C’è
chi sostiene che la Sinistra ha perso tutto ciò che l’ha
contraddistinta nella seconda metà del Novecento, che già era meno
di quanto la contraddistingueva prima, sicché oggi sarebbe solo un
guscio vuoto, un tanto per dire. Bene, un tweet di Luca Bizzarri ci
offre modo di smentire questa tesi.
Perché, certo, la Sinistra avrà
smarrito l’ideale di giustizia sociale, sostituendolo con
quell’anodino solidarismo che di fatto è indistinguibile dal
cosiddetto «capitalismo caritatevole».
Avrà, altresì, rinnegato
quasi tutti i miti che un tempo considerava sacri, anche questo è
vero, per non parlare del suo Pantheon, in cui oggi, al posto di
Marx, Engels e Lenin, troviamo Saviano, Jovanotti e la Rackete.
E sì,
anche il suo radicamento sociale non sarà più quello di una volta,
come dimostra il fatto che ad una ad una sono cadute quasi tutte le
sue storiche roccaforti, e ormai operai e pensionati votano in gran
parte Lega.
D’accordo anche sul fatto che conseguentemente pure
tutta la sua estetica è andata a farsi fottere: sono iperboli, è
ovvio, ma si può convenire che «partito ztl» e «comunisti col
rolex» rilevino comunque il tratto della mutazione cui è andata
incontro l’etichetta che un tempo garantiva la genuinità del
prodotto.
Tutto perso, però, no: in quanto a presunzione di
superiorità morale e culturale, la Sinistra resta quella di sempre,
la stessa di quando questa sua presunzione riusciva ad ottenere un
ben più ampio riconoscimento, che tuttavia oggi residua in molte
enclavi d’opinione pubblica (salotti, case editrici, centri
sociali, nicchie televisive, conventicole digitali, ecc.).
Il tweet
di Luca Bizzarri ha il pregio di essere emblematico di questa
presunzione ed è per questo che merita attenzione.
Non
credo sia necessario dar ragguagli sul contesto, noto ai più e
peraltro tutto esplicito nel testo: Checco Zalone lancia la
canzone-trailer che annuncia l’uscita del suo prossimo film e
l’Italia si spacca tra chi ci legge quello che descrive, e cioè la
molesta invadenza di un immigrato nella vita di un italiano medio, e
chi dà per scontato che quella sia ironia, e cioè la figura
retorica con la quale – qui non sarà superfluo rammentare – si
dice il contrario di quel che in realtà s’intende dire.
Tertium
non datur, com’è d’uso nelle guerre civili e nei suoi
succedanei: o si capisce che quella è ironia, e che con essa Checco
Zalone intende sbertucciare le risibili paure che l’italiano medio
nutre per un immigrato che in realtà non è mai invadente, non è
mai molesto, o si è ignoranti e xenofobi, cioè leghisti. Vedremo
perché in realtà qui il tertium c’è, per il momento pensiamo ad
analizzare il tweet.
Senza
virgola tra invocazione e vocativo, che pure era ancora in uso ai
tempi de l’Unità di «Scusasi, Principessa», Luca Bizzarri
attacca con un «Scusaci Checco» che della presunzione di
superiorità morale e culturale mostra la vocazione a farsi carico di
colpe altrui, in questo caso di chi ha oltraggiosamente travisato il
messaggio dell’artista, che, in quanto artista, è chiaro che ne
avrà sofferto.
Un farsi carico di colpe altrui che è ulteriormente
ribadito da quanto segue, quel «siamo diventati un paese che non
capisce le battute, che ha perso il senso dell’umorismo e il senso
del ridicolo», nel quale il «noi» rivela l’autoinvestura a
rappresentare il paese nel suo insieme, come viene naturale a chi se
ne sente paternalisticamente responsabile in virtù delle sue
superiori virtù.
La psicoanalisi ci porterebbe nelle desolate plaghe
del delirio di grandezza, e non è il caso, basti rilevare in questo
atteggiamento il caratteristico sentirsi in missione permanente per
l’emancipazione dell’Umanità dal bisogno e dall’errore. Del
tutto comprensibile, quindi, la nota di dolente scoramento nel
constatare che tanto ancora c’è da fare se dai più refrattari a
emanciparsi s’è dovuto sentire: «Se non l’abbiamo capita in
tanti[,] avremo qualche ragione». Altrettanto comprensibile l’amaro
sfogo in chiusa: «Come se i deficienti, per definizione, debbano
essere pochi».
Come
non essere d’accordo con Luca Bizzarri? Siamo circondati da
deficienti: deficienti che in «Immigrato» vedono rappresentato il malessere che in larghi
strati della popolazione italiana è venuto sempre più ad acuirsi a fronte di un’immigrazione che le sottrae risorse e ne minaccia identità e tradizioni, cogliendo così in Checco Zalone chi trova una ragione della xenofobia che ne deriva, cui conferisce dignità costruendo un idealtipo che la rappresenta nella sua dimensione tragicomica; ma pure deficienti che invece ci
vedono ironia.
Come,
non è ironia, quella di Checco Zalone? Se le parole hanno un senso,
e «ironia» ne ha uno ben preciso, no, quella di Checco Zalone non è
ironia.
Il Treccani dice che si tratta di una «figura retorica che
consiste nell’esprimere il contrario di ciò che in realtà si
vuole significare» e che ha per scopo quello di «evidenziare
l’insostenibilità di ciò che si simula di sostenere o la validità
di ciò che si finge di disapprovare».
Per restare al genere canoro,
un esempio di canzone perfettamente ironica è quella di
Cappelletti e Lamberti, portata al successo da Ugolino, nel 1969 (non
farete fatica a trovarla su Youtube): descrizione della giornata
infernale di un tizio che a ogni strofa fa seguire a ritornello uno
sconsolato e amaro «ma che bella giornata!», che dà titolo alla
canzone. Qui sì che si evidenzia
l’insostenibilità di ciò che si simula di sostenere, esprimendo
il contrario di ciò che in realtà si vuole significare.
È così
che accade con «Immigrato»?
È ironico il lamento del protagonista che viene ritratto alle prese
con un immigrato che, «all’uscita
del supermercato», «al distributore di benzina» e «al semaforo»,
lo assilla con la richiesta di «due euro per un panino»? È ironico
lo sconcerto nel ritrovarselo, tornato a casa dopo una giornata di
lavoro, «senza permesso nel soggiorno», con inequivoco indizio che
si sia scopato la moglie?
Certo, con la tresca tra moglie e immigrato
ci troviamo dinanzi a un luogo comune che da sempre nutre la
xenofobia: gli immigrati vengono a rubarci le donne. Ma questo è proprio quanto accade al protagonista di «Immigrato»,
che tuttavia al fatto pare rassegnarsi con la stessa arrendevole passività
che in precedenza ha offerto all’insistenza
con la quale gli era richiesta la solita monetina, peraltro mai
negata.
Dove
sarebbe, qui, la validità di ciò che si finge di disapprovare? Dove
sarebbe il contrario di ciò che in realtà si vuole significare? In
tutta evidenza non c’è traccia di ironia. Siamo piuttosto alla
rappresentazione delle paure dello xenofobo, alle quali si dà corpo
con situazioni fattuali che descrivono l’invadenza/invasione dell’immigrato/immigrazione come oggettivamente molesta: avremmo ironia solo se assumessimo come
pacifico che la molestia è in realtà cosa gradevole e che è
piacevole trovarsi un estraneo nel letto coniugale. Temo sia
difficile.
È per questo che «Immigrato» va letto in modo diverso da come si è voluto leggerlo da un lato (Checco Zalone ammicca agli xenofobi) e dall’altro (ma quale ammicco, smerda gli xenofobi): il tertium di cui dicevo è che resta nel mezzo, e lì, giocando con ambiguità ed equivoco, fa contenti tutti: allo xenofobo regala il tragicomico ritratto di un italiano in cui identificarsi come vittima, che all’antixenofobo rifila come caricatura dello xenofobo da sbertucciare.
Operazione assai sofisticata, che però non è detto sia stata scientemente elaborata, perché, come su queste pagine dicevo tempo fa riguardo al grattarsi il culo, per farlo non c’è bisogno di conoscere tutto il complesso meccanismo che coordina le almeno tre dozzine di muscoli interessati, né le sette aree neuronali implicate, nel grattarselo.
Parliamo
di sardine, vi va? Bene, allora comincerei col dire che ritengo
impropri i termini che sono in uso per indicare l’ordine
(Clupeiformes) e la famiglia (Clupeidae) in cui Walbaum
sistemò la Sardina pilchardus, e questo perché tutte le
fonti antiche che fanno cenno alla clupea (Ennio, Plinio,
Ausonio, ecc.) ce la descrivono come pesce assai simile alla lampreda
(Petromyzon marinus), che ovviamente non ha niente a che
vedere con la sardina. D’altronde c’è da capirlo, povero
Walbaum, ai suoi tempi il Systema naturae di Linneo era una
Bibbia e lì dentro l’aringa, in tutto affine alla sardina fatta
eccezione per la taglia, era Clupea harengus, ordine
Clupeiformes, famiglia Clupeidae, e quindi...
Vi
sto prendendo in giro, penserete. Ma no, vi stavo solo
didascalizzando – in modo grossolano, convengo – uno dei più
comuni infortuni in cui si incorre quando ci si mette a discutere
senza un preliminare accordo sul significato da dare al termine che
designa l’oggetto in discussione, dando per scontato sia superfluo,
quando invece molto spesso non lo è affatto. Molto parlare a vuoto
si consuma proprio in questo modo, non credete?
Qui,
per evitare l’infortunio in cui celiavo di coinvolgervi, bastava
dire Sardine
o «sardine»:
la maiuscola o le virgolette avrebbero fatto capire che non intendevo
parlare dei gustosi pesciolini ricchi di omega-3, ma degli aderenti
alla cosa
che ha preso vita con la manifestazione tenutasi in Piazza Maggiore,
a Bologna, lo scorso 14 novembre. Manifestazione cui i promotori si
limitavano a dare come obiettivo unicamente quello di «dimostrare
che a Bologna siamo più di loro»,
e cioè più dei 5.570 che può ospitare il Paladozza, dove quello
stesso giorno si teneva un comizio elettorale di Salvini: «sardine»,
quindi, perché, tenuto conto della capienza del crescentone di
Piazza Maggiore, in 6.000 ci si poteva stare solo «stretti
come».
Successo
assai superiore alle aspettative, con conseguente decisione di
replicare l’iniziativa in altre piazze (Modena, Sorrento, Genova,
Firenze, Napoli, ecc.), che otteneva risultati ancor più
lusinghieri, con comprensibile interesse dei media, che promuovevano
la cosa
a movimento.
Ed è qui che, tornando a quanto dicevamo prima, direi si corra il
rischio di dare per scontato quello che non lo è, perché in realtà
per movimento
si intende l’«azione
convergente, più o meno organizzata, di più persone che hanno
ideologie e programmi operativi comuni»
(Treccani).
In via preliminare, dunque, decidiamo: possiamo definire movimento,
quello delle «sardine»?
Nessun problema in quanto a convergenza ed organizzazione, ma quale
ideologia, quale programma operativo, hanno in comune i partecipanti
a queste manifestazioni di piazza?
«È
venuto il momento
– si leggeva nell’annuncio
del «primo
flash mob ittico della storia» (così
presentato nel lancio dalle pagine di Facebook)
– di
cambiare l’inerzia della retorica populista, di dimostrare che i
numeri contano più della prepotenza, che la testa viene prima della
pancia e che le persone vengono prima degli account social».
Vederci ideologia mi pare estremamente arduo, ma almeno c’era
traccia di un programma operativo? Se sì, sembrava darsi
nell’effimera
presenza in piazza «dalle
ore 20:30 alle 20:45» di quel
14 novembre, che in coda diventavano «20
minuti oggi per salvare 5 anni del tuo futuro»:
dobbiamo ritenere che in quei 5 minuti di scarto ci fosse in
nuce
il «fenomeno
di aggregazione e mobilitazione di individui che, in seguito a
mutamenti socioeconomici intervenuti, sviluppano la coscienza della
loro identità di gruppo sociale e si impegnano attivamente per
realizzare un mutamento della loro condizione o dello stesso sistema
politico» (ancora
Treccani)?
Non credo si possa arrivare a tanto: le «6.000
sardine contro Salvini» sembrano
limitarsi a esprimere avversione – legittima avversione, peraltro
ampiamente condivisibile, come dimostrano le simpatie di cui son
state prontamente fatte oggetto – a chi in questo paese oggi sta
all’opposizione,
sicché non si capisce a quale «mutamento
del sistema politico» possano
mai aspirare visto che in sostanza scendono in piazza in difesa di
quello che Salvini – si paventa – vorrebbe sovvertire.
Né credo
vada meglio con quella «identità
di gruppo sociale» di
cui dovrebbero avere «coscienza»,
perché, se è a un manifesto che di solito si affida il compito di
chiarire natura e intenti di un movimento, quello delle «sardine»
lo
elude: quello che mobilita, infatti, non è un «gruppo
sociale»,
ma uno stato d’animo,
sicché sarebbe più opportuno parlare di un «manifesto»,
mettendoci le stesse virgolette che abbiamo messo a sardine
e a movimento.
Chi
siete? «Siamo
un popolo di persone normali, di tutte le età: amiamo le nostre case
e le nostre famiglie, cerchiamo di impegnarci nel nostro lavoro, nel
volontariato, nello sport, nel tempo libero. Mettiamo passione
nell’aiutare gli altri, quando e come possiamo. Amiamo le cose
divertenti, la bellezza, la non violenza (verbale e fisica), la
creatività, l’ascolto».
E
questo sarebbe un «gruppo
sociale»?
Non scherziamo, si tratta solo di bellurie
gettate in mare come reti a maglie molto strette per pescare di
tutto, a strascico. Non c’è da meravigliarsi che dentro possa
finirci ogni cosa, una viscida bavosa come la Pascale («Potrei
scendere in piazza con loro»),
una velenosa manta di fondale come Ferrara («Lasciate
nuotare in pace le sardine, fenomeno consolante e nuovo»),
un Cerasa che da pesce cardinale si nutre di quello che a Ferrara è
rimasto incastrato tra i denti («La
bellezza delle sardine è quella di essere non solo un veicolo di
resistenza contro i nazionalismi nemici della libertà ma anche uno
specchio del nostro impegno personale per difenderci dagli amici
delle democrazie illiberali»)
e perfino uno spinoso pesce palla come il Mantellini («Le
piazze piene di sardine, sottolineando gli abissi della destra
populista, rendono palese, in maniera inedita e fragorosa, anche il
vuoto culturale del centro sinistra. Le sardine sono un’occasione»).
Dai
consensi che raccolgono, dalle speranze che nutrono, si ha
l’impressione che si tratti dell’ennesimo «populismo
dall’alto»,
espressione di un «popolo»
che ha la pretesa di rappresentare in esclusiva le ragioni del cuore
e del cervello nella perfetta sintesi di buon senso, buona educazione
e buoni sentimenti, a fronte del montante «populismo
dal basso»,
quello del «popolo»
che sa farsi forte delle ragioni del ventre, che è fegato e stomaco,
acido e bile, e naturalmente merda, ma anche milza, e cioè spleen,
che insieme è inquietudine e tedio, accidia e sordo malumore. Qui suppongo
sia superfluo segnalare quanto in entrambi casi siamo
all’organicismo, che, a dispetto dell’irriducibilità con la
quale rappresenta il conflitto sociale, in tasca ha già in partenza
la ricetta per risolverlo in trattativa e compromesso.
Nessuna
minaccia di guerra civile, dunque, nel fenomeno delle «sardine»,
anche se i toni suonano bellicosi, oltre che ridondanti di una
retorica assai sciatta, in qualche punto francamente ridicola: «Per
troppo tempo avete tirato la corda dei nostri sentimenti. L’avete
tesa troppo, e si è spezzata. Per anni avete rovesciato bugie e odio
su noi e i nostri concittadini: avete unito verità e menzogne,
rappresentando il loro mondo nel modo che più vi faceva comodo.
Avete approfittato della nostra buona fede, delle nostre paure e
difficoltà per rapire la nostra attenzione. Avete scelto di affogare
i vostri contenuti politici sotto un oceano di comunicazione vuota.
Di quei contenuti non è rimasto più nulla. Per troppo tempo vi
abbiamo lasciato fare. Per troppo tempo avete ridicolizzato argomenti
serissimi per proteggervi buttando tutto in caciara. Per troppo tempo
avete spinto i vostri più fedeli seguaci a insultare e distruggere
la vita delle persone sulla rete. Per troppo tempo vi abbiamo
lasciato campo libero, perché eravamo stupiti, storditi, inorriditi
da quanto in basso poteste arrivare. Adesso ci avete risvegliato. E
siete gli unici a dover avere paura. Siamo scesi in una piazza, ci
siamo guardati negli occhi, ci siamo contati. È stata energia pura.
Lo sapete cosa abbiamo capito? Che basta guardarsi attorno per
scoprire che siamo tanti, e molto più forti di voi».
Quello
che tuttavia rende evidente la reale natura del fenomeno, che
peraltro non è affatto nuovo (basti pensare a quel che De Magistris
è riuscito a confezionare a Napoli mettendo insieme spezzoni di
borghesia post-bassoliniana, sottoproletariato urbano, e centri
sociali), è l’irrinunciabile aggancio ai potentati partitici che
le «sardine» chiamano
a sostenere l’operazione, ma tenendosene fuori, per evitare il
rischio di delegittimarla come espressione della cosiddetta «società
civile»:«Crediamo ancora nella politica e nei politici con la P
maiuscola. In quelli che pur sbagliando ci provano, che pensano al
proprio interesse personale solo dopo aver pensato a quello di tutti
gli altri. Sono rimasti in pochi, ma ci sono». E chi sono, di
grazia? Perché non farne i nomi?
In
quanto al «nemico», niente di nuovo, cioè, per meglio dire, di
nuovo c’è che l’«uccidere un fascista non è reato» che le
teste calde mettevano a ciliegina sulla torta del cosiddetto «arco
costituzionale», che i partiti della Prima Repubblica si spartivano
col Manuale Cencelli, qui trova forma soffice (si fa per dire),
perfino rassicurante (si fa per dire), in un democraticissimo (si fa
per dire) «non avete il diritto di avere qualcuno che vi stia ad
ascoltare».
Poi, a sigillo, la citazione da una canzonetta,
l’inconfondibile firma di chi con la sensibilità, il gusto e la
cultura è rimasto ai tempi del liceo, quando il ventaglio
psicologico raramente esorbita dal Postalmarket delle emozioni
indossate dai cantautori. Provando a sostituire l’evocazione della
prosaica scatoletta di latta con quella indubbiamente assai più
lirica de Le acciughe [che] fanno il pallone mettendo
in fuga il predone, a Genova sarà la volta di De
André, ma a Bologna il genius loci è Dalla, e dunque:
«È chiaro che il pensiero dà fastidio, anche se chi pensa è
muto come un pesce. Anzi, è un pesce. E come pesce è difficile da
bloccare, perché lo protegge il mare. Com’è profondo il mare».
Resistendo alla tentazione di unirsi al coro, dove sarebbe questo
pensiero che dà fastidio?
Personalmente
sottoscrivo quanto ha detto Buttafuoco: «Sembrano
usciti da una canzone di Jovanotti: da Che Guevara a Madre Teresa,
un’unica chiesa... L’unica salamoia che li tiene è quella del
conformismo, perché non sono forse ascrivibili al Pd, ma di sicuro
lo sono al mainstrem, all’establishment... Sono tutti pronti per
diventare senatori a vita, se non fosse che la piazza degli aspiranti
è troppo affollata... Non fanno altro che lisciare il pelo nel verso
giusto. Se c’è una cosa certa, è che non sono ribelli: non sono
certo “indiani metropolitani”, non sono punk, sono benevolmente
accolti da tutti i giornali più importanti, nelle trasmissioni
fighette sono ospiti d’onore... Sono diventate delle star
funzionali alla perenne ricerca che la sinistra fa del “papa
straniero”, una volta è Saviano, una volta è l’attuale
pontefice, una volta lo vanno a trovare in Carola Rackete...». Parlava a braccio, gli si può scusare qualche sbavatura di stile.
Per
come fu vergato da Alfredo Rocco nel 1930, e per come ancora per poco
sarà dato leggerlo, l’art. 580 del Codice Penale non ammette
distinguo: stessa pena (da cinque a dodici anni di reclusione) per
chi istighi al suicidio, per chi rafforzi un proposito suicidiario e
per chi in qualsiasi modo aiuti qualcuno a suicidarsi. Se inscritta
nella logica che guarda alla vita come bene indisponibile, la cosa
regge egregiamente. Un po’ meno, però, nell’arrivare ad
affermare che la vita non sia nella disponibilità neppure di chi ne
è titolare; ancor meno, poi, a voler dare un senso
alla Costituzione nei punti in cui recita che «la
libertà personale è inviolabile» (art. 13) e che «nessuno
può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non
per disposizione di legge [ma che] la legge non può
in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona
umana» (art. 32).
Con la sentenza che la Consulta ha
depositato lo scorso 22 novembre pare si prenda atto che il rispetto
della persona umana sia leso allorquando la si obblighi a tollerare
ciò che, in certe condizioni, ma solo in certe condizioni, ella
ritiene intollerabile, perché viene affermata l’illegittimità
costituzionale dell’art. 580, ma limitatamente al punto in cui «non
esclude la punibilità di chi […] agevola l’esecuzione del
proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una
persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da
una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o
psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di
prendere decisioni libere e consapevoli». Se almeno in tali
situazioni pare passi il principio che «su se stesso, sul
proprio corpo e sulla propria mente, l’individuo è sovrano» (John
Stuart Mill, 1859), non si può fare a meno di notare che nella
sentenza residui comunque un’ultima resistenza all’accettare che
la vita appartenga interamente a chi la vive, laddove si dichiara che
il suicidio assistito è possibile solo in «una struttura
pubblica del servizio sanitario nazionale» e «previo parere
del comitato etico territorialmente competente».
È evidente che
tali limiti vengano posti a garanzia che la richiesta di eutanasia
sia espressione di un proposito maturato in piena autonomia, al
riparo dall’interferenza di ogni altro interesse che non sia quello
del richiedente. È altrettanto evidente, tuttavia, quanta sovranità
dell’individuo venga sacrificata col chiamare un «comitato
etico» a giudicare sulla legittimità della sua richiesta,
cui poi solo un «servizio sanitario nazionale» potrà
dare legittima risposta. In buona sostanza, siamo in presenza di una
soluzione di compromesso, perché, contrariamente a quanto afferma
chi più di tutti si è battuto perché l’art. 580 fosse messo in
discussione, la sentenza non «cancella la concezione da
Stato etico che ha ispirato il Codice penale del 1930» (Associazione
Luca Coscioni), ma si limita a registrare che lo Stato mitiga il
suo dettato etico, senza però rinunciare a dire l’ultima parola
sulla vita dell’individuo, pretendendo sia vincolante almeno
relativamente a condizioni e modalità di esecuzione della decisione
eutanasica: pur sempre «etico» il «comitato»,
pur sempre «pubblica» la «struttura»,
e a nessuno credo sfugga che tutto questo implichi firme e timbri,
istanze e attese, ciò che insomma fa negozio e ufficio, in senso
stretto e in senso lato.
Diciamo che questa sentenza è abbastanza
perché chi è a favore dell’eutanasia possa affermare che si sia
in presenza di una «sentenza di portata storica», per
quanto essa si limiti a prendere in considerazione il diritto di
autodeterminazione solo del paziente che sia attaccato a una
macchina. Abbastanza, però, anche perché chi, contrario
all’eutanasia, potrà ben dire che quella ora possibile è solo
un’«eutanasia a metà», giacché «la concreta
applicazione della sentenza» è affidata ai medici,
chiamati a decidere «se restare fedeli al giuramento
ippocratico o rinunciare a un ruolo di difensori della vita che ha
resistito per secoli» (Il Foglio, 23.11.2019).
Viene
così a riprodursi quanto è già accaduto con la legge 194 del 22
maggio 1978, che, a ben precise condizioni e con ben precisi limiti,
veniva a consentire l’interruzione volontaria della gravidanza, ma
solo se effettuata in una struttura pubblica, previo negozio e
ufficio, istanza e attesa, firma e timbro (art. 8): lì l’aborto,
qui il suicidio assistito, sono possibili solo nell’ambito del
servizio sanitario nazionale, e chi è contrario all’uno come
all’altro, e non riesce a digerire che la legge li consenta, può
ben sperare che a impedirli o almeno a renderli difficili possa
soccorrere quella obiezione di coscienza che spesso i medici operanti
nelle strutture pubbliche oppongono al compito cui sono chiamati.
Poi, certo, ogni tanto viene pizzicato un Dottor
Dobermann cui si scopre «rend[a]no molto
bene in privato»«le cose che [gli] secca
fare in pubblico» (Francesco De Gregori, 1989), ma questo
nulla toglie alla solidità del principio in virtù del quale «il
medico al quale vengano richieste prestazioni che contrastino con la
sua coscienza o con il suo convincimento clinico può rifiutare la
propria opera» (Codice di Deontologia Medica, art.
19). Che sarebbe assai più solido, tuttavia, se tale contrasto non
avesse luogo in strutture pubbliche deputate a prestazioni che le
leggi dello Stato dicono legittime in patente oltraggio a una
coscienza che dovrebbe essere comune a tutti i medici, giacché tutti
i medici hanno giurato: «Non darò a nessuno un farmaco
mortale, neppure se richiesto, né lo proporrò come consiglio;
similmente non darò a una donna un pessario abortivo». È
il Giuramento di Ippocrate, naturalmente, quello cui
faceva cenno Il Foglio: dovrebbe vincolare tutti i
medici, no?
No,
non va bene, troppa premessa, e troppa inutile ironia. Tutto daccapo,
via.
A
commento della sentenza n. 242/2019 della Consulta, che dichiara
parziale illegittimità costituzionale dell’art. 580 c.p., aprendo
così la strada alla possibilità di suicidio assistito, seppur
limitatamente ad alcune condizioni, un editorialino de Il
Foglio di sabato 23 novembre chiudeva a questo modo: «Tutto
adesso ricade sulle spalle dei medici: è a loro che è affidata la
concreta applicazione della sentenza, è a loro che tocca stabilire
se restare fedeli al giuramento ippocratico o rinunciare a un ruolo
di difensori della vita che ha resistito per secoli». Evidente
l’appello all’obiezione di coscienza, evidente l’argomento
scelto a dargli forza: tener fede a un giuramento, quello di
Ippocrate, che trarrebbe autorità dalla tradizione.
Il dispositivo
retorico a sostegno, ancorché tutto implicito nell’antonomasia di
un Ippocrate che, a piacere, sta a idea platonica di medicina o a
santo patrono della professione medica, è il seguente: il testo è
del V sec. a.C., è stato Orsa Maggiore per generazioni e generazioni
di medici, e mai nessuno ha osato metterlo in discussione, tantomeno
nel punto in cui recita «non darò a nessuno un farmaco
mortale, neppure se richiesto, né lo proporrò come consiglio»,
vogliamo metterlo in discussione adesso, signori medici?
Non è la
prima volta, di certo non sarà l’ultima, che al Il
Foglio parrà di poter conferire valore ultimativo a questo
genere di argomentazione, ma mai come nel caso del Giuramento
di Ippocrate la scelta pare infelice. Questo perché chi ha
un minimo di conoscenza relativa a quel testo sa bene che quel
passaggio è aggiunta assai posteriore al V sec. d.C., per la
precisione del periodo in cui i cristiani cominciano a manipolare il
manipolabile della cultura pagana.
Risparmiandoci quanto è ormai ampiamente provato
sul piano filologico (cfr. Entralgo, Sigerist, Pazzini, Lami, ecc.),
basti pensare alla Atene in cui Ippocrate visse: il suicidio
assistito era pratica corrente, e nessun biasimo morale pesava su di
esso (si pensi a Socrate, che, nel bere la cicuta, rende grazie
proprio a quell’Aclepio sul quale si vorrebbe che Ippocrate giuri
che non darà mai a chicchessia un farmaco mortale), per diventare
addirittura una topica, con gli Stoici. Possiamo immaginare che
Ippocrate abbia dato vita a una corrente di pensiero dissidente
rispetto a questo tanto comune sentire? Non si ha traccia di
consimili difese a oltranza della vita prima dell’avvento del
cristianesimo, tantomeno in relazione a scelte eutanasiche
motivate dal preservare la dignità della persona a fronte
dell’insulto ad essa inferto da malattia, disonore, coartazione,
ecc.
Ecco perché l’appello che Il Foglio rivolge
ai medici in nome di Ippocrate vale quanto varrebbe la resistenza della Cei a
pagare l’Ici in nome della Donazione di Costantino.
Solo che la Cei è assai più seria, e se ne astiene.
Non
sapevo che «Lucca
Comics & Games è una fiera internazionale dedicata al fumetto,
all’animazione,
ai giochi (di ruolo, da tavolo, di carte), ai videogiochi e
all’immaginario
fantasy e fantascientifico, che si svolge a Lucca, in Toscana, nei
giorni tra fine ottobre e inizio novembre» (Wikipedia),
l’ho
appreso solo ieri sera, ma sarei ipocrita a fingere imbarazzo per il
ritardo col quale sono arrivato a colmare la lacuna: fumetti,
videogiochi e fantasy non sono mai stati fra i miei interessi, e le
fiere, in generale, mi danno l’orticaria.
Poi c’è
che, come da tempo mi ripete il Mantellini, e ha ragione, io sono
«vecchio»,
e qui le virgolette non stanno a mettere in discussione
l’incontestabile
dato anagrafico di uno che è del ’57,
quanto a dar conto di una natura, una postura, un’inclinazione,
non saprei come definirla, che è mia da sempre (in tal senso direi
che sono nato «vecchio»),
e che mi ha sempre reso impossibile il freneticouptodating
che
è lo sport preferito dall’uomo
di mondo: cos’altro poteva rendermi nota l’esistenza di qualcosa
totalmente estraneo ai miei interessi se non l’eterna giovinezza di
chi è perennemente immerso nel refreshing?
Ma così divago, torniamo al Lucca
Comics.
Ci
arrivo grazie a un
tweet di @repubblica
che rimanda al video col quale ho aperto questo post, stralci degli
interventi tenuti da Manuel Agnelli e Gian Alfonso Pacinotti (Gipi)
nel corso di un dibattito pubblico ospitato da quella che così ho
scoperto essere «la
più importante rassegna italiana del settore, prima d’Europa
e seconda al mondo, dopo il Comiket di Tokyo». Quel ha
subito attirato la mia attenzione non è stato tanto il virgolettato
che nel tweet si offriva a sintesi dell’opinione
espressa dai due («Internet
è un’occasione
sprecata»),
che pure ha indubbio motivo di interesse, e che qui infatti mi
ripropongo di affrontare, ma cosa potesse motivare l’accoppiata,
ancor più rispetto a un tema sul quale non mi pare che un musicista
e un fumettista possano vantare particolari competenze.
Il
video non me ne ha dato spiegazione, mentre qualcosa in più mi è venuto
dall’intervista
concessa dai due a Valeria Rusconi: «Cosa
vi unisce? “Innanzitutto il fatto che siamo due appassionati di
arti marziali”... “Fino a due anni fa non ci conoscevano”,
spiega Gipi... “Io lo conoscevo, invece, e mi piacevano tantissimo
le sue cose”, dice Manuel... Vista la vostra amicizia
collaborerete, prima o poi? “C’è
questo desiderio di fare qualcosa insieme... Il problema è cosa
fare? Lo vedremo...» (repubblica.it).
Tutto un po’
più chiaro, no? Il fumettista presentava il suo ultimo lavoro:
trattandosi di una fiera dedicata al fumetto, mi pare la cosa più
normale al mondo. E si era fatto accompagnare da un amico: anche qui,
niente di strano. Ma l’amico
era anche lui un volto noto e, ancorché c’entrasse
poco coi temi cui era dedicata la fiera, è comprensibile gli si
porgesse il microfono: normale, forse, non tanto; ma comprensibile,
senz’altro.
Poi c’è
che ai volti noti si è soliti chiedere di esprimere un parere sui
temi del momento, tra i quali oggi il web è senza dubbio uno dei più
gettonati. Opinioni personali, com’è
ovvio, e spesso assai poco qualificate. Ma il vip è interessante di
per se stesso, e anche questo, dunque, è comprensibile. Un po’
meno comprensibile, forse, è che, per il solo fatto di essere
espresse da volti noti, a certe opinioni venga conferita
un’autorevolezza
che non si capisce donde possa discendere, visto che l’attore
è interpellato sul fenomeno migratorio, il cantante sul global
warming, lo chef sulla guerra dei dazi tra Usa e Cina, ecc. Ma il
mondo va così, occorre farsene una ragione.
Tutto
in regola, dunque. Sullo stesso palco del Lucca
Comics,
al posto di Manuel Agnelli, a dire che «la
nostra natura fa schifo»
e che «Internet
è una tragedia»,
potevano esserci a buon diritto – lo stesso identico diritto –
anche, chessò, Walter Veltroni, Valentina Nappi, Alex Zanardi, il
cardinal Ravasi, Nunzia De Girolamo, Claudio Cerasa e CiccioGamer89. Rettifico: CiccioGamer89 molto di più, perché il Lucca Comics è dedicato anche ai videogiochi e, in quanto
all’autorevolezza
dovuta all’essere
un volto noto, CiccioGamer89 su Facebook
ha 239.000 follower, tre o quattro volte in più di quanti ne hanno
Veltroni, Ravasi e Cerasa messi assieme. Diciamo che, in quanto ad autorevolezza e a pertinenza di contesto, con Manuel Agnelli ci siamo dovuti accontentare. Poco male, però, perché l’opinione da lui espressa è emblematica di uno stato l’animo comune a tanti, quello della amara disillusione per una speranza tradita. Parla di Internet, ma, se ci fate caso, il modulo argomentativo è sovrapponibile a quello di chi lamenta che la democrazia è stata fatta fuori dal populismo: «Abbiamo
avuto la possibilità di avere una libertà fantastica... e l’abbiamo
sprecata, l’abbiamo buttata via... la gente ha dimostrato che
quello spazio di libertà non lo sa usare». «Una tragedia»: potevamo star lì a chiacchierare, «io, Clinton e Putin», ma poi sono arrivati i bifolchi e – puf! – è scoppiata la bolla. Come non sentirci dentro la dolente eco di quanti ritengono che la «gente» faccia un buon uso della libertà solo quando in linea coi propri canoni etico-estetici, dimostrando di non meritarla quando non li rispetta? Direi che in buona sostanza siamo dinanzi al politico che plaude alla grande prova di democrazia data dalle elezioni che lo hanno visto vincitore, ma, quando perde, avanza qualche dubbio sul suffragio universale: non sarebbe il caso di concedere il voto solo a chi sa usarlo come si deve? Gipi non arriva a tanto, anzi, sembra rivolgere perfino una critica a chi non sa stare al gioco democratico del confronto alla pari e sul web riproduce la «struttura
feudale» del «signorotto che fa
il suo tweet acuto» coi«servi
della gleba che commentano e non ottengono mai una cazzo di risposta
che sia una». Di più: lo fa da
una posizione di relativo privilegio, perché può vantare «100.000
follower», e tuttavia risponde a tutti, sebbene i suoi pari cerchino
di dissuaderlo («ma perché ti abbassi al loro livello?»). Niente, lui rimane un sincero democratico, e risponde a tutti, anche se è costretto ad ammettere che però«ci
sono persone che decidono di dedicare la loro vita al peggioramento
di sé», in sostanza a scendere ad un livello al quale davvero non vale la pena di scendere. Questione di livelli, come è evidente. Ci sono quelli alti e quelli bassi, va da sé. E Internet ha il difetto di non riuscire ad evitare che possano intersecarsi. E quando si intersecano – ahilui! – il vip soffre. Verrebbe da chiedersi perché si senta costretto a tanto. In altri termini, perché sta sul web? Più brutalmente ancora: un vip
che twitta, che ha una pagina su Facebook, che ha un blog
aperto a commenti, ecc. – esattamente – cosa vuole? Che cerca?
Cosa muove uno scrittore, un attore, un politico, un giornalista, un
cantante, ad offrirsi, almeno nelle intenzioni, all’interlocuzione
in rete? Ho già affrontato la questione in passato, sarò costretto a ripetermi. Andiamo
per esclusione. Un vip non dovrebbe essere affetto dalla smania che
consuma il volgo nella disperata ricerca di un’occasione per
affiorare con la punta del naso dall’anonimato e per
dar sfogo in questo modo alle sue misere frustrazioni. Tanto meno
mancano occasioni di socializzare, al vip, anzi, quasi sempre ne ha
di eccezionali, quantitativamente e qualitativamente. Non twitta
certo per vincere la solitudine, il vip, né sta su Facebook
perché gli mancano opportunità di comunicare: a differenza di chi
ha solo il web per aprir bocca, a uno scrittore, a un attore, a un
politico, a un giornalista, a un cantante sono offerte di continuo
mille occasioni per esprimere opinioni. Si è visto, no? Sei un rocker, coi fumetti non c’entri un cazzo, di Internet ne sai quanto chiunque, ma Lucca Comics pende lo stesso dalle tue labbra anche se non hai altro da offrire che una sgangherata geremiade. E allora? Cos’è che spinge un vip a darsi
pubblicamente, oltre che in cambio di un compenso, per le sue prestazioni professionali, anche a gratis, per il dichiarato intento di socializzare?
Dalla prontezza a retwittare ogni complimento a loro indirizzato –
ogni dichiarazione di stima o di simpatia, ogni dimostrazione di
ammirazione o di affetto – si supporrebbe sia per vanità,
ipotesi che non vacilla neppure al constatare che spesso retwittano anche gli insulti, perché si sa che i meccanismi
della vanità spesso sono perversi. Ma la conferma che il vip
frequenta i social per mera ingordigia di attenzioni,
travestita però da quel bisogno di contatto col pubblico che fa
tanto democratico e alla mano, e che perciò è un efficace strumento
di autopromozione professionale, oltre che di fidelizzazione dei fan,
la troviamo ovunque. E si tratta di momenti ordinari con applausi veri.
C’è
una storiella ebraica che spiega a meraviglia come la cosa-in-sé sia
mero artefatto del contesto in cui la si osserva. E dunque. Un
giovane chiede a un rabbino: «Mi è lecito fumare mentre studio la
Torah?». Fulmini e saette: «Il solo porre la domanda è cosa
empia!». Passa un po’ di tempo e il giovane gli sottopone un altro
quesito: «Quando fumo, mi piace leggere: va bene anche la Torah?».
E lì il rabbino, più che condiscendente: «Leggere la Torah va bene
sempre».
Sta andando allo stesso modo con «la fulgida gemma che la
Chiesa custodisce da secoli» (Paolo VI), e cioè il celibato dei
preti. Può sposarsi, un prete? Giammai. Può, chi è sposato, fare
il prete? Ma certo. Perché questo sia possibile, tuttavia, occorre
che il contesto tolga ogni centralità alla cosa-in-sé. Per meglio
dire: deve arrivare al centro dell’attenzione da lontano, prendere
al volo quel che vuole, e subito riallontanarsi. Il contesto, come
dire, deve essere distraente, e nel senso etimologico del termine
(trarre via da). Roba da gesuiti, ma in senso lato, perché tecnica
di largo impiego anche da parte del laicato. Un esempio. Perché
aprire in Parlamento una discussione che tenda all’equiparazione
dell’hashish all’eroina? Si tolga centralità alla questione:
l’equiparazione sia infilata di stramacchio (extra mathesis) in un
decreto sulle Olimpiadi invernali che si dovranno tenere a Torino
(Fini-Giovanardi), e non si dica che la cosa sia pretestuosa, perché
anche lì c’è «neve».
Non è un Sinodo sul Celibato, così, che
affronta la questione, ma un Sinodo sull’Amazonia. A un passo dal
dis-traente, ecco il di-vertente: diamoci appuntamento in rete per
dirci quanto ci avesse preso, Lucio Dalla, col prevedere che «anche
i preti potranno sposarsi». Aperta la gara a chi arriva primo:
pronti, via!
Quando
«l’affermazione
di una regola è incompatibile con le condizioni o le conseguenze
della sua asserzione –
scrive Chaïm Perelman – a
queste incompatibilità si può dare il nome di “autofagia”»;
e conclude: «La
“ritorsione” è l’argomento
che attacca la regola, mettendo in evidenza l’“autofagia”»
(Il
dominio retorico
– Einaudi, 1981).
Ora,
si consideri il seguente tweet di Massimo Mantellini: «Un
idiota o un semplice esibizionista augura su Twitter di ammalarsi di
tumore a una manciata di personaggi politici. Invece che ignorare
l’idiota, segnalarlo e bannarlo, tutti, perfino i giornali, ne
parlano».
Esplicita affermazione di una regola non c’è,
ma di fatto quell’«invece»
non
segnala
una stortura alla quale «ignorare
l’idiota, segnalarlo e bannarlo» si
offre come rimedio? Sebbene in modo implicito, a me pare che la
regola sia enunciata. Non suona come un «si
deve»,
questo no, ma come non sentirci dentro un «si
dovrebbe»?
Tanto più persuasivo, aggiungerei, perché fa appello al buonsenso.
E non a caso parlo di buonsenso, perché è finanche proverbiale che
concedere attenzione a un idiotasia
da idioti e concederla a un esibizionista sia fare il suo gioco.
Se
però questo buonsenso ci persuade, patente è l’incompatibilità
tra l’affermazione
della regola e le condizioni
(ma, a ben vedere, anche le conseguenze) dell’asserzione.
Mettendo in evidenza l’autofagia, ho commentato:
«Beh, anche qui
non mi pare che venga ignorato».
E qui ignorato sono stato io, costretto a chiedermi se perché idiota
o perché esibizionista.
Poteva
finire qui, ma qualche ora dopo, su il
Post,
Massimo Mantellini ritorna sulla questione. Chissà – mi son detto
– può darsi che tra le righe ci sarà pure una risposta alla mia
obiezione. Macché. Niente più quanto aveva twittato, e con
un’ulteriore
autofagia. Perché il tweet lamentava che «tutti,
perfino i giornali, ne parlano»,
dove il «perfino»
segnalava una aggravante nel parlarne, se a farlo è chi si dà il
compito di informare. E come attacca l’articolo?
«Oggi
mi chiedevo, per l’ennesima volta, come mai, sempre più spesso, il
peggio della comunicazione social trovi ospitalità sui grandi siti
web editoriali».
Al centro dell’attenzione,
ovviamente, l’«hater
con qualche decina di follower che ha dedicato tweet ad una serie di
personaggi noti augurando loro di ammalarsi di tumore»,
e «i
giornali [che]
hanno
dedicato alla notizia fiumi di parole».
E il
Post?
È un «giornale»?
È un «sito
web editoriale»?
Comunque lo si voglia considerare, ha coperto la notizia. E grazie
alla firma di chi non la considera una notizia, ma una «cazzata
travestita da notizia».
Un’altra
autofagia.
Possiamo
limitarci a segnalare l’infortunio
logico o è il caso di chiederci come possa esservi incorso uno come
Massimo Mantellini, che fesso non è, e che su cosa sia il web, e
l’informazione
in generale, ormai riflette da decenni, e con risultati notevoli,
unanimemente riconosciutigli? Vediamo se proprio in quest’articolo
può esservi una traccia che ci consenta di arrivare a una
spiegazione.
«I
giornali offrono ciò che la gente chiede»,
scrive. E cosa chiede? «Fondamentalmente
notizie che fanno indignare, notizie che fanno meravigliare e notizie
che fanno sorridere».
Dove le si va a scovare «per
titillare l’audience digitale»?
In quegli «orrori
della rete che se ne stavano nascosti nelle pieghe più recondite
senza dare fastidio a nessuno o quasi».
Cosa ne consegue? «Un’informazione
sempre più scadente, rapida e casuale, che spontaneamente rinuncia a
qualsiasi aspirazione».
A cosa dovrebbe aspirare? Esplicitamente non lo si dice, ma si
intuisce che tra le sue ispirazioni dovrebb’esservi
quella di formare, che così viene negletta. I pedagoghi lasciano il
posto agli intrattenitori, senza con ciò rinunciare a «un
tentativo di distinzione elitaria»,
«utilizzan[d]o
simili notizie [le
«cazzate
travestite da notizie»]
per
marcare la distanza fra loro stessi e i social. Il giornalismo che
dice ai propri lettori: guardate come sono messi questi poveretti su
Twitter! Guardate che schifo fa Internet, che ambientaccio
frequentate ogni giorno!».
E qui anche Massimo Mantellini scopre un’autofagia,
che poi è la stessa in cui incorre nel momento stesso in cui ce la
segnala: «C’è
in fondo qualcosa di comico in tutto questo distinguere, visto che
spesso le medesime notizie si trovano nella timeline di Facebook e
sulla homepage dei giornali».
E qui siamo al cortocircuito, perché si conclude: «Il
giorno in cui il giornalismo desidererà ricominciare a marcare sul
serio la propria indispensabile distanza dal pulviscolo delle
comunicazioni di rete sarà semplice da identificare. Sarà il giorno
in cui le troppe cazzate che internet rovescia sulle nostre teste
ogni giorno smetteranno di avere ospitalità da quelle parti
travestite da notizie».
Direi che con questo articolo siamo ancora lontani da quel giorno:
manca la distanza. E tuttavia anche qui non viene meno un «tentativo
di distinzione elitaria»,
perché, parafrasando, tra le righe si legge: «Guardate
come sono messi questi poveretti dei giornali! Guardate che schifo fa
l’informazione
nostrana!».
Come
se ne esce? Credo che l’unica
via di uscita sia quella di ridefinire il tradizionale ruolo
pedagogico da sempre assegnato alle strutture che formano informando,
di cui la stampa (cartacea o digitale, ormai non fa più differenza)
è solo un settore. Come ignorare, infatti, che l’intrattenimento
ha preso il sopravvento dovunque l’audience
era in precedenza assicurata solo dalla serietà, e per la semplice
ragione che non mirava alla quantità, ma alla qualità? Per porre la
questione in altri termini, quelli relativi a un campo della
formazione appena superiore a quello che si affida alle «notizie»:
quale «divulgazione»
può fare a meno di prendere in considerazione il «vulgo»?
È
di piana evidenza che i guasti culturali che Massimo Mantellini
rileva nella
costruzione di una homepage sono gli stessi che ritroviamo nella
costruzione di un palinsesto televisivo e perfino nella scelta dei
titoli di una collana editoriale, e sia chiaro che li chiamo «guasti»
solo per concedere una solidarietà tutta formale, di mera cortesia,
a chi li biasima come espressione di vizi morali. Nulla rimane
intatto quando muta il paradigma che in-forma i tempi. Lasciarsi
andare alla corrente, no. Ma pensare di risalire il fiume usando un
cucchiaino per pagaia, nemmeno.
[Raccolgo
qui in una sola pagina i cinque post dedicati a Hanno tutti
ragione? di Massimo Adinolfi (Editrice Salerno, 2019 – pagg.
103 – € 9,90], con l’aggiunta
in coda di una postilla che è la risposta alla domanda postami da un lettore: non è una verità quella che afferma non esista una verità?]
1. È
solo alla fine di quella che concede essere stata una «fastidiosa
e complicata logomachia» che Jeremy Bentham sembra porsi il
problema di poter aver tediato il lettore, e allora gli chiede scusa,
spiegando cosa l’abbia spinto a farlo. Siamo sul finale di A
Fragment on Government (1776) e, dopo essersi speso per
pagine e pagine nel «laborioso e ingrato» compito
di dimostrare perché la dottrina di William Blackstone sia, «peggio
che falsa, priva di significato», prevede il rimprovero che gli
può esser mosso: «L’hai dimostrato tu stesso che
non metteva conto di occuparsene: perché, dunque, perderci tanto
tempo?». La risposta rivela un intento pedagogico: «Per
fare qualcosa di atto a istruire, ma soprattutto a disingannare lo
studioso timido e ammirato; per sollecitarlo ad avere più fiducia
nelle proprie forze e meno nell’infallibilità dei grandi
nomi; per aiutarlo a emancipare il suo giudizio dai ceppi
dell’autorità; per insegnargli a distinguere tra linguaggio
altisonante e retto significato; per ammonirlo a non accontentarsi di
parole...». Qui mi fermo, ma la pagina prosegue per un bel pezzo
con analoghe perifrasi di quello che in sostanza è lo stesso intento
che molti anni dopo lo spingerà a scrivere il suo Book of
Fallacies (1824): disvelare il sofisma che s’ammanta di
autorità.
Nell’accingermi
a commentare Hanno tutti ragione? di Massimo
Adinolfi (Salerno Editrice, 2019), voglio declinare un tal genere di
intento, anche se fin qui anticipo che concluderò dicendo che non
metteva conto di occuparsene. Di argumenta ab auctoritate,
certo, il libricino trabocca, ma non c’è bisogno di
demistificarli, perché l’autore ha la fierezza, se non di
dichiararli tali, di rivelarcene la natura con un insistente ricorso
alla citazione («come avrebbe detto Hegel», «Merleau-Ponty
la metteva così», «direbbe Heidegger», ecc.),
d’altronde irrinunciabile da parte di chi nel salottino mediatico è
chiamato a interpretare il «filosofo», personaggio che
sembra essere diventato un must nel business
dell’intrattenimento.
Sia
ben chiaro che l’uso delle virgolette per questo ruolo non è
denigratorio, perché, in buona sostanza, quelli chiamati a dare
un’opinione sulla questione del giorno imbottendola di citazioni
dotte sono al più docenti di filosofia. Ora nessuno si sognerebbe di
definire «artista» un critico d’arte o uno che
insegni Storia dell’Arte, e tuttavia, anche se me ne sfugge la
ragione, con la filosofia non va così: «filosofo» è
Diego Fusaro, perché, quando Myrta Merlino gli dà un minuto e mezzo
per dire cosa pensa della chiusura domenicale dei negozi, risponde
citando Aristotele, Hegel, Marx, Gentile; e «filosofo» è
pure Massimo Adinolfi, perché, quando Il Foglio gli
chiede cosa pensa di Ronaldo, la risposta è un Perché non
possiamo non dirci Cristiano, in cui troviamo Platone, Rousseau,
Voltaire e ovviamente Croce.
Perché
questa figura prende vita solo adesso? A naso, direi che
il «filosofo» da intrattenimento, forte dei
suoi argumenta ab auctoritate, nasca per cercare di dare
un contrappeso agli argumenta ad populum che sono la
nota dominante di tempi in cui nel foro, a là guerre comme a
là guerre, la persuasione ormai si fa strada solo grazie
agli argumenta ad judicium: siamo a un Armageddon nel
quale si fronteggiano i «like» e gli «ipse
dixit». Compito ingrato per il «filosofo», che da
filosofo (senza virgolette) nasce con la pretesa di governare
la polis, ma quasi subito è costretto a ridimensionarla
in quella di guidare chi la governa, per finire col doversi
accontentare di ispirare il principe, prima, di dare consulenza al
ministro, dopo, e di fare l’opinionista, venendo all’oggi.
Opinionista che peraltro soffre d’un grave handicap, perché la
scienza di cui è chiamato ad intestarsi il titolo di esperto non è
una scienza. Ma questa, mi rendo conto, è affermazione che impone un
chiarimento.
Nei
vari campi del sapere scientifico si finisce sempre per trovare un
generale consenso su tutto ciò che in precedenza è stato oggetto di
pur aspra e annosa contesa. Questo accade perché, per tacito accordo
sottoscritto da chiunque aspiri a dir la sua in questo ambito, ogni
posizione assunta nella contesa deve accettare di buon grado la
condizione di mera ipotesi fino a quando non sia stata in grado di
superare il vaglio empirico che la promuova a dato affidabile,
verificabile e condivisibile, e tuttavia, per sua stessa natura, che
è la natura del dato scientifico, inficiabile (aggettivo che credo
sia preferibile a quel «falsificabile» che di
sovente ingenera pericolosi fraintendimenti riguardo
alla Fälschungsmöglichkeit di cui ci parla
Popper).
Un
vaglio assai severo, occorre dire, dal quale tuttavia nessuno
pretende di potersi sottrarre, né in forza dell’autorità
precedentemente acquisita, né in virtù del fatto che la sua
congettura si limiti a reggere sul piano logico, che pure è
indispensabile perché si costruisca come ipotesi. Il «generale
consenso» di cui si diceva prima, dunque, ha comunque un
carattere di transitorietà, di provvisorietà, che perciò scoraggia
l’uso di un termine come «verità» da
appiccicare a quanto è pure unanimemente accettato in quanto
scientificamente comprovato.
Difficile
dire con quanta consapevolezza accada, ma sembra quasi che chi si
misura con la conoscenza scientifica abbia una riserva di pudore, di
umiltà, di prudenza o di chissà cos’altro nell’assegnare a un
dato scientifico quanto di assoluto (eterno, immutabile, universale)
è intrinseco al concetto di «verità», riserva tanto
pesante da persuadere a non farvi neanche cenno: a «vero» si
preferisce sempre «attendibile», «esatto», «credibile»,
che di «vero» sono sinonimi, ma non rimandano
alla «proprietà di ciò che esiste in senso
assoluto» (Treccani) vantata dalla «verità».
C’è
chi ha saputo trovare le parole giuste per esprimere le ragioni di
questa riserva, che anzi ha esteso perfino all’uso di «realtà»,
che sta alla «verità», volendo prestar fede a chi con
questi termini ha consuetudine a pranzo e a cena, come l’ente sta
all’essere. Qui le riporto da un’intervista apparsa su un numero
de Le Scienze di qualche anno fa: «La
realtà – diceva Leonard Susskind – ci rimarrà
sempre incomprensibile. […] Continuiamo a inventare nuovi realismi,
[…] poi arriva il paradigma successivo che fa piazza pulita del
precedente, e ogni volta ci stupiamo che i nostri vecchi modi di
pensare, le teorie che usavamo, i modelli che avevamo creato, ora,
sembrino sbagliati. […] Secondo me – concludeva – dovremmo
sbarazzarci della parola “realtà”, […] trascina con sé cose
che non servono a niente». Io mi permetterei di aggiungere
che, «oltre alle cose che non servono a niente», ne
trascina con sé altre che fanno da ostacolo, che poi è proprio
l’ostacolo che incontra una disciplina come la filosofia, che, da
un lato, ha la pretesa di dirsi «scienza» e,
dall’altro, come compito si dà – appunto – la «verità».
In Hanno
tutti ragione? il «filosofo» si limita a
esibire con fierezza il bernoccolo che si è procurato nel tentativo
di superare l’ostacolo, quasi che da quello abbia da sortire una
Minerva, ma è in un altro suo scritto che Massimo Adinolfi prefigura
l’incidente come fine ultimo della filosofia: «Poniamo che
la filosofia rinunci al titolo di scienza della verità. Poniamo che
rinunci non solo ad essere scienza, ma anche a misurarsi, in
generale, col problema della verità [...] Resta nondimeno difficile
immaginare, ammesso e non concesso che la filosofia compia appunto
una simile rinuncia, che rinunci anche ad essere un affare di parola,
o forse meglio di discorso». E sì, «ma chi non ha
mai pensato una volta nella vita che tutta la storia della filosofia
non sia che un vuoto chiacchiericcio?» (La verità come
compito della filosofia – Nóema, 2/2011). Nulla che il solito
vuoto chiacchiericcio a spiegarne il perché. E tuttavia la filosofia
non rinuncia al titolo di «scienza della verità»,
anche se non ha nulla di quanto si è poc’anzi detto della scienza.
Su
nulla, in filosofia, è dato infatti di trovare un generale e pieno,
ancorché transitorio e provvisorio, consenso, nemmeno sul
significato dei termini di più comune impiego, cui ogni filosofo
infatti rivendica il diritto di darne uno tutto personale (si trovino
due filosofi, ad esempio, che diano la stessa definizione di «Dio»).
Tanto meno è dato pretendere dai filosofi un’uniformità di
metodo, giacché a ciascuno è concesso costruirsene uno che possa
tornargli di maggior utilità, e sulla cui affidabilità è dunque il
solo a poter dire l’ultima parola. Con tali requisiti è
comprensibile perché in filosofia tutte le contese non abbiano mai
soluzione, destinate ad essere accantonate per essere periodicamente
riproposte, facendo nascere il sospetto che non possano trovare una
fine per la semplice ragione che non abbiano un fine, se non quello
dell’intrattenimento. Poi, certo, c’è intrattenimento e
intrattenimento, di qua la «pineale» di un
Cartesio, la «monade» di un Leibniz o
l’«evoluzione creatrice» di un Bergson, di là
il «nuovo realismo» di un Ferraris,
il «turbocapitalismo» di un Fusaro o il concetto
di «autorità» secondo Adinolfi, che, a differenza
del «nuovo realismo» di Ferraris e
del «turbocapitalismo» di Fusaro, ha fin qui fatto
poca cassetta e dunque merita un trailer.
Comprensibile,
coi limiti esposti prima del siparietto, perché in filosofia non sia
possibile di fatto alcun progresso, trattandosi di un ambito in cui
nessuna posizione è mai davvero superabile, e questo per
l’altrettanto semplice ragione che ogni altra posizione non ha mai
(né può avere) strumenti validi per dare inconfutabile prova di
esserle superiore, perché, al pari della posizione che intendesse
superare, è per sua stessa natura indisponibile a un vaglio sulla
base di criteri che le sono estranei. Ciò che vale per i campi in
cui è la scienza ad essere chiamata per indagare, infatti, non vale
per quelli in cui è chiamata la filosofia. Ciò trova ragione nella
sostanziale differenza dell’oggetto d’indagine, quand’anche sia
nominalmente identico: nel primo caso, infatti, l’oggetto preesiste
all’indagine come problema, anche se poi è la stessa indagine a
ridefinirlo nella procedura che gli dà ipotesi di soluzione; nel
secondo caso, invece, l’oggetto nasce nel momento stesso in cui si
inizia ad indagare, non un istante prima, e per la semplice ragione
che non corrisponde mai del tutto a ciò che nominalmente lo richiama
dalle indagini che su di esso sono state condotte in precedenza.
Si
prenda, per esempio, la «materia», che sembrerebbe cosa
eminentemente «fisica», ma alla quale la filosofia –
almeno una certa filosofia – riesce comunque ad ascrivere una
dimensione «metafisica», oppure la «mente»,
che la filosofia – quasi tutta la filosofia – si ostina a
ritenere mortificata dalle neuroscienze: nulla che si muova da dove è
partita la discussione, poco meno di tre millenni fa, se non nella
spirale che sovrappone glossa a glossa com’è coi gusci di una
matrioska, sicché con procedura inversa, per sottrazione di
riferimenti e citazioni, guscio dopo guscio, al centro ci ritrovi
sempre Platone e la sua pretesa di governare la polis in
virtù dell’autorità. Quale? Quella che incarna la «verità»,
o almeno assicura di avere gli strumenti necessari per indicarti
quale strada prendere per approssimarla, se non per raggiungerla. Su
tutto il resto – se deve piacerti il vino che stai per bere o
la pietanza che stai per mangiare – le competenze possono
essere delegate all’amico o alla mamma del «filosofo»,
che per la virtù transitiva dell’affidabilità meritano la dovuta
attenzione.
2. «Questo
non è, in senso stretto, un libro di filosofia», avverte
Massimo Adinolfi chiudendo l’Introduzione di Hanno
tutti ragione? (pag. 9). Lo è in senso lato, dunque? Senza
dubbio, perché il saggio e anziano nocchiero è diventato cieco, e
ha perso il controllo del timone, oggi conteso da mozzi incompetenti
e presuntuosi, che senza dubbio manderebbero la nave a fracassarsi
sugli scogli, sicché occorre che qualcuno...
Pardon,
mi stavo facendo prendere dal milieuabbandonandomi
all’allegoria
con la quale, nel VI libro della Repubblica,
Socrate spiega a Glaucone perché il governo della polisspetti
al filosofo. Ad Atene, neanche a parlarne. Per tacere di Siracusa,
povero Platone. La filosofia deve ridimensionare le
aspettative: ancilla
theologiae,
nutrendo la speranza di diventare, e chissà come poi, serva
padrona;
e poi a corte, nel posto dove si intersecano le bisettrici degli
angoli tra giullare, favorita e domestico di stanza; di frustrazione
in frustrazione, eccolo nella turris
eburneacome
sacerdote nel tempio del suo sistema, clercsempre
tentato alla trahison;
ma intanto il Principe è diventato Partito, e allora eccolo
incardinato nell’aristocrazia
operaia;
infine, come si diceva, tra virgolette; anche stretto tra quelle,
tuttavia, al «filosofo» non
si può negare l’esercizio
della «scienza
della verità»,
che intanto da rivelazione è diventata saggezza, e da saggezza è
diventata ermeneutica, e da ermeneutica è diventata opinione tra le
opinioni.
E
ordunque: rigogliosa cresce la «malapianta
del populismo»,
mentre sempre più pesanti si fanno gli «affanni
della democrazia rappresentativa»;
poi c’è la «straordinaria
accelerazione tecnologica»che
ha comportato «profonde
modificazioni dello spirito pubblico» (pag.
7); e tutto questo mentre alla tv c’è «la
cattedrale di Notre-Dame in fiamme» (pag.
9); come volete che a Massimo Adinolfi non vengano d’istinto le 96
paginette con le quali provare a far «argine
ai cedimenti di certe infrastrutture culturali»e
a «migliorare
la qualità della discussione pubblica» (pag.
10)? Con 96 paginette? Con 96 paginette. Non avranno
la «caratteristica
gravità»del
libro di filosofia, «ma
è un libro, tuttavia»(pag.
9). E almeno su questo siamo d’accordo: senza dubbio è un libro.
Si
comincia con un piccolo inciampo, ma è cosa da poco. Siamo nel 1929,
anno in cui esce Essenza
e valore della democraziadi
Hans Kelsen, e di quell’anno si dice sia quello in cui «Mussolini,
al potere fin dal 1922, firma i Patti Lateranensi, con i quali la
religione cattolica diveniva la “sola religione dello Stato» (pag.
11): non è così, perché la religione cattolica è la «sola
religione dello Stato» già
con lo Statuto Albertino del 1848 (art. 1), che nel 1861 – 51 anni
prima della Marcia su Roma e 58 anni prima dei Patti Lateranensi –
diventerà carta costituzionale del neonato Regno d’Italia. Ma a
chi non può scappare un erroruccio del genere, quando in procinto di
far «argine
ai cedimenti di certe infrastrutture culturali»?
Si può chiudere un occhio, via, veniamo al sodo.
Hans
Kelsen, pag. 12: «Tolleranza, diritti della minoranza,
libertà di parola, e libertà di pensiero, così tipiche della
democrazia, non hanno diritto di cittadinanza in un sistema politico
basato sulla fede in valori assoluti. Questa fede conduce
irresistibilmente, e ha sempre condotto, a una situazione in cui chi
asserisce di possedere il segreto del bene assoluto reclama il
diritto di imporre la sua opinione come la sua volontà agli altri
che sono nell’errore» (Assolutismo e
relativismo nella filosofia e nella politica). Sottoscriviamo?
Piano.
«Di
primo acchito – scrive Massimo Adinolfi – siamo
tutti portati a pensare, in effetti, che sia così» (pag.
14). Ora, la grammatica ci dice che «in effetti» è
locuzione con valenza di congiunzione dichiarativa/esplicativa, come
lo è, ad esempio, «in realtà». Si noti che qui «in
effetti» non cade su «sia così», ma su
un «pensare» che è «di primo
acchito»: «in realtà» così si pensa, non è
detto che «in realtà» così sia, siamo dissuasi
dal precipitarci a sottoscrivere. E cosa non funziona in ciò che
afferma Kelsen a un «pensare» che non sia «di
primo acchito», ma più ponderato, meglio se assistito, dunque,
da un filosofo? È presto detto: quelle di Kelsen sono parole di
buonsenso. E che c’è di male nel buonsenso? Che domande.
Qui è
necessario aprire una parentesi, vedrete che non sarà una perdita di
tempo: occorre intenderci su cosa debba intendersi con «buonsenso».
Ma dicevamo: anche sul significato dei termini di più comune
impiego ogni filosofo rivendica il diritto di darne uno tutto
personale. Conviene, dunque, andare a rileggere cosa scriveva Massimo
Adinolfi, poco meno di un anno fa, nel mentre assai probabilmente di
lato aveva in fieri Hanno tutti ragione?
È un
articolo apparso su Leftwing, in cui il «buonsenso» è
la «capacità di ben giudicare e di distinguere il vero dal
falso», definizione che ne dà Cartesio aprendo il Discorso
sul metodo, e che dunque non si capisce perché dovrebbe essere
la «bancarotta della filosofia» in quanto «scienza
della verità». Quello che però in sostanza si lamenta, e fin
dal titolo (Abbiamo perso la guerra del buonsenso), è altro:
il «buonsenso» di un tempo era «filosofia
non elaborata che si sedimenta nella coscienza collettiva»;
bene, quel «buonsenso» non c’è più, è
andato a farsi fottere, sconfitto da un «buonsenso» che
a Massimo Adinolfi non piace perché stravolge le categorie
di «vero» e «falso» cui era
tanto affezionato, e chissà che della sconfitta non sia anche un
po’ sua la responsabilità, perché «facev[a] le
bucce a cardinale Ratzinger» quando quello se la pigliava
con relativismo. Ecco qua, per dare ascolto a Kelsen abbiamo lasciato
sedimentare l’errore nella coscienza collettiva. Certo, non siamo
dinanzi a «chi asserisce di possedere il segreto del bene
assoluto [e] reclama il diritto di imporre la sua
opinione come la sua volontà agli altri che sono nell’errore»:
mancano le palle.
3. Arrivato
neanche a un settimo di quanto avrei da dire su Hanno tutti
ragione?, ridò voce alla domanda che Bentham immagina gli ponga
il lettore: «Se non metteva conto di occuparsene, perché
perderci tanto tempo?». La risposta a chi me la ponesse già
dopo i primi due dei quindici paragrafetti previsti – tranquillo,
lettore, altri due o tre e anch’io mi annoierò, abbandonando il
piano d’opera – è la seguente: il libricino mi ha
enormemente irritato per la sua sfacciata malafede, peraltro
fieramente esibita in quarta di copertina, dove si legge
che «Adinolfi prova a fornire argomenti per ricostruire il
rapporto tra verità e democrazia».
Ma quando
mai c’è stato, questo rapporto? Se hai una «verità»,
non hai più bisogno di decidere, basta e avanza conformarti ad essa:
in più, se è proprio «verità», cioè eterna,
universale e incontestabile, questo non vale solo per te, ma per
tutti, e per sempre, rendendo superflui ogni confronto, ogni
discussione, ogni decisione messa ai voti: rendendo superflua la
democrazia, anzi, di più, rendendola sacrilega, perché è evidente
che, per sua natura, la «verità» può essere solo
antecedente e superiore all’uomo o, tutt’al più, intrinseca
all’ordine creaturale in cui l’uomo è inscritto. Quand’anche
non si tiri in ballo Dio, la «verità» ne surroga
il senso, e dunque chi sostiene di possederla, o anche soltanto di
avere gli strumenti per meglio approssimarla, si sente in pieno
diritto di governare il mondo, e la pretesa sostanzialmente è di
stampo teocratico. Poi, certo, a fronte del fatto che avanzare
seriamente la pretesa gli costerebbe l’essere fatto bersaglio di
fumanti palle di letame, è costretto a schermirla in modo
gigionesco, senza tuttavia riuscire a celare l’indispettimento per
lo «scomodo» che impone il dover sta lì ad
argomentare perché la sua «verità» sia la vera
Verità, quando è evidente che non può essere altrimenti per il
solo fatto che a profferirla è chi ne ha la «scienza».
Iniziando
a parlare di Hanno tutti ragione?, ho detto che il mio
intento non voleva essere pedagogico, perché le fallacie di cui
trabocca sono talmente scoperte da non aver bisogno di essere
segnalate come tali. La più evidente è proprio quella che intende
dar ragione del perché sia necessario «ricostruire il
rapporto tra verità e democrazia», peraltro subito dopo aver
concesso che «è indispensabile, per amore della pace e
della concordia sociale, rinunciare a una rivendicazione “assoluta”
e accettare che le diverse verità vengano relativizzate» (pag.
14): sarebbe necessario perché, «da un lato, condividiamo
la convinzione che il processo democratico lascia ciascuno libero di
credere qualunque cosa, e prendiamo anzi precauzioni perché nessuna
opinione sia imposta in nome della verità; dall’altro,
lamentiamo come oggi la verità stessa non sia tenuta in alcuna
considerazione» (pag. 17).
Patetico
trucchetto, quello di usare un «noi» che
intenderebbe denunciare una contraddizione nell’assunzione –
insieme – di «condividiamo» e «lamentiamo»,
ma in realtà chi è che davvero può lamentare che una verità
assoluta non splenda indiscussa sulle nostre vite, pur condividendo
il principio democratico che di ogni «verità» fa
un’opinione? Solo chi ritiene inammissibile che la
propria «verità» possa risultare opinione
minoritaria nel confronto democratico, e dunque lo accetta, per
dirsene convinto assertore e sostenitore, se la propria opinione ne
esce vincente, pronto però a metterlo in discussione, se dalla conta
esce perdente. Pronto,
qui, a metterlo in discussione con un broncio che, ai tempi in cui
era ancora un blogger, Massimo Adinolfi dichiarava inutile se non
svantaggioso, facendo sua una frase di Robert Musil che campeggiava
in homepage («Non si può fare il broncio ai propri tempi senza
riportarne danno»): è evidente che deve aver trovato modo di
cavarne qualche vantaggio, d’altronde in tempi di crisi il Tempio è
sempre stato in grado di reclutare qualche «filosofo in
missione per conto di Dio» (definizione che Simone
Regazzoni ha affibbiato a Maurizio Ferraris, anche lui orfano della
verità detronizzata e decapitata dalla inferocita plebe della
post-modernità). Ma
cosa ci dovrebbe far rimpiangere i tempi in cui le società erano
illuminate dalle verità dei filosofi (niente virgolette, qui, né
per l’una, né per gli altri) del tipo che l’«a-tomo» è
inscindibile (Democrito), che «per natura» alcuni
sono liberi e altri schiavi (Aristotele) e che in quanto privi di
ragione e di coscienza gli animali non provano dolore (Cartesio)? Il
fatto che oggi un tizio può permettersi di dire che la terra è
piatta. Per inciso, come lo diceva Anassimandro, filosofo. Dovrebbe
essere evidente che non può essere il sapere filosofico a fare la
differenza tra puttanata e no, salvo a voler mettere un prima e un
dopo nella storia della filosofia, sulla falsariga dell’abisso che
separa la democrazia degli antichi da quella dei moderni. Ma conviene
al filosofo? Mi spiego: fosse possibile farlo, cosa consentirebbe
(sulla base della convinzione che «alcuni hanno ragione e
alcuni hanno torto») di poter affermare che il modello
geocentrico del cielo aristotelico è inservibile e quello della sua
metafisica rimane valido? Basta riandare a quello che abbiamo
detto circa il dibattito scientifico e quello filosofico nel
paragrafo 1., ribadendo che la filosofia, in
quanto «scienza della verità», è costretta a ritrarsi
sempre più nell’empiricamente indimostrabile per poter
salvaguardare il suo peraltro sempre più ristretto dominio. Detto
più prosaicamente: il filosofo può ormai esser sereno solo quando
resta nel teoretico, e cioè in quel campo della conoscenza dove
l’urgenza del veritativo trova soddisfazione nell’astrazione
metafisica. È per questo che Hanno tutti ragione? non
potrebbe muovere un passo oltre l’artificioso paradosso costruito
su un «noi» che è democratico e – insieme –
anela all’assoluto della verità, senza servirsi dei trampoli della
filosofia teoretica. Sui quali Massimo Adinolfi si muove con grande
disinvoltura per una ventina di paginette, ma solo per ritrovarsi nel
punto da cui era partito: «Per difendere la democrazia, non
occorre che sia istituito un Ufficio Centrale, che metta a
disposizione del pubblico un immaginario Catalogo Completo dei Fatti
Accertati, così che almeno una certa porzione di verità sia posta
fuori discussione [non sia mai detto che il «vero» si
riduca all’«accertato», significherebbe vincolare
la «verità» alla provvisorietà del dato
scientificamente desunto]; è invece necessario che sia viva,
nelle istituzioni e in capo ai singoli individui, una solida
infrastruttura intellettuale che consente la più ampia, e pubblica,
circolazione delle idee, che favorisca il confronto e, se necessario,
anche il conflitto delle interpretazioni. Non uffici centrali,
quindi, ma giornali, scuole, università, teatri, luoghi, insomma, in
cui idee e modi di vedere il mondo possano mescolarsi e se è il caso
sfidarsi. Una simile cura deve appartenere al singolo individuo, e
alla società nel suo insieme. La prima, individuale, comporta una
responsabilità di ordine morale; la seconda, collettiva, comporta
una responsabilità di ordine politico» (pag. 37).
Ci è
consentito un sospiro di sollievo: il filosofo non è intenzionato a
governare il mondo a colpi di randello, chiede solo gli sia data la
supervisione della «infrastruttura intellettuale» che
informa la morale e la politica. Più che un governatore, un tutore.
4. Non
è raro che la biografia di un filosofo registri a un certo punto uno
scarto anche assai sensibile nel percorso della sua riflessione, per
lo più con uno spostamento dell’interesse o una correzione del
metodo, ma talvolta anche con radicali revisioni del sistema fin lì
edificato. Si tratta di svolte che nel far riferimento alla sua opera
impongono di solito precisazioni del tipo «il giovane
Hegel», «il secondo Wittgenstein», «l’Heidegger
dopo la Kehre», ecc. Accade, così, di avere due filosofi in
uno, di cui, giusto per fare un esempio, il primo è categorico, non
transige, «su ciò di cui non si può parlare si deve
tacere» (Tractatus Logico-Philosophicus, 7),
mentre il secondo chiude benevolmente un occhio sulla chiacchiera
metafisica e su ogni altro ambarabà-cicì-cocò, perché trova
che «l’essenza è espressa nella
grammatica» (Philosophische Untersuchungen,
371): nel mezzo c’è un esaurimento nervoso e, a seguire, un
lavoro usurante come quello di maestro delle elementari (non
viceversa, come solitamente accade), si può capire.
Con
Massimo Adinolfi non si capisce cosa possa essere accaduto tra
un «buonsenso» che a dicembre dell’anno scorso
è «filosofia non elaborata che si sedimenta nella coscienza
collettiva» (Leftwing) e nemmeno sei mesi dopo è un
cuoppo «infarcito di insensatezze» (Hanno tutti
ragione?, pag. 43). Sia chiaro, non c’è contraddizione, perché
il «buonsenso» è «la confidenza in una
verità a portata di tutti, […] per la quale non sarebbe necessario
compiere molti sforzi, non sarebbe necessario molto studio» (pag.
41): se non la fai «elaborare» da un esperto, uno
che ne ha la «scienza», uno cui il Principe deleghi la
manutenzione dell’«infrastruttura
intellettuale» della «coscienza collettiva»,
la «verità» va a farsi fottere e, voilà, ecco il
cuoppo. Contraddizione, dunque, no, ma un sostanziale mutamento
dell’umore che impregna il delirio di grandezza comune a ogni
filosofo, quello, sì: da un colpo, certo doloroso, inferto dal fatto
che «con tutto questo buonsenso non mi ci ritrovo neanche un
po’, mentre una buona parte del paese, a quanto pare, ci si
ritrova» (Leftwing), e tuttavia sofferto in modo
stoico, alla furia che la ferita narcisistica impone come
indispensabile riparazione all’oltraggio, e che finisce per mettere
in discussione perfino la democrazia, perché in fondo «non
c’è democrazia senza populismo» (pag. 47).
In Hanno
tutti ragione? non
c’è più traccia del piagnucolio di sei mesi prima («diciamo
allora, come il poeta, che The
Times They Are A-Changin’,
anche se il cambiamento non sta avendo il verso auspicato»),
piuttosto la ben più lontana eco di un Giuliano Ferrara per il quale
una «democrazia
possibile» può
aversi solo nella fattispecie di «un’oligarchia
ben organizzata» (Il
Foglio,
22.5.2008), e fa sfoggio, con allegato curriculum («esperienza
compiuta al Ministero della Giustizia come consigliere dell’allora
ministro, Andrea Orlando» –
pag. 92) di un bellicosissimo armamentario retorico, quasi ad
annuncio: A.A.A.
Referenziatissimo scienzato della verità, turris-eburnea-munito,
offresi a oligarchia ben organizzata come progettista di
infrastrutture intellettuali. Trattativa privata, telefonare ore
pasti, astenersi perditempo.
Ovviamente
non è il primo e non sarà l’ultimo dei philosophes
engagés. Diciamo che, qui, più che impegno,
l’engage è ingaggio. I cui termini paiono
chiari, come è evidente chi sia la controparte nella trattativa,
certamente destinata a buon esito, salvo scazzi sul
compenso.
Cosa
c’è di meglio di un Luigi Bonaparte dopo i torbidi di un
1848? «Democrazia è, anzitutto, suffragio universale:
nessuno ne dubita. Ma il fatto che si fonda sul principio “una
testa, un voto” non implica affatto che un voto, un’opinione,
equivale a un pensiero» (pag. 52). E anche qui, per non
lasciare l’affermazione sine argumento, ecco il
sostegno ab auctoritate: «... così avrebbe
detto quel reazionario di Hegel». Dove l’ironia conta di
trovarci d’accordo sul fatto che Hegel è Hegel, e
dunque «reazionario» è uno sproposito: se questo
vale per lui, deve valere pure per chi fa proprie le sue
affermazioni, ergo siamo tenuti a considerare una
generosa concessione che il voto dietro il quale c’è un pensiero
conti quanto quello dietro il quale non ce n’è. Con un’altra
interessante implicazione: a un voto il pensiero può
essere conferito da chi lo rappresenta, perché la rappresentanza –
sostiene Massimo Adinolfi – è legata a tre valori, di
cui il più importante è appunto quello della «verità». E
cioè? «Nel rappresentante, la mia verità [...] si
chiarisce a me stesso meglio di quanto io stesso non possa
fare» (pag. 55). Concludendo? «Rappresentare è
meglio che essere» (pag. 53). E qui l’infortunio è
ancora più increscioso del Mussolini che a pag. 11 «firma
i Patti Lateranensi, con i quali la religione cattolica diveniva la
“sola religione dello Stato”»,
perché a rigor di logica ci attendavamo un «essere
rappresentati è meglio che essere». Ma a scrivere è chi
esprime un voto che è già pensiero, e pensiero che non ha
bisogno di essere chiarito da chicchessia, e che anzi si candida a
chiarire le «verità» altrui. Via, se lo mandate
in Parlamento insieme alla Boschi e a Marattin, Adinolfi vi assicura
che saprà chiarirvi cosa pensate, risparmiandovi la fatica del
tentare di farlo da soli.
5.«La
verità, vi prego, sulla verità» (pag.
7): Hanno
tutti ragione? apre
parafrasando il Wystan Hugh Auden di La
verità, vi prego, sull’amore,
che nel «vi
prego» della
traduzione a cura di Gilberto Forti (Adelphi, 1994), seppur con un
sovrappiù d’enfasi rispetto al testo originale (O
Tell Me Truth About Love),
trova efficace soluzione nel ridarci, da un lato, lo smarrimento a
fronte del sentirne dire tutto e il contrario di tutto («...
alcuni dicono che fa girare il mondo / e altri che è solo
un’assurdità...»)
e, dall’altro, l’urgenza di una risposta cui poter prestar fede,
data la centralità, la preminenza, della questione in oggetto.
È
parafrasi estremamente suggestiva per due ragioni: innanzitutto,
la «verità» in
luogo dell’«amore» produce
una locuzione – «la
verità sulla verità» –
il cui corrispettivo evoca quell’«amare
l’amore» che
in Agostino d’Ippona (Esposizione
sui Salmi,
118, VIII, 3) è una brillante scappatoia al problema posto da un
soggetto e da un oggetto dell’amare che sia un «amare
in Dio» («la
verità sulla verità» risolve
allo stesso modo un analogo problema: chi o cosa garantisce
il «vero» di
una «verità»?);
secondariamente, è parafrasi che, in luogo della «verità
sull’amore», ci
offre un «amore
per la verità» che
sta nella ragione etimologica della «filo-sofia». Un
brillante trucchetto, insomma, per presentarsi al lettore come la
persona più qualificata a poter parlare della «verità», per
eminenza di interesse e precipuità di pertinenza.
Da
persona tanto qualificata ci si aspetterebbe in primo luogo una
definizione dell’oggetto in questione, ma anche qui, come di regola
in filosofia, lo si ritiene superfluo, dando scontato che si sappia
di cosa si tratti. C’è che però anche qui, come di regola in
filosofia, l’oggetto è estremamente sfuggente, ambiguo, quasi
sempre espresso da un termine che sembra fatto apposta per reggere –
sia concessa anche a noi una citazione, una
tantum –
quelle che la mera analisi logica del linguaggio rivela come
pseudoproposizioni prive di senso (cfr. Rudolph Carnap, Il
superamento della metafisica mediante l’analisi
logica del linguaggio).
Cos’è,
infatti, la «verità»?
Non ve n’è definizione – tentativo di definizione, per meglio
dire – che non si risolva in tautologia. Tautologia esplicita,
com’è nel definirla «l’essere
vero»(De
Mauro) o «ciò
che è vero» (Treccani),
sennò implicita nel ricorso a un sinomino come «realtà»,
che ce la ridà come «aderenza
alla realtà» (Palazzi), «rispondenza
piena e assoluta con la realtà effettiva» (Devoto-Oli), «conformità
a una realtà obiettiva» (Treccani),
dove questa «realtà»rimanda
regolarmente al «vero»,
in quanto «qualità
e condizione di ciò che è veramente» (Palazzi).
Quando,
poi, dal tentare di definire la «verità»si
passa ad analizzare le sue accezioni nei vari ambiti di impiego
(filosofico, teologico, psicologico, ecc.), le cose vanno anche
peggio, perché sembra si parli ogni volta di una cosa diversa: per
un teologo come Tommaso, dovremmo considerla coincidente all’Essere
e in pratica assimilabile a Dio; per un epistemologo come Peirce,
dovremmo pensare ad essa come al risultato di un accordo di un
determinato gruppo di soggetti, su un determinato assunto, in un
determinato spazio, in un determinato lasso di tempo; per un
matematico come Gödel, non tutto ciò che è vero è
anche dimostrabile, il che pone il problema di assumere
la «verità» come «inverificabile»;
facendoci supporre debba aver ragione un logico come Frege, secondo
il quale il «vero»è
categoria illusoria.
Anche
trasferendo interamente il «vero» al «reale»,
nel disperato e ultimo tentativo di dare un senso alla «verità»,
le cose non si mettono al meglio, perché la realtà è
maledettamente sfuggente ad una percezione che voglia dichiararsi
qualitativamente e quantitativamente assoluta per tradursi in
conoscenza oggettiva: offrirà in se stessa gli strumenti per
valutare la congruenza tra un aspetto del reale e un suo
corrispettivo, in ciò che dunque avrà efficacia di mera
dimostrazione di una congruenza interna ad un sistema, del quale però
la conoscenza soggettiva è parte inalienabile. E così
la realtà sarà
sì comprensibile, ma mai interamente, né sarà mai possibile
ridurla a pura oggettività, perché ad essa è connaturata la
frammentarietà della percezione e della comprensione relativa, che
non può mai tradursi in conoscenza assoluta.
È
in questo punto, che poi è quello in cui ci si dovrebbe arrendere
all’impossibilità dell’onniscienza, dell’impossibilità di
rappresentarci il «vero» al
di fuori di uno spazio soggettivo, che nasce la trascendenza. Con
essa si fa strada in molti l’idea che l’assoluto sia una meta e
che la «verità» sia
un fine. Tutto è promesso all’uomo in una «verità» assoluta,
che non è necessariamente Dio, tutto gli è chiesto in cambio di
quella. Accade allora quasi sempre che il soggettivo, per questa sua
vorace fame di assoluto, cerchi di imporsi come oggettivo, non di
rado con mezzi assai opinabili (si va dai sofismi alle mazzate), e
assai opinabilmente giustificati dalla bontà del fine, che è tutto
illusorio. Ciò nonostante – ma forse dovremmo dire: proprio perciò
– sentiamo pigolare da chi, non essendo in grado di abboffarci di
mazzate, si rassegna ad abboffarci di sofismi: «La
verità, vi prego, sulla verità».
Ma a chi vuo’ piglia’ pe’ culo, Adino’? [Ultima segnalazione: refuso a pag. 74, «vedendo» al posto di «vendendo». Il solo errore innocente.]
Postilla Quando
un sistema è incoerente, è inutilizzabile. Sulla base di questa
regola, che ha radice nel principio di non contraddizione, al quale
nessuna logica può derogare, non è illogico affermare che la verità
non esiste, pretendendo che l’affermazione
sia considerata vera? Per dirla con l’Agostino
del Contra
Academicos,
non vi è contraddizione nel voler dar per certa l’impossibilità
di ogni certezza? La domanda sembra avere grande forza, ma a una più
attenta osservazione vale solo il non capire – il non voler capire
– che la «certezza»
di cui si afferma l’impossibilità
– non a caso, qui, tra virgolette, come peraltro la «verità»
di cui ho parlato – non ha nulla a che vedere con quella che la
nega, perché si tratta di due certezze di natura ben diversa. La
prima, quella con le virgolette, è di natura analoga al «sapere»
che troviamo nella celebre frase attribuita a Socrate («so
di non sapere»):
è la «certezza»
che ha pretesa di essere fondativa, se non creatrice, di un ordine
inscritto nella natura, intesa come realtà antecedente, superiore o
comunque intrinseca all’uomo
astratto dal suo essere prodotto storico, e dunque culturale. La
seconda, quella che nell’esempio
qui proposto sta nel «so»,
è, al contrario, il portato di questo prodotto. Per dirla in altri
termini: sono certo (senza virgolette) che non sia possibile
«certezza»
(con le virgolette), perché la natura altro non è che storia e
cultura, entro le quali ogni «certezza»
sta a statuto revocabile.