincolo di mandato, e dunque... E dunque un cazzo, perché la riforma costituzionale che intende portare a 400 il numero dei deputati e a 100 quello dei senatori modifica gli artt. 56 e 57, ma non sfiora neppure lart. 67, che dunque continuerà a recitare: «Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato».
A mio modesto avviso, è questa lobiezione più sensata che si può rivolgere ai grillini, e parlo da persona che crede nella democrazia rappresentativa, e che si caga letteralmente addosso ogni volta che sente parlare di democrazia diretta. Ovviamente non ignoro le ragioni di chi è contrario alla riforma costituzionale, ma, pur avendo letto tanto sulla questione, ancora non mi è chiaro come il taglio del numero di deputati e senatori apporterebbe una deminutio alla democrazia, se non nel modo in cui la apporta una qualsiasi legge elettorale che abbia una qualsivoglia, e pur bassissima, soglia di sbarramento. Anche senza quella, peraltro, ci saranno sempre elettori che, per lesiguità del numero che esprime la loro scelta, rimarranno senza rappresentante, salvo portare i seggi parlamentari a un numero tanto alto da consentire di conquistarne uno anche a chi abbia avuto solo – faccio per dire – 100 voti: sennò, perché 100 elettori – ma a questo punto anche 50 o 25 – dovrebbero rimanere senza rappresentante?
In mancanza di una scala 1:1 – e dunque in ogni momento di democrazia rappresentativa – ci saranno sempre elettori che non saranno stati in grado di esprimere un proprio rappresentante, e non si potrà certo chiudere un occhio sul fatto che saranno pochi, a voler fare della rappresentatività un principio irrinunciabile.
Anticipo lobiezione di chi mi dirà che, portando a 400 il numero dei deputati e a 100 quello dei senatori, sui 51 milioni e dispari di aventi diritto al voto aumenteranno quelli che non avranno un rappresentante: sorvolando sulla crescente percentuale di astenuti, che non sembra destare analoga preoccupazione, direi che tutto sta nel tipo di legge elettorale che si intende adottare e nel modo di definire i collegi, salvo il considerare non democratici i paesi in cui il rapporto eletti/elettori è più o meno simile a quello che produrrebbe la riforma costituzionale, che comunque dovrà passare al vaglio referendario, e dunque potrà essere bocciata nel caso sia giudicata «un rischio per la democrazia» (Huffington Post) oppure, consegnando il dubbio allinquietudine, qualcosa «che può portarci verso terre ancora incognite» (Il Mattino). E tuttavia, fin dora, è giusto porgere lorecchio a questi allarmi.
Ridurre il numero dei parlamentari è «un rischio per la democrazia» per Gregorio De Falco, quello del «sali a bordo, cazzo!». Tutti condivisibili, gli argomenti coi quali illustra la natura demagogica delliniziativa del M5S, ma sul perché la democrazia corra dei rischi si fa fatica a seguirlo. «Quei numeri sono fissati in Costituzione secondo criteri razionali, allo scopo di ottenere il miglior rapporto tra eletti ed elettori ed al fine di dare sostanza reale al concetto di rappresentanza politica». Quali «criteri razionali», che non siano già saltati dal 1948 a oggi. È cambiato il numero degli aventi diritto al voto, si è uniformata la durata del mandato alla Camera e al Senato, sono completamente cambiate (e un’infinità di volte) legge elettorale e composizione dei collegi.
Ma, poi, cosa renderebbe poco democratico il rapporto di un eletto ogni 114.000 abitanti, come accade in Germania, rispetto al rapporto di un eletto ogni 63.000, come accade in Italia? (Evitiamo di parlare dei Stati Uniti dove 435 membri del la Camera dei rappresentanti e 100 membri del Senato rappresentano 330 milioni di abitanti per non incorrere nellimmancabile «ma è diverso!». Certo, ogni cosa è diversa da ogni altra cosa, come daltronde lo è lItalia di oggi rispetto a quella di 70 anni fa: e allora, di grazia, quali «criteri razionali»?)
Peggio ancora col Babau «che può portarci verso terre ancora incognite»: Massimo Adinolfi, ormai specializzato in argomentazioni a lingua di Menelicche, nemmeno accenna a cosa ci attenderebbe, limitandosi a lamentare che attorno allultima riforma costituzionale, quella che il 4 dicembre 2016 fu ricacciata in gola a Renzi, cera più ansia. Comè che allora si temeva una deriva autoritaria o oggi no?
«Tre anni fa, tutti o quasi avevamo imparato a usare la fatale formula: “il combinato disposto”. Una roba che prima maneggiavano solo i giuristi è diventata, in quel frangente, patrimonio di tutti gli italiani. A tavola capitava che si dicesse: il combinato disposto di primo e secondo piatto mi ha portato sino alla sazietà. Da non credere. Ma era una faccenda seria: era la riforma costituzionale unita alla legge elettorale ciò di cui si paventavano conseguenze nefaste sugli equilibri tra i poteri. Caso vuole però che la legge elettorale non sia nel frattempo mutata, e che dunque ci vorrebbe qualcuno che spiegasse se il combinato disposto, per l’appunto, di Rosatellum e Parlamento snello non comporti effettivi distorsivi sulla rappresentanza parlamentare. Invece: nessuna mobilitazione. Eppure non è uno scherzo: se tu riduci il numero dei parlamentari innalzi indirettamente le soglie di sbarramento a discapito delle formazioni minori».
Qui davvero si è in difficoltà: sta a prenderci per il culo, lAdinolfi, per saggiare quanto siamo atarassici, o gli è saltato il salvavita nella ghiandola pineale? Quello del combinato disposto non era il Rosatellum, ma lItalicum: merda della stessa infima qualità, e tuttavia con differenze sostanziali, andasse a ripassarsele tra un numero da tabarin su Il Foglio e una serata della tournée «Adotta un filosofo». Riesce a immaginarselo, lAdinolfi, un combinato disposto di Italicum scritto da DAlimonte e di Parlamento riscritto dalla Boschi, oggi, con una Lega al di sopra del fatale 37%? Altro che star lì in posa da chiachiello sulle pagine de Il Mattino, sarebbe già in «villeggiatura» a Ventotene, col sole a picchiar duro su quella pettinatura a noce di cocco.
Notevole, però, quel «combinato disposto di primo e secondo piatto», che con due pennellate fa il ritratto al cittadino qualunque che si azzarda a mettere il naso in faccende troppo più grandi di lui, con tragicomico effetto. Dopo Massimo DAlema e Andrea Orlando, Adinolfi è pronto ad essere adottato da Myrta Merlino. Con migliori fortune, cordialmente gli auguriamo.


venerdì 5 luglio 2019

«Restiamo umani», a patto di far chiarezza sull’uomo


Per chi è credente, i diritti umani sono espressione delle prerogative che Dio ha conferito alla creatura che ha voluto a sua immagine e somiglianza. Tutto sommato non cambia molto per chi ritiene che i diritti umani nascano con luomo, espressione di ciò che la Natura gli conferisce in quanto uomo. In entrambi i casi è chiaro perché si tenga tanto alla distinzione tra diritti umani e diritti civili: Deus sive Natura, Natura sive Deus, i primi sarebbero connaturati alluomo, mentre i secondi sarebbero acquisiti.
Viene così ad essere implicitamente ammesso, quando non lo è in modo esplicito, che sia possibile una dimensione umana antecedente a storia, società e cultura, che di un homo fanno un civis. Intuibile, dunque, perché, per chi rigetta la tesi che luomo sia possibile fuori dalla dimensione storica, sociale e culturale, non ci sia alcuna differenza tra diritti umani e diritti civili: tutti i diritti sono acquisiti, tutti i diritti sono possibili solo come prodotti storici, come conquiste sociali e come costruzioni culturali, e, se per quelli umani si ha qualche ragione nel dichiararli inalienabili, è solo perché essi hanno trovato un più solido radicamento, in forza della insostituibile funzione che sono venuti ad assolvere come soluzioni a problemi non altrimenti risolvibili nel contesto che li sollevava.
Si pensi, per esempio, al più umano dei cosiddetti diritti umani, e cioè il diritto alla vita: potrà risultare insopportabile lidea che, con ciò, perda il sacro che gli verrebbe dallessere un dono di Dio o lineffabile che gli verrebbe dallessere scritto nel Dna della specie, ma anche il diritto alla vita è impensabile fuori dalla dimensione storica, sociale e culturale entro cui nasce, e si consolida, fino a diventare irrinunciabile, perché corrispettivo del divieto di uccidere, indispensabile a qualsiasi forma di convivenza. Tanto indispensabile, tanto irrinunciabile, da diventare indiscutibile. Tanto indiscutibile da meritare una mitopoietica che lo rendesse trascendente a storia, società e cultura, che si sarebbero limitate a riconoscerlo, piuttosto che a costruirlo.

Non diversamente è accaduto con gli altri diritti che definiamo umani, e il cui numero è venuto a crescere col ritenere di poter riconoscere in molti di quelli civili una natura trascendente del principio che li informa, in realtà conferendogliela. Si pensi, per esempio, al diritto di migrare, di cui non si ha traccia nel Bill of rights del 1789, né nella Déclaration des droits de l’homme et du citoyen del 1793, e che trova una sua prima formulazione solo con la Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948 («Ogni individuo ha diritto di lasciare qualsiasi paese, incluso il proprio, e di ritornare nel proprio paese», art. 13): evidente prodotto di un contesto storico, sociale e culturale, entro il quale la libertà di movimento prende ad assumere un valore pari ad altre libertà, come quella di espressione, di credo religioso, ecc., ma, una volta dichiarato diritto umano, chi potrà mai mettere in dubbio che sia stato Dio a rendere luomo libero di muoversi in lungo e in largo per il mondo o che questa libertà nasca con lui come espressione di unesigenza insopprimibile, insita alla sua natura, che è poi la fattispecie umana della Natura? Eppure si è sempre migrato. Del fenomeno si ha ampia documentazione fin dalla preistoria, che poi altro non è che storia cui manca una documentazione scritta, dunque più povera di informazioni, comunque sufficienti a poter dar per certa, fin da allora, lesistenza di pur embrionali forme di società e cultura.
Se il fenomeno ci accompagna da sempre, perché cè voluto tanto a capire che si trattasse di un diritto umano? Perché per un problema come quello del pericolo di morte per mano di un proprio simile si è fatto tanto in fretta a trovare accordo su un divieto di uccidere che quasi subito si è dato forza in diritto alla vita, mentre per un problema come quello delle migrazioni si è impiegato tutto questo tempo per concepire come diritto la libertà di «lasciare qualsiasi paese, incluso il proprio»? La risposta a questa domanda impone un sacrificio in tutto simile a quello di rinunciare a immaginare un Deus sive Natura o una Natura sive Deus come scaturigini di diritti umani: la mera «libertà di» (ma per molti versi questo accade anche per «libertà da») non diventa un «diritto» fino a quando non riesce ad essere percepita come propria libertà da parte di chi ha il potere di decidere per tutti, investito dellautorità che gli è conferita dal consenso di chi lo elegge a garante dei propri interessi. È in questo modo che si spiega perché quello di migrare divenga un diritto solo nel 1948: dopo limmane massacro, il mondo ha bisogno di sterilizzare il concetto di nazione e di desacralizzare il limes.

Cè stato chi ha colto il problema che si pone col conferire la «trascendenza» dell«umano» all«immanenza» del «civile» (per quanto fin qui detto mi auguro che le virgolette diano il dovuto senso ai termini), ma neanche vale la pena di dire chi sia, perché non è andato più in là dellindorare il paradosso con lespediente retorico di un immaginifico «diritto naturale storicamente acquisito», temerariamente proposto come nuova categoria giurisdizionale. Il patetico tentativo, tuttavia, è degno di nota, perché emblematico del fallimento cui si va incontro quando si chiama la morale che informa ogni giusnaturalismo in soccorso di un principio che non abbia la necessaria forza politica per imporsi o per conservare le posizioni precedentemente conquistate, il che sul piano pratico traduce quel che sul piano logico è la debolezza delle tautologie che pretendono il crisma dellautoevidenza che non necessita di argomenti per persuadere, e che di regola, quando la pretesa non è soddisfatta, evocano lantitesi tra legge e giustizia.
Sono questi fallimenti che lasciano il campo libero agli pseudoargomenti che invece riescono a persuadere in forza dellappello a suggestioni e a pregiudizi. Ed è questo che in buona sostanza è accaduto con lappello alle ragioni umanitarie per cercare di persuadere lopinione pubblica a quell«accogliamoli tutti» che al momento pare aver la peggio con l’opposto «porti chiusi», se è vero, come è vero, che una vicenda come quella della SeaWatch, pure chiusasi con un clamoroso scacco inflitto a Salvini, ha segnato un sensibile incremento dei consensi in favore della Lega, che i sondaggi danno ormai al 38%. In ultima analisi, infatti, è accaduto che, almeno nella sua declinazione del dovere di soccorso a migranti in pericolo di vita, il diritto di migrare ha vinto in virtù di presidi giurisdizionali nazionali e sovranazionali, correttamente recepiti dai dispositivi giudiziari che hanno infine consentito il buon esito della vicenda; e tuttavia, seppur di poco, si è ulteriormente indebolita l’autoevidenza di quel «restiamo umani» che chiama Dio e Natura a proclamare inviolabile il «diritto naturale storicamente acquisito» di poter lasciare il proprio paese, a maggior ragione, poi, se in forza del bisogno di sfuggire a guerra o fame; Salvini ha perso, insomma, e ha perso contro la legge e contro la giustizia, ma continua a vincere, nel senso che continua ad accrescere il consenso alla sua scellerata azione di governo, che in sostanza pretende di sospendere gli effetti che il diritto naturale ha fin qui sortito su quello positivo.

Giustamente gli si rinfaccia di tradire il Vangelo che sbandiera, ma si fa il torto di non capire che anche nel punto dove la morale cristiana non fa sconti e recita che «le nazioni più ricche sono tenute ad accogliere lo straniero...», non può fare a meno di concedere che a quest’obbligo esse sono tenute «... nella misura del possibile» (Catechismo, 2241), un «possibile» di cui solo chi è chiamato al governo della cosa pubblica può rispondere. Traslando dalla dottrina morale alla pastorale, «si tratterà di coniugare l’accoglienza che si deve a tutti gli esseri umani, specie se indigenti, con la valutazione delle condizioni indispensabili per una vita dignitosa e pacifica per gli abitanti originari e per quelli sopraggiunti» (Giovanni Paolo II, Messaggio per la 97ª Giornata del Migrante e del Rifugiato): «valutazione» che giocoforza non potrà che essere politica, con quanto ne consegue sul modello dimpiego delle risorse pubbliche che ottiene il maggior consenso da parte dellelettorato. Un elettorato che, da un lato, sembra sempre più incline a considerare assai ridotta la «misura del possibile» e, dall’altro, non pare cogliere alcuna contraddizione tra levangelico «ama il prossimo tuo» e il salviniano «prima gli italiani», anche qui grazie a ciò la dottrina morale concede come scappatoia: è significativo infatti che Dio detti lobbligo di onorare i propri genitori subito «dopo di lui» (Catechismo, 2197), imperativo che pretende estensione ai «doveri dei cittadini verso la loro patria» (Catechismo, 2199), riproducendo un gradiente di carità che nel proximus distingue un propior. Né le cose sembrano andar molto meglio presso l’elettorato che si dichiara «di sinistra», qualunque cosa possa ormai dire: un sondaggio che alcuni giorni fa faceva capolino tra le chiacchiere di un talk show su La7 li dava per un 15% in favore della condotta tenuta da Salvini sul caso SeaWatch.

Ma questa, ovviamente, è solo la premessa a un discorso che voglia azzardarsi a far chiarezza su cosa esattamente voglia dire «restiamo umani», e a cosa possa ragionevolmente aspirare sul piano politico, il che mi pare sia possibile solo dopo aver fatto chiarezza sull’uomo. In tal senso non ritengo sia superfluo rammentare che chi ha coniato il motto che sembra essere la soluzione di ogni cosiddetta crisi umanitaria sia morto per mano di chi, a stretto rigor di logica, gli doveva gratitudine. I suoi assassini appartenevano a una cellula terroristica «impazzita», così si affrettarono a definirla gli assennati terroristi di Hamas, ma erano palestinesi non meno di tutti gli altri palestinesi alla cui causa si era votato fin da una decina danni prima. Cosa tradì la grande nobiltà danimo e il generoso entusiasmo che portarono Vittorio Arrigoni a spendersi senza riserve in favore del popolo palestinese? Probabilmente il fatto che ogni crisi umanitaria è sempre più complessa di quanto appare a chi ritiene che il proprio impegno possa contribuire ad attenuarne la gravità, sennò, di là dall’effettivo contributo portato, almeno a dar risposta a quell’urgenza morale che impone un qualsivoglia mettersi in gioco. Ogni crisi umanitaria, infatti, non sta solo nei problemi che solleva, ma anche in quelli che l’hanno generata, e risolvere gli uni senza risolvere gli altri serve certamente a far fronte a un’emergenza – se non del tutto, almeno in parte, che comunque non è poco – ma anche a perpetuarla, come in fondo accade con l’elemosina, che è cosa bella, buona e giusta, ma non risolve affatto il problema della povertà, anzi, per certi versi lo rende insuperabile. 


sabato 22 giugno 2019

Recensione di una recensione


«Dopo aver accompagnato moglie e figlio alla stazione ferroviaria mandandoli in vacanza nel Maine per farli sfuggire allafa estiva metropolitana di Manhattan, Richard Sherman rincasa», così recita lincipit della trama di The Seven Year Itch (Billy Wilder, 1955), che in Italia arrivò sugli schermi col titolo Quando la moglie è in vacanza. Canovaccio in tutto simile a quello dello scorso venerdì, eccezion fatta per il rincasare: certo che Marilyn Monroe non potesse aver preso in affitto lappartamento sopra il mio, non mi sono affrettato e, bighellonando in auto per la città, mi son trovato nei pressi del Palazzo Serra di Cassano, sede dellIstituto Italiano per gli Studi Filosofici, dove ho appresso si stesse tenendo la presentazione di un libro, Storia dellItalia corrotta di Isaia Sales e Simona Melorio, edito da Rubbettino.
Niente di comparabile allo spettacolo di una biondona che dà il fresco alle sue grazie su una grata daerazione, certo, ma la cosa si è rivelata dun certo interesse, sicché ho comprato il volume, un bel librone di 322 pagine che illustra tutti gli episodi di corruzione noti succedutisi in Italia dallUnità allaltrieri: doviziosa documentazione, ineccepibile trattamento delle fonti, insomma, un onesto lavoro di scavo, tanto più encomiabile per la cura riservata ai casi poco noti ai più, incontestabili sul piano degli elementi addotti a prova ed emblematici della diffusione del fenomeno proprio perché sottratti all’effetto mitopoietico della dimensione dello scandalo pubblico di più grande portata. Citarne qui qualcuno, se questa fosse una recensione di Storia dellItalia corrotta, potrebbe tornar utile a consigliarvene lacquisto, ma il titolo del post non lo concede: questa vuol essere la recensione di una recensione, quella che trovate a pag. 2 de Il Foglio di venerdì 21 giugno, a firma di Massimo Adinolfi (“La storia dellItalia corrotta” che non spiega niente della nostra storia).
Recensione oltremodo malevola, il che di per se stesso non sarebbe biasimevole, perché la stroncatura è quasi sempre un genere più interessante della marchetta, oltre ad essere assai più nobile. Il problema sta nel fatto che una stroncatura devessere argomentata in modo stringente, senza lasciare il ben che minimo appiglio al sospetto che la critica sia preconcetta o, peggio, sia piegata a un fine diverso da quello di dimostrare che il libro in questione non valga la pena di essere acquistato, mentre quella che Massimo Adinolfi riserva a Storia dellItalia corrotta è argomentata in modo così sgangherato da offrire innumerevoli appigli ad altrettanti sospetti. E non è tutto, perché questa sgangheratezza saddobba della sciagurata spocchia che pretende considerazione in cambio della ruminazione di qualche garzantina.
Quello che pare aver maldisposto Massimo Adinolfi nei confronti del libro, non sappiamo se impedendogli di andar oltre le prime quattro pagine, le uniche che prende in considerazione, è l’«accumulazione», figura retorica che si presenta in forma di elenco, e qui l’elenco è quello di «re, capi di governo, ministri, parlamentari, presidenti di Provincia, presidenti di Regione, presidenti della Repubblica, sindaci, assessori comunali, assessori provinciali, assessori regionali, consiglieri regionali, consiglieri comunali, consiglieri di circoscrizione, consiglieri di quartieri, consiglieri provinciali, membri delle Comunità montane» coinvolti in episodi di corruzione.
Non dovrebbe irritare il fatto che di questi episodi siano stati protagonisti uomini che, a vario titolo, erano tenuti alla tutela del bene comune, venendo poi meno a questobbligo istituzionale per perseguire, a discapito dellinteresse pubblico, quello privato, senza avere in alcun conto le leggi dello stato e quelle morali? No, quello che irrita Massimo Adinolfi è il fatto che la lista «viene giù fitta e insistente come una pioggia monsonica», anzi, come un «diluvio». Ma questa non è la sola «accumulazione» che lo irrita, perché c’è pure quella fastidiosa sequenza di «se», che apre ben 25 protasi («se le società, pubbliche e private... se i manager, pubblici e privati... se i grandi gruppi... se le grandi opere... se i concorsi... se i partiti... se le professioni... se le banche... se la magistratura...»), ma che gli pare «chied[a] di essere letto come un “se è vero, come è vero, che”», per arrivare ad insinuare in forma di domanda retorica un assunto che in realtà sarebbe fallace («come si può pensare allora che la corruzione non sia un dato capillare, un elemento di lunga durata della storia italiana, un problema del nostro stato nazione?»).
Neanche sarebbe un’«accumulazione», quest’ultima, perché in realtà è un’anafora, ma Massimo Adinolfi ne è comunque tanto disturbato da non riuscire a produrre neppure la schifezza della schifezza della schifezza di un’obiezione che sia degna di dirsi obiezione a quell’assunto, se non quella che, a fronte delle 322 pagine zeppe di fatti circostanziati e documentati, obiezione non è: tutta roba percepita, questa corruzione, e «Sales e Melorio non fanno nulla per diminuire la distanza fra realtà e rappresentazione».
Cosa avrebbero dovuto fare per diminuirla? Probabilmente sfoltire, sfoltire, e su quello che restava essere più indulgenti, come solitamente sulla corruzione è Il Foglio, il cui fondatore ha sempre sostenuto che la corruzione è un ingrediente ineliminabile dalle forma di vita associata, concedendo possa essere combattuta, ma senza metterci troppa indignazione, arrivando addirittura a teorizzare che «in politica non si tratta affatto di avere la capacità di “ricattare” gli altri, di condizionarli ed eventualmente ricattarli, dove il termine va inteso in senso politico, paralegale. Il punto fondamentale non è che tu devi essere capace di ricattare, è che tu devi essere ricattabile»; in senso «paralegale», ovviamente, dove il «para-» sembra essere proprio il margine di indulgenza da concedere a una rete di rapporti che senza l’ineliminabile ingrediente della corruzione può addirittura correre il rischio di lacerarsi.
Prendete Micromega 1/2002 e andate a pag. 139-140, è il punto in cui, conversando con Piercamillo Davigo, Giuliano Ferrara illustra magistralmente questa sua teoria del «paralegale» come statuto della politica: «La politica è senza dubbio il regno dell’ambiguità. Si distingue dalla dimensione etica privata, personale, individuale, di coscienza. E si distingue anche da una concezione lineare e non ambigua della legalità. In altri termini: la politica, che è rapporto di forze, ricerca del consenso, una delle manifestazioni del modo di organizzarsi e convivere degli uomini, forse la più rilevante, è un’altra cosa rispetto alla concezione lineare e autoreferenziale della legalità». Riesponendoci alla «pioggia monsonica», diremmo che «re, capi di governo, ministri, parlamentari, presidenti di Provincia, presidenti di Regione, presidenti della Repubblica, sindaci, assessori comunali, assessori provinciali, assessori regionali, consiglieri regionali, consiglieri comunali, consiglieri di circoscrizione, consiglieri di quartieri, consiglieri provinciali, membri delle Comunità montane» sono in qualche modo a legibus soluti: sembra corruzione, quella in cui vengono sorpresi, quando accade che vengano sorpresi, ma la percezione è fallace, perché la rappresentazione è ben distante dalla realtà, e la realtà è che non è corretto calcare a forza sugli episodi di corruzione di cui si macchiano i parametri adottati per quelli di cui si macchiano i comuni cittadini. In questo, allora, sì, «Sales e Melorio non fanno nulla per diminuire la distanza fra realtà e rappresentazione».
Ecco perché non è ricevibile la controbiezione che Simona Melorio anticipava venerdì scorso, quando teneva a far presente che nello scrivere Storia dellItalia corrotta si era deciso di rinunciare ad ogni approccio di tipo statistico, inevitabilmente soggetto alle inferenze di tipo percettivo: non è ricevibile perché è il semplice parlare di corruzione, ancorché documentata e relativa a casi reali, a mettere in discussione lo statuto che rende a legibus soluti chi è chiamato dalla politica a rivestire un ruolo istituzionale.
In tal senso, forse, andrebbe rivisto il senso della recensione di Massimo Adinolfi: più che una stroncatura di Storia dellItalia corrotta, è una marchetta alla teoria di Giuliano Ferrara, ovviamente col ritardo dovuto al fatto che fino a uno o due anni fa era consulente del Ministero della Giustizia. Questo consente, da un lato, di trovare appiglio a ogni sospetto e, dallaltro, di spiegare laltrimenti inspiegabile chiusa della recensione: «Rimane il fatto – scrive – che con la corruzione e il suo carattere endemico non si spiega quasi nulla della storia italiana: non si spiega né il fascismo né la democrazia, né la scelta atlantica né il terrorismo, non il miracolo economico e neppure le mafie. E allora a cosa serve questa percussiva “Storia dell’Italia corrotta”?».
In quale punto del volume è dichiarata l’intenzione di spiegare la storia italiana con la corruzione e il suo carattere endemico? Gli autori non si azzardano a farlo neppure in modo implicito, si limitano a considerare che i casi di corruzione trattati coprano un arco temporale coincidente a quello che va dall’Unità d’Italia ai nostri giorni, senza lasciare buchi, quasi sempre con ampie aree di sovrapposizione ed intersecazione. Quando poi scrivono che la corruzione è da ritenersi «un elemento connaturato al senso prevalente dello stato che si è affermato lungo tutta la storia della costruzione della nazione», dove si legge, come crede di poter fare Massimo Adinolfi, che la corruzione ne sarebbe «costitutiva»? Costitutivo è ciò che concorre in modo essenziale alla formazione di qualcosa; connaturato è al più ciò che vi radicato dentro ab initio; insito ad essa, certo, ma donde se ne dovrebbe trarre che ne informa ratio e sviluppo?
Qui non possiamo glissare come abbiamo fatto sulla confusione tra accumulazione e anafora, qui di «percussivo» ci par essere solo la malafede di Massimo Adinolfi. Perché questa Storia dell’Italia corrotta ci racconta episodi di corruzione verificatisi negli ultimi 150 anni, ma in quale passaggio del libro si afferma che fu la corruzione a dare forma e/o sostanza a fascismo, democrazia, scelta atlantica, boom economico, mafia e terrorismo? E sì che in più di un caso alla tentazione si potrebbe anche cedere. L’assassinio di Giacomo Matteotti, che per consenso unanime degli storici segna una svolta dei tratti offerti dal fascismo, non si ebbe per impedirgli di rendere pubblica la tangente intascata dal fratello del Duce? Rompere l’alleanza di governo con comunisti e socialisti, in cambio di qualche milionata di dollari gentilmente offerti ad Alcide De Gasperi, non configura un atto corruttivo? Il denaro dato a brigatisti e camorristi perché fosse salvato il culo a Ciro Cirillo, e a meno di tre anni di distanza da quando con Aldo Moro era prevalsa la linea della fermezza, lo rubrichiamo a investimento pubblico?