mercoledì 25 dicembre 2019

Fingiamoci in ansia, ma nessuna paura


«Con il taglio del contributo per la trasmissione delle sedute parlamentari da dieci a cinque milioni di euro – chiedevo – il governo vuole la chiusura di Radio Radicale? Si accetti la sfida – proponevo – e si rinunci anche agli altri cinque. Di più – aggiungevo – si rinunci anche ai quattro milioni e mezzo che le arrivano dai contributi per leditoria. Si apra una sottoscrizione e i duecentoquarantamilaedispari ascoltatori di Radio Radicale si dichiarino disposti a pagare una quota annua di sessanta euro (14.500.000/244.000 ≃ 60)». E qui facevo cenno a mettere mano alla tasca, fidando nei mirror neurons dei tanti che, come me, erano precipitati nello sconforto alla notizia che, senza quei cinque milioni, Radio Radicale era destinata a chiudere.
60 euro allanno, mi dicevo, sono uninezia, e tanti fra gli sconfortati sono tuttaltro che indigenti, chissà che di milioni non finiremo a metterne insieme trenta, quaranta e, perché no, cinquanta. E già mi immaginavo il titolone nel sommario del tg delle 20,00: «Schiaffo morale di Radio Radicale a Vito Crimi: “Ficcateli nel culo, i soldi della convenzione: diventiamo società ad azionariato diffuso”»; neppure un cenno a chi aveva avuto l’idea, ma, vabbè, fa niente, tanto sono abituato a non veder riconosciuti i miei meriti.
Quella, peraltro, a me sembrava una proposta che avrebbe avuto il pregio di inchiodare tutti alla coerenza del ruolo che ciascuna delle parti aveva imposto allaltra: i «barbari» si sarebbero comportati da veri barbari, dandone prova con la plateale barbarie di colpire al cuore una radio seguitissima dallo 0,7% dei 34 milioni di radioascoltatori italiani, pochi forse, ma créme de la créme della nostra società civile; e i «liberali de sto cazzo» si sarebbero comportati da liberali come Dio comanda, rinunciando a continuare a fare impresa col denaro pubblico, affidando le proprie sorti allapprezzamento che il prodotto avrebbe riscosso sul mercato.
È che, da incallito fruitore a gratis del servizio offertomi da Radio Radicale, proiettavo il mio sgomento per la decisione presa dallodiato governo giallo-verde sullo sgomento che constatavo negli altrettali incalliti fruitori a gratis che, forti dellautorevolezza loro conferita da ruoli di prestigio svolti in campo politico, culturale, economico, ecc., si erano tosto mobilitati perché la decisione fosse revocata, così mostrando, però, di fidare, da un lato, che i «barbari» non fossero barbari fino in fondo e, dallaltro, che, almeno per lItalia, Dio comanda solo «liberali de sto cazzo»: lidea di mettere mano alla propria tasca per evitare la tragedia non sfiorò neppure uno dei tanti eroici paladini scesi in campo, costringendomi allamara constatazione che avevo proiettato male il mio sgomento. Ne ebbi la prova dal succedersi degli eventi, che portarono alla revoca del taglio. Solo provvisoria, è vero, ma, in un paese dove il provvisorio è istantanea del permanente, è come dire: «Cara Radio Radicale, scusaci tanto, era tanto per dire».
Gli eventi, quelli, sono noti a tutti, e danno ragione del sistema che Enzo Forcella illustrò magistralmente in Millecinquecento lettori: «Un giornalista politico, nel nostro paese, può contare su circa millecinquecento lettori: i ministri (tutti), i parlamentari (parte), i dirigenti di partito, sindacalisti, alti prelati e qualche industriale che vuole mostrarsi informato. Il resto non conta, anche se il giornale vende trecentomila copia. Prima di tutto non è accertato che i lettori comuni leggano le prime pagine dei giornali, e in ogni caso la loro influenza è minima. Tutto il sistema è organizzato sul rapporto tra il giornalista politico e quel gruppo di lettori privilegiati. Trascurando questo elemento, ci si esclude la comprensione dellaspetto più caratteristico del nostro giornalismo politico, forse dellintera politica italiana: è latmosfera delle recite in famiglia, con protagonisti che si conoscono fin dallinfanzia, si offrono a vicenda le battute, parlano una lingua allusiva e, anche quando si detestano, si vogliono bene. Si recita soltanto per il proprio piacere, beninteso, dal momento che non esiste pubblico pagante».
E tuttavia queste «recite in famiglia» hanno un costo e, visto che sono indispensabili alla «famiglia», qualcuno deve pur sostenerlo: nessun problema, cè il denaro pubblico, che incidentalmente è nelle disponibilità della «famiglia». Nessuno stupore, allora, nel vedere in soccorso di Radio Radicale anche chi mai lingenuo avrebbe immaginato – vescovi, leghisti, parlamentari di destra e di sinistra che fino al giorno prima Pannella aveva definito «palermitani» e «corleonesi», e perfino qualche membro della Corte Costituzionale, quella da sempre definita «cupola della mafiosità partitocratica» – un po come sorprendere in trattoria, dopo lo spettacolo, Cesare e Bruto allo stesso tavolo. Non poteva che andare comè andata, e confesso che un po mi vergogno di aver temuto che Radio Radicale potesse chiudere, e di averlo temuto al punto da metter mano alla tasca perché non chiudesse. Meno male che ho lasciato adito a pensare che fosse una provocazione, va.

Non commetterò lo stesso errore con Il Foglio, che ieri apriva con straziante strillo: «Un tentativo che non riuscirà per colpire il Foglio e cercare di chiuderlo». Il lessico – sconnesso ad arte, cè da scommetterci – mira a trasmettermi panico, ma non ci casco: Il Foglio è troppo simile a Radio Radicale per temere che gli si possano negare quegli ottocentomilaedispari euro allanno, da pazzi pretendere che sotto la testata, come fa Il Fatto Quotidiano, metta un «non riceve alcun finanziamento pubblico», alzando il prezzo per copia: perché i suoi lettori dovrebbero accollarsi lonere personale di dimostrare quanto sia indispensabile il giornale quando tanti di loro hanno modo di convincere chi di dovere che lonere spetta a tutti? Stavolta, dunque, assisterò alla recita senza patemi: dietro lennesima tragedia che vede opposte civiltà e barbarie saprò godermi la solita commedia allitaliana coi suoi più divertenti caratteri, i «barbari» di buon cuore e i «liberali de sto cazzo». E comincerò col godermi proprio il coro che apre la prima scena del primo atto: «Un tentativo che non riuscirà per colpire il Foglio e cercare di chiuderlo».
«Che non riuscirà» sta messo lì un po a cazzo, fa confusione, forse ci andavano una virgola prima e una dopo, e «tentativo... per cercare» è senza dubbio pleonasmo che stride, ma si diceva: non è ignoranza, è tecnica per indurre allansia, e sono certo che otterrà l’effetto. Se il titolo tende a mettere il lettore della postura giusta perché il pugno nello stomaco sia massimamente efficace, il testo lo sferra con tutta la forza necessaria: «La decisione è di escludere il Foglio dai contributi all’editoria per il 2018 [e] la motivazione non è chiara [ma] qualche tempo fa, nell’era Salvini-Di Maio, il portavoce di Palazzo Chigi, Rocco Casalino, aveva sarcasticamente domandato al nostro Salvatore Merlo perché mai si desse tanto da fare visto che il Foglio sarebbe stato chiuso».
Motivazione, dunque, chiarissima: per sua natura, lo zoticume ha in odio la signorilità, e signore, Il Foglio, lo nacque, basti pensare al fatto che per anni a preparare le mesate per i redattori era lo stesso Spinelli che preparava le buste per le olgettine, a compenso per la partecipazione a cene altrettanto signorili. In buona sostanza, siamo chiamati a scegliere, a schierarci: stiamo con un avanzo della più trucida tv di fine secolo o col giornale caro alla créme della créme della società civile?
Ma, di là dai contendenti in campo, dove sta il quid del contendere? Primo: allepoca in cui il turpe Casalino mozzava la testa a un cavallo e la ficcava sotto le coperte di Cerasa, «la Guardia di Finanza aveva rispolverato una vecchia inchiesta di accertamento giacente da sette anni nei cassetti sui contributi per gli anni 2009-2010 [in base alla quale emergeva che] il Foglio non aveva diritto in quel biennio ai contributi di legge perché non aveva raggiunto la percentuale del 25% delle vendite calcolate sull’intera tiratura», e questo non è vero, perché la percentuale sarà stata almeno del 26%, forse addirittura del 27%, che forse sarà sempre poco, ma solo per chi sguazza nella Nutella e neanche ha idea di cosa sia la créme de la créme.
Secondo: per la Guardia di Finanza, «il Foglio era organo di un movimento inesistente, la Convenzione per la giustizia, il che era gravemente falso, visto che il movimento esisteva, aveva tenuto un suo congresso di fondazione a Firenze […] e dunque il suo giornale tribuna, che non ha mai risparmiato parole di commento e fatti raccontati in materia di giustizia e garantismo giuridico, aveva il collegamento di legge necessario, per non parlare della legittimazione politica civile e culturale, con una struttura effettivamente costituita».
E anche questo è sacrosanto, basta digitare «Convenzione per la giustizia» nella finestrella di Google: la prima voce non centra un cazzo con Il Foglio, ma la seconda rimanda proprio alla scheda audio dellarchivio di Radio Radicale che dà registrazione integrale di quel «congresso di fondazione», nel 1998; a seguire, solo voci malevole che la danno come «trucchetto per prendere i contributi pubblici», ma si sa che il mondo è cattivo, la cosa, quindi, non fa testo.
Terzo: «La cooperativa per la Finanza non era una vera cooperativa in quanto le forze che avevano dato origine al Foglio come Srl vi erano rappresentate e la sostenevano in relazione alla valorizzazione della testata, che il Foglio aveva da loro in affitto». E qui Il Foglio commenta: «È l’ultima falsificazione di una serie», ma senza spiegare perché.
Fa niente, in fondo anche se fosse vero, e anche se la Convenzione per la giustizia fosse solo un trucchetto per prendere i contributi pubblici, anche se negli anni 2009-2010 Il Foglio avesse venduto solo l1% dellintera tiratura, il «sistema» è inattaccabile e i soldi per la «recita in famiglia» di cui Il Foglio è prestigioso teatrino, vedrete, si troveranno. Fingiamoci in ansia, dunque, ma nessuna paura: le leggi del mercato sono valide per gli operai dellIlva e della Whirpool, mica per i giornalisti de Il Foglio.
In fondo, poi, si tratta di 800mila euro allanno, fa meno di 0,03 euro per ciascuno dei 28,6 milioni di contribuenti attivi che lIstat calcolava lanno scorso: è un reddito di cittadinanza che ci possiamo permettere.


Appendice


martedì 17 dicembre 2019

[...]




C’è chi sostiene che la Sinistra ha perso tutto ciò che l’ha contraddistinta nella seconda metà del Novecento, che già era meno di quanto la contraddistingueva prima, sicché oggi sarebbe solo un guscio vuoto, un tanto per dire. Bene, un tweet di Luca Bizzarri ci offre modo di smentire questa tesi.
Perché, certo, la Sinistra avrà smarrito l’ideale di giustizia sociale, sostituendolo con quell’anodino solidarismo che di fatto è indistinguibile dal cosiddetto «capitalismo caritatevole».
Avrà, altresì, rinnegato quasi tutti i miti che un tempo considerava sacri, anche questo è vero, per non parlare del suo Pantheon, in cui oggi, al posto di Marx, Engels e Lenin, troviamo Saviano, Jovanotti e la Rackete.
E sì, anche il suo radicamento sociale non sarà più quello di una volta, come dimostra il fatto che ad una ad una sono cadute quasi tutte le sue storiche roccaforti, e ormai operai e pensionati votano in gran parte Lega.
D’accordo anche sul fatto che conseguentemente pure tutta la sua estetica è andata a farsi fottere: sono iperboli, è ovvio, ma si può convenire che «partito ztl» e «comunisti col rolex» rilevino comunque il tratto della mutazione cui è andata incontro l’etichetta che un tempo garantiva la genuinità del prodotto.
Tutto perso, però, no: in quanto a presunzione di superiorità morale e culturale, la Sinistra resta quella di sempre, la stessa di quando questa sua presunzione riusciva ad ottenere un ben più ampio riconoscimento, che tuttavia oggi residua in molte enclavi d’opinione pubblica (salotti, case editrici, centri sociali, nicchie televisive, conventicole digitali, ecc.).
Il tweet di Luca Bizzarri ha il pregio di essere emblematico di questa presunzione ed è per questo che merita attenzione.

Non credo sia necessario dar ragguagli sul contesto, noto ai più e peraltro tutto esplicito nel testo: Checco Zalone lancia la canzone-trailer che annuncia l’uscita del suo prossimo film e l’Italia si spacca tra chi ci legge quello che descrive, e cioè la molesta invadenza di un immigrato nella vita di un italiano medio, e chi dà per scontato che quella sia ironia, e cioè la figura retorica con la quale – qui non sarà superfluo rammentare – si dice il contrario di quel che in realtà s’intende dire.
Tertium non datur, com’è d’uso nelle guerre civili e nei suoi succedanei: o si capisce che quella è ironia, e che con essa Checco Zalone intende sbertucciare le risibili paure che l’italiano medio nutre per un immigrato che in realtà non è mai invadente, non è mai molesto, o si è ignoranti e xenofobi, cioè leghisti. Vedremo perché in realtà qui il tertium c’è, per il momento pensiamo ad analizzare il tweet.

Senza virgola tra invocazione e vocativo, che pure era ancora in uso ai tempi de l’Unità di «Scusasi, Principessa», Luca Bizzarri attacca con un «Scusaci Checco» che della presunzione di superiorità morale e culturale mostra la vocazione a farsi carico di colpe altrui, in questo caso di chi ha oltraggiosamente travisato il messaggio dell’artista, che, in quanto artista, è chiaro che ne avrà sofferto.
Un farsi carico di colpe altrui che è ulteriormente ribadito da quanto segue, quel «siamo diventati un paese che non capisce le battute, che ha perso il senso dell’umorismo e il senso del ridicolo», nel quale il «noi» rivela l’autoinvestura a rappresentare il paese nel suo insieme, come viene naturale a chi se ne sente paternalisticamente responsabile in virtù delle sue superiori virtù.
La psicoanalisi ci porterebbe nelle desolate plaghe del delirio di grandezza, e non è il caso, basti rilevare in questo atteggiamento il caratteristico sentirsi in missione permanente per l’emancipazione dell’Umanità dal bisogno e dall’errore. Del tutto comprensibile, quindi, la nota di dolente scoramento nel constatare che tanto ancora c’è da fare se dai più refrattari a emanciparsi s’è dovuto sentire: «Se non l’abbiamo capita in tanti[,] avremo qualche ragione». Altrettanto comprensibile l’amaro sfogo in chiusa: «Come se i deficienti, per definizione, debbano essere pochi».
Come non essere d’accordo con Luca Bizzarri? Siamo circondati da deficienti: deficienti che in «Immigrato» vedono rappresentato il malessere che in larghi strati della popolazione italiana è venuto sempre più ad acuirsi a fronte di un’immigrazione che le sottrae risorse e ne minaccia identità e tradizioni, cogliendo così in Checco Zalone chi trova una ragione della xenofobia che ne deriva, cui conferisce dignità costruendo un idealtipo che la rappresenta nella sua dimensione tragicomica; ma pure deficienti che invece ci vedono ironia.

Come, non è ironia, quella di Checco Zalone? Se le parole hanno un senso, e «ironia» ne ha uno ben preciso, no, quella di Checco Zalone non è ironia.
Il Treccani dice che si tratta di una «figura retorica che consiste nell’esprimere il contrario di ciò che in realtà si vuole significare» e che ha per scopo quello di «evidenziare l’insostenibilità di ciò che si simula di sostenere o la validità di ciò che si finge di disapprovare».
Per restare al genere canoro, un esempio di canzone perfettamente ironica è quella di Cappelletti e Lamberti, portata al successo da Ugolino, nel 1969 (non farete fatica a trovarla su Youtube): descrizione della giornata infernale di un tizio che a ogni strofa fa seguire a ritornello uno sconsolato e amaro «ma che bella giornata!», che dà titolo alla canzone. Qui sì che si evidenzia l’insostenibilità di ciò che si simula di sostenere, esprimendo il contrario di ciò che in realtà si vuole significare.
È così che accade con «Immigrato»? È ironico il lamento del protagonista che viene ritratto alle prese con un immigrato che, «alluscita del supermercato», «al distributore di benzina» e «al semaforo», lo assilla con la richiesta di «due euro per un panino»? È ironico lo sconcerto nel ritrovarselo, tornato a casa dopo una giornata di lavoro, «senza permesso nel soggiorno», con inequivoco indizio che si sia scopato la moglie?
Certo, con la tresca tra moglie e immigrato ci troviamo dinanzi a un luogo comune che da sempre nutre la xenofobia: gli immigrati vengono a rubarci le donne. Ma questo è proprio quanto accade al protagonista di «Immigrato», che tuttavia al fatto pare rassegnarsi con la stessa arrendevole passività che in precedenza ha offerto allinsistenza con la quale gli era richiesta la solita monetina, peraltro mai negata.

Dove sarebbe, qui, la validità di ciò che si finge di disapprovare? Dove sarebbe il contrario di ciò che in realtà si vuole significare? In tutta evidenza non c’è traccia di ironia. Siamo piuttosto alla rappresentazione delle paure dello xenofobo, alle quali si dà corpo con situazioni fattuali che descrivono l’invadenza/invasione dell’immigrato/immigrazione come oggettivamente molesta: avremmo ironia solo se assumessimo come pacifico che la molestia è in realtà cosa gradevole e che è piacevole trovarsi un estraneo nel letto coniugale. Temo sia difficile.

È per questo che «Immigrato» va letto in modo diverso da come si è voluto leggerlo da un lato (Checco Zalone ammicca agli xenofobi) e dallaltro (ma quale ammicco, smerda gli xenofobi): il tertium di cui dicevo è che resta nel mezzo, e lì, giocando con ambiguità ed equivoco, fa contenti tutti: allo xenofobo regala il tragicomico ritratto di un italiano in cui identificarsi come vittima, che all’antixenofobo rifila come caricatura dello xenofobo da sbertucciare.
Operazione assai sofisticata, che però non è detto sia stata scientemente elaborata, perché, come su queste pagine dicevo tempo fa riguardo al grattarsi il culo, per farlo non c’è bisogno di conoscere tutto il complesso meccanismo che coordina le almeno tre dozzine di muscoli interessati, né le sette aree neuronali implicate, nel grattarselo.

martedì 10 dicembre 2019

Parliamo di sardine, vi va?





Parliamo di sardine, vi va? Bene, allora comincerei col dire che ritengo impropri i termini che sono in uso per indicare l’ordine (Clupeiformes) e la famiglia (Clupeidae) in cui Walbaum sistemò la Sardina pilchardus, e questo perché tutte le fonti antiche che fanno cenno alla clupea (Ennio, Plinio, Ausonio, ecc.) ce la descrivono come pesce assai simile alla lampreda (Petromyzon marinus), che ovviamente non ha niente a che vedere con la sardina. D’altronde c’è da capirlo, povero Walbaum, ai suoi tempi il Systema naturae di Linneo era una Bibbia e lì dentro l’aringa, in tutto affine alla sardina fatta eccezione per la taglia, era Clupea harengus, ordine Clupeiformes, famiglia Clupeidae, e quindi...

Vi sto prendendo in giro, penserete. Ma no, vi stavo solo didascalizzando – in modo grossolano, convengo – uno dei più comuni infortuni in cui si incorre quando ci si mette a discutere senza un preliminare accordo sul significato da dare al termine che designa l’oggetto in discussione, dando per scontato sia superfluo, quando invece molto spesso non lo è affatto. Molto parlare a vuoto si consuma proprio in questo modo, non credete?
Qui, per evitare l’infortunio in cui celiavo di coinvolgervi, bastava dire Sardine o «sardine»: la maiuscola o le virgolette avrebbero fatto capire che non intendevo parlare dei gustosi pesciolini ricchi di omega-3, ma degli aderenti alla cosa che ha preso vita con la manifestazione tenutasi in Piazza Maggiore, a Bologna, lo scorso 14 novembre. Manifestazione cui i promotori si limitavano a dare come obiettivo unicamente quello di «dimostrare che a Bologna siamo più di loro», e cioè più dei 5.570 che può ospitare il Paladozza, dove quello stesso giorno si teneva un comizio elettorale di Salvini: «sardine», quindi, perché, tenuto conto della capienza del crescentone di Piazza Maggiore, in 6.000 ci si poteva stare solo «stretti come».

Successo assai superiore alle aspettative, con conseguente decisione di replicare l’iniziativa in altre piazze (Modena, Sorrento, Genova, Firenze, Napoli, ecc.), che otteneva risultati ancor più lusinghieri, con comprensibile interesse dei media, che promuovevano la cosa a movimento. Ed è qui che, tornando a quanto dicevamo prima, direi si corra il rischio di dare per scontato quello che non lo è, perché in realtà per movimento si intende l«azione convergente, più o meno organizzata, di più persone che hanno ideologie e programmi operativi comuni» (Treccani).
In via preliminare, dunque, decidiamo: possiamo definire movimento, quello delle «sardine»? Nessun problema in quanto a convergenza ed organizzazione, ma quale ideologia, quale programma operativo, hanno in comune i partecipanti a queste manifestazioni di piazza?
«È venuto il momento – si leggeva nellannuncio del «primo flash mob ittico della storia» (così presentato nel lancio dalle pagine di Facebook) – di cambiare l’inerzia della retorica populista, di dimostrare che i numeri contano più della prepotenza, che la testa viene prima della pancia e che le persone vengono prima degli account social». Vederci ideologia mi pare estremamente arduo, ma almeno cera traccia di un programma operativo? Se sì, sembrava darsi nelleffimera presenza in piazza «dalle ore 20:30 alle 20:45» di quel 14 novembre, che in coda diventavano «20 minuti oggi per salvare 5 anni del tuo futuro»: dobbiamo ritenere che in quei 5 minuti di scarto ci fosse in nuce il «fenomeno di aggregazione e mobilitazione di individui che, in seguito a mutamenti socioeconomici intervenuti, sviluppano la coscienza della loro identità di gruppo sociale e si impegnano attivamente per realizzare un mutamento della loro condizione o dello stesso sistema politico» (ancora Treccani)? Non credo si possa arrivare a tanto: le «6.000 sardine contro Salvini» sembrano limitarsi a esprimere avversione – legittima avversione, peraltro ampiamente condivisibile, come dimostrano le simpatie di cui son state prontamente fatte oggetto – a chi in questo paese oggi sta allopposizione, sicché non si capisce a quale «mutamento del sistema politico» possano mai aspirare visto che in sostanza scendono in piazza in difesa di quello che Salvini – si paventa – vorrebbe sovvertire.
Né credo vada meglio con quella «identità di gruppo sociale» di cui dovrebbero avere «coscienza», perché, se è a un manifesto che di solito si affida il compito di chiarire natura e intenti di un movimento, quello delle «sardine» lo elude: quello che mobilita, infatti, non è un «gruppo sociale», ma uno stato d’animo, sicché sarebbe più opportuno parlare di un «manifesto», mettendoci le stesse virgolette che abbiamo messo a sardine e a movimento.

Chi siete? «Siamo un popolo di persone normali, di tutte le età: amiamo le nostre case e le nostre famiglie, cerchiamo di impegnarci nel nostro lavoro, nel volontariato, nello sport, nel tempo libero. Mettiamo passione nell’aiutare gli altri, quando e come possiamo. Amiamo le cose divertenti, la bellezza, la non violenza (verbale e fisica), la creatività, l’ascolto».
E questo sarebbe un «gruppo sociale»? Non scherziamo, si tratta solo di bellurie gettate in mare come reti a maglie molto strette per pescare di tutto, a strascico. Non c’è da meravigliarsi che dentro possa finirci ogni cosa, una viscida bavosa come la Pascale («Potrei scendere in piazza con loro»), una velenosa manta di fondale come Ferrara («Lasciate nuotare in pace le sardine, fenomeno consolante e nuovo»), un Cerasa che da pesce cardinale si nutre di quello che a Ferrara è rimasto incastrato tra i denti («La bellezza delle sardine è quella di essere non solo un veicolo di resistenza contro i nazionalismi nemici della libertà ma anche uno specchio del nostro impegno personale per difenderci dagli amici delle democrazie illiberali») e perfino uno spinoso pesce palla come il Mantellini («Le piazze piene di sardine, sottolineando gli abissi della destra populista, rendono palese, in maniera inedita e fragorosa, anche il vuoto culturale del centro sinistra. Le sardine sono un’occasione»).

Dai consensi che raccolgono, dalle speranze che nutrono, si ha l’impressione che si tratti dell’ennesimo «populismo dall’alto», espressione di un «popolo» che ha la pretesa di rappresentare in esclusiva le ragioni del cuore e del cervello nella perfetta sintesi di buon senso, buona educazione e buoni sentimenti, a fronte del montante «populismo dal basso», quello del «popolo» che sa farsi forte delle ragioni del ventre, che è fegato e stomaco, acido e bile, e naturalmente merda, ma anche milza, e cioè spleen, che insieme è inquietudine e tedio, accidia e sordo malumore. Qui suppongo sia superfluo segnalare quanto in entrambi casi siamo all’organicismo, che, a dispetto dell’irriducibilità con la quale rappresenta il conflitto sociale, in tasca ha già in partenza la ricetta per risolverlo in trattativa e compromesso.
Nessuna minaccia di guerra civile, dunque, nel fenomeno delle «sardine», anche se i toni suonano bellicosi, oltre che ridondanti di una retorica assai sciatta, in qualche punto francamente ridicola: «Per troppo tempo avete tirato la corda dei nostri sentimenti. L’avete tesa troppo, e si è spezzata. Per anni avete rovesciato bugie e odio su noi e i nostri concittadini: avete unito verità e menzogne, rappresentando il loro mondo nel modo che più vi faceva comodo. Avete approfittato della nostra buona fede, delle nostre paure e difficoltà per rapire la nostra attenzione. Avete scelto di affogare i vostri contenuti politici sotto un oceano di comunicazione vuota. Di quei contenuti non è rimasto più nulla. Per troppo tempo vi abbiamo lasciato fare. Per troppo tempo avete ridicolizzato argomenti serissimi per proteggervi buttando tutto in caciara. Per troppo tempo avete spinto i vostri più fedeli seguaci a insultare e distruggere la vita delle persone sulla rete. Per troppo tempo vi abbiamo lasciato campo libero, perché eravamo stupiti, storditi, inorriditi da quanto in basso poteste arrivare. Adesso ci avete risvegliato. E siete gli unici a dover avere paura. Siamo scesi in una piazza, ci siamo guardati negli occhi, ci siamo contati. È stata energia pura. Lo sapete cosa abbiamo capito? Che basta guardarsi attorno per scoprire che siamo tanti, e molto più forti di voi».
Quello che tuttavia rende evidente la reale natura del fenomeno, che peraltro non è affatto nuovo (basti pensare a quel che De Magistris è riuscito a confezionare a Napoli mettendo insieme spezzoni di borghesia post-bassoliniana, sottoproletariato urbano, e centri sociali), è l’irrinunciabile aggancio ai potentati partitici che le «sardine» chiamano a sostenere l’operazione, ma tenendosene fuori, per evitare il rischio di delegittimarla come espressione della cosiddetta «società civile»: «Crediamo ancora nella politica e nei politici con la P maiuscola. In quelli che pur sbagliando ci provano, che pensano al proprio interesse personale solo dopo aver pensato a quello di tutti gli altri. Sono rimasti in pochi, ma ci sono». E chi sono, di grazia? Perché non farne i nomi?

In quanto al «nemico», niente di nuovo, cioè, per meglio dire, di nuovo c’è che l’«uccidere un fascista non è reato» che le teste calde mettevano a ciliegina sulla torta del cosiddetto «arco costituzionale», che i partiti della Prima Repubblica si spartivano col Manuale Cencelli, qui trova forma soffice (si fa per dire), perfino rassicurante (si fa per dire), in un democraticissimo (si fa per dire) «non avete il diritto di avere qualcuno che vi stia ad ascoltare».
Poi, a sigillo, la citazione da una canzonetta, l’inconfondibile firma di chi con la sensibilità, il gusto e la cultura è rimasto ai tempi del liceo, quando il ventaglio psicologico raramente esorbita dal Postalmarket delle emozioni indossate dai cantautori. Provando a sostituire l’evocazione della prosaica scatoletta di latta con quella indubbiamente assai più lirica de Le acciughe [che] fanno il pallone mettendo in fuga il predone, a Genova sarà la volta di De André, ma a Bologna il genius loci è Dalla, e dunque: «È chiaro che il pensiero dà fastidio, anche se chi pensa è muto come un pesce. Anzi, è un pesce. E come pesce è difficile da bloccare, perché lo protegge il mare. Com’è profondo il mare». Resistendo alla tentazione di unirsi al coro, dove sarebbe questo pensiero che dà fastidio?

Personalmente sottoscrivo quanto ha detto Buttafuoco: «Sembrano usciti da una canzone di Jovanotti: da Che Guevara a Madre Teresa, un’unica chiesa... L’unica salamoia che li tiene è quella del conformismo, perché non sono forse ascrivibili al Pd, ma di sicuro lo sono al mainstrem, all’establishment... Sono tutti pronti per diventare senatori a vita, se non fosse che la piazza degli aspiranti è troppo affollata... Non fanno altro che lisciare il pelo nel verso giusto. Se c’è una cosa certa, è che non sono ribelli: non sono certo “indiani metropolitani”, non sono punk, sono benevolmente accolti da tutti i giornali più importanti, nelle trasmissioni fighette sono ospiti d’onore... Sono diventate delle star funzionali alla perenne ricerca che la sinistra fa del “papa straniero”, una volta è Saviano, una volta è l’attuale pontefice, una volta lo vanno a trovare in Carola Rackete...». Parlava a braccio, gli si può scusare qualche sbavatura di stile.

giovedì 28 novembre 2019

[...]


Per come fu vergato da Alfredo Rocco nel 1930, e per come ancora per poco sarà dato leggerlo, l’art. 580 del Codice Penale non ammette distinguo: stessa pena (da cinque a dodici anni di reclusione) per chi istighi al suicidio, per chi rafforzi un proposito suicidiario e per chi in qualsiasi modo aiuti qualcuno a suicidarsi. Se inscritta nella logica che guarda alla vita come bene indisponibile, la cosa regge egregiamente. Un po’ meno, però, nell’arrivare ad affermare che la vita non sia nella disponibilità neppure di chi ne è titolare; ancor meno, poi, a voler dare un senso alla Costituzione nei punti in cui recita che «la libertà personale è inviolabile» (art. 13) e che «nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge [ma che] la legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana» (art. 32).
Con la sentenza che la Consulta ha depositato lo scorso 22 novembre pare si prenda atto che il rispetto della persona umana sia leso allorquando la si obblighi a tollerare ciò che, in certe condizioni, ma solo in certe condizioni, ella ritiene intollerabile, perché viene affermata l’illegittimità costituzionale dell’art. 580, ma limitatamente al punto in cui «non esclude la punibilità di chi […] agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli». Se almeno in tali situazioni pare passi il principio che «su se stesso, sul proprio corpo e sulla propria mente, l’individuo è sovrano» (John Stuart Mill, 1859), non si può fare a meno di notare che nella sentenza residui comunque un’ultima resistenza all’accettare che la vita appartenga interamente a chi la vive, laddove si dichiara che il suicidio assistito è possibile solo in «una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale» e «previo parere del comitato etico territorialmente competente».
È evidente che tali limiti vengano posti a garanzia che la richiesta di eutanasia sia espressione di un proposito maturato in piena autonomia, al riparo dall’interferenza di ogni altro interesse che non sia quello del richiedente. È altrettanto evidente, tuttavia, quanta sovranità dell’individuo venga sacrificata col chiamare un «comitato etico» a giudicare sulla legittimità della sua richiesta, cui poi solo un «servizio sanitario nazionale» potrà dare legittima risposta. In buona sostanza, siamo in presenza di una soluzione di compromesso, perché, contrariamente a quanto afferma chi più di tutti si è battuto perché l’art. 580 fosse messo in discussione, la sentenza non «cancella la concezione da Stato etico che ha ispirato il Codice penale del 1930» (Associazione Luca Coscioni), ma si limita a registrare che lo Stato mitiga il suo dettato etico, senza però rinunciare a dire l’ultima parola sulla vita dell’individuo, pretendendo sia vincolante almeno relativamente a condizioni e modalità di esecuzione della decisione eutanasica: pur sempre «etico» il «comitato», pur sempre «pubblica» la «struttura», e a nessuno credo sfugga che tutto questo implichi firme e timbri, istanze e attese, ciò che insomma fa negozio e ufficio, in senso stretto e in senso lato.
Diciamo che questa sentenza è abbastanza perché chi è a favore dell’eutanasia possa affermare che si sia in presenza di una «sentenza di portata storica», per quanto essa si limiti a prendere in considerazione il diritto di autodeterminazione solo del paziente che sia attaccato a una macchina. Abbastanza, però, anche perché chi, contrario all’eutanasia, potrà ben dire che quella ora possibile è solo un’«eutanasia a metà», giacché «la concreta applicazione della sentenza» è affidata ai medici, chiamati a decidere «se restare fedeli al giuramento ippocratico o rinunciare a un ruolo di difensori della vita che ha resistito per secoli» (Il Foglio, 23.11.2019).
Viene così a riprodursi quanto è già accaduto con la legge 194 del 22 maggio 1978, che, a ben precise condizioni e con ben precisi limiti, veniva a consentire l’interruzione volontaria della gravidanza, ma solo se effettuata in una struttura pubblica, previo negozio e ufficio, istanza e attesa, firma e timbro (art. 8): lì l’aborto, qui il suicidio assistito, sono possibili solo nell’ambito del servizio sanitario nazionale, e chi è contrario all’uno come all’altro, e non riesce a digerire che la legge li consenta, può ben sperare che a impedirli o almeno a renderli difficili possa soccorrere quella obiezione di coscienza che spesso i medici operanti nelle strutture pubbliche oppongono al compito cui sono chiamati. Poi, certo, ogni tanto viene pizzicato un Dottor Dobermann cui si scopre «rend[a]no molto bene in privato» «le cose che [gli] secca fare in pubblico» (Francesco De Gregori, 1989), ma questo nulla toglie alla solidità del principio in virtù del quale «il medico al quale vengano richieste prestazioni che contrastino con la sua coscienza o con il suo convincimento clinico può rifiutare la propria opera» (Codice di Deontologia Medica, art. 19). Che sarebbe assai più solido, tuttavia, se tale contrasto non avesse luogo in strutture pubbliche deputate a prestazioni che le leggi dello Stato dicono legittime in patente oltraggio a una coscienza che dovrebbe essere comune a tutti i medici, giacché tutti i medici hanno giurato: «Non darò a nessuno un farmaco mortale, neppure se richiesto, né lo proporrò come consiglio; similmente non darò a una donna un pessario abortivo». È il Giuramento di Ippocrate, naturalmente, quello cui faceva cenno Il Foglio: dovrebbe vincolare tutti i medici, no?

No, non va bene, troppa premessa, e troppa inutile ironia. Tutto daccapo, via.



A commento della sentenza n. 242/2019 della Consulta, che dichiara parziale illegittimità costituzionale dell’art. 580 c.p., aprendo così la strada alla possibilità di suicidio assistito, seppur limitatamente ad alcune condizioni, un editorialino de Il Foglio di sabato 23 novembre chiudeva a questo modo: «Tutto adesso ricade sulle spalle dei medici: è a loro che è affidata la concreta applicazione della sentenza, è a loro che tocca stabilire se restare fedeli al giuramento ippocratico o rinunciare a un ruolo di difensori della vita che ha resistito per secoli»Evidente l’appello all’obiezione di coscienza, evidente l’argomento scelto a dargli forza: tener fede a un giuramento, quello di Ippocrate, che trarrebbe autorità dalla tradizione.
Il dispositivo retorico a sostegno, ancorché tutto implicito nell’antonomasia di un Ippocrate che, a piacere, sta a idea platonica di medicina o a santo patrono della professione medica, è il seguente: il testo è del V sec. a.C., è stato Orsa Maggiore per generazioni e generazioni di medici, e mai nessuno ha osato metterlo in discussione, tantomeno nel punto in cui recita «non darò a nessuno un farmaco mortale, neppure se richiesto, né lo proporrò come consiglio», vogliamo metterlo in discussione adesso, signori medici?
Non è la prima volta, di certo non sarà l’ultima, che al Il Foglio parrà di poter conferire valore ultimativo a questo genere di argomentazione, ma mai come nel caso del Giuramento di Ippocrate la scelta pare infelice. Questo perché chi ha un minimo di conoscenza relativa a quel testo sa bene che quel passaggio è aggiunta assai posteriore al V sec. d.C., per la precisione del periodo in cui i cristiani cominciano a manipolare il manipolabile della cultura pagana.
Risparmiandoci quanto è ormai ampiamente provato sul piano filologico (cfr. Entralgo, Sigerist, Pazzini, Lami, ecc.), basti pensare alla Atene in cui Ippocrate visse: il suicidio assistito era pratica corrente, e nessun biasimo morale pesava su di esso (si pensi a Socrate, che, nel bere la cicuta, rende grazie proprio a quell’Aclepio sul quale si vorrebbe che Ippocrate giuri che non darà mai a chicchessia un farmaco mortale), per diventare addirittura una topica, con gli Stoici. Possiamo immaginare che Ippocrate abbia dato vita a una corrente di pensiero dissidente rispetto a questo tanto comune sentire? Non si ha traccia di consimili difese a oltranza della vita prima dell’avvento del cristianesimo, tantomeno in relazione  a scelte eutanasiche motivate dal preservare la dignità della persona a fronte dell’insulto ad essa inferto da malattia, disonore, coartazione, ecc.
Ecco perché l’appello che Il Foglio rivolge ai medici in nome di Ippocrate vale quanto varrebbe la resistenza della Cei a pagare l’Ici in nome della Donazione di Costantino. Solo che la Cei è assai più seria, e se ne astiene.


lunedì 4 novembre 2019

Momenti ordinari con applausi veri




Non sapevo che «Lucca Comics & Games è una fiera internazionale dedicata al fumetto, allanimazione, ai giochi (di ruolo, da tavolo, di carte), ai videogiochi e allimmaginario fantasy e fantascientifico, che si svolge a Lucca, in Toscana, nei giorni tra fine ottobre e inizio novembre» (Wikipedia), lho appreso solo ieri sera, ma sarei ipocrita a fingere imbarazzo per il ritardo col quale sono arrivato a colmare la lacuna: fumetti, videogiochi e fantasy non sono mai stati fra i miei interessi, e le fiere, in generale, mi danno lorticaria. Poi cè che, come da tempo mi ripete il Mantellini, e ha ragione, io sono «vecchio», e qui le virgolette non stanno a mettere in discussione lincontestabile dato anagrafico di uno che è del 57, quanto a dar conto di una natura, una postura, uninclinazione, non saprei come definirla, che è mia da sempre (in tal senso direi che sono nato «vecchio»), e che mi ha sempre reso impossibile il frenetico uptodating che è lo sport preferito dall’uomo di mondo: cos’altro poteva rendermi nota l’esistenza di qualcosa totalmente estraneo ai miei interessi se non l’eterna giovinezza di chi è perennemente immerso nel refreshing? Ma così divago, torniamo al Lucca Comics.
Ci arrivo grazie a un tweet di @repubblica che rimanda al video col quale ho aperto questo post, stralci degli interventi tenuti da Manuel Agnelli e Gian Alfonso Pacinotti (Gipi) nel corso di un dibattito pubblico ospitato da quella che così ho scoperto essere «la più importante rassegna italiana del settore, prima dEuropa e seconda al mondo, dopo il Comiket di Tokyo». Quel ha subito attirato la mia attenzione non è stato tanto il virgolettato che nel tweet si offriva a sintesi dellopinione espressa dai due («Internet è unoccasione sprecata»), che pure ha indubbio motivo di interesse, e che qui infatti mi ripropongo di affrontare, ma cosa potesse motivare laccoppiata, ancor più rispetto a un tema sul quale non mi pare che un musicista e un fumettista possano vantare particolari competenze.
Il video non me ne ha dato spiegazione, mentre qualcosa in più mi è venuto dallintervista concessa dai due a Valeria Rusconi: «Cosa vi unisce? “Innanzitutto il fatto che siamo due appassionati di arti marziali”... “Fino a due anni fa non ci conoscevano”, spiega Gipi... “Io lo conoscevo, invece, e mi piacevano tantissimo le sue cose”, dice Manuel... Vista la vostra amicizia collaborerete, prima o poi? “Cè questo desiderio di fare qualcosa insieme... Il problema è cosa fare? Lo vedremo...» (repubblica.it). Tutto un po più chiaro, no? Il fumettista presentava il suo ultimo lavoro: trattandosi di una fiera dedicata al fumetto, mi pare la cosa più normale al mondo. E si era fatto accompagnare da un amico: anche qui, niente di strano. Ma lamico era anche lui un volto noto e, ancorché centrasse poco coi temi cui era dedicata la fiera, è comprensibile gli si porgesse il microfono: normale, forse, non tanto; ma comprensibile, senzaltro. Poi cè che ai volti noti si è soliti chiedere di esprimere un parere sui temi del momento, tra i quali oggi il web è senza dubbio uno dei più gettonati. Opinioni personali, comè ovvio, e spesso assai poco qualificate. Ma il vip è interessante di per se stesso, e anche questo, dunque, è comprensibile. Un po meno comprensibile, forse, è che, per il solo fatto di essere espresse da volti noti, a certe opinioni venga conferita unautorevolezza che non si capisce donde possa discendere, visto che lattore è interpellato sul fenomeno migratorio, il cantante sul global warming, lo chef sulla guerra dei dazi tra Usa e Cina, ecc. Ma il mondo va così, occorre farsene una ragione.
Tutto in regola, dunque. Sullo stesso palco del Lucca Comics, al posto di Manuel Agnelli, a dire che «la nostra natura fa schifo» e che «Internet è una tragedia», potevano esserci a buon diritto – lo stesso identico diritto – anche, chessò, Walter Veltroni, Valentina Nappi, Alex Zanardi, il cardinal Ravasi, Nunzia De Girolamo, Claudio Cerasa e CiccioGamer89. Rettifico: CiccioGamer89 molto di più, perché il Lucca Comics è dedicato anche ai videogiochi e, in quanto allautorevolezza dovuta allessere un volto noto, CiccioGamer89 su Facebook ha 239.000 follower, tre o quattro volte in più di quanti ne hanno Veltroni, Ravasi e Cerasa messi assieme. Diciamo che, in quanto ad autorevolezza e a pertinenza di contesto, con Manuel Agnelli ci siamo dovuti accontentare.
Poco male, però, perché lopinione da lui espressa è emblematica di uno stato l’animo comune a tanti, quello della amara disillusione per una speranza tradita. Parla di Internet, ma, se ci fate caso, il modulo argomentativo è sovrapponibile a quello di chi lamenta che la democrazia è stata fatta fuori dal populismo: «Abbiamo avuto la possibilità di avere una libertà fantastica... e l’abbiamo sprecata, l’abbiamo buttata via... la gente ha dimostrato che quello spazio di libertà non lo sa usare»«Una tragedia»: potevamo star lì a chiacchierare, «io, Clinton e Putin», ma poi sono arrivati i bifolchi e – puf! – è scoppiata la bolla. Come non sentirci dentro la dolente eco di quanti ritengono che la «gente» faccia un buon uso della libertà solo quando in linea coi propri canoni etico-estetici, dimostrando di non meritarla quando non li rispetta? Direi che in buona sostanza siamo dinanzi al politico che plaude alla grande prova di democrazia data dalle elezioni che lo hanno visto vincitore, ma, quando perde, avanza qualche dubbio sul suffragio universale: non sarebbe il caso di concedere il voto solo a chi sa usarlo come si deve?
Gipi non arriva a tanto, anzi, sembra rivolgere perfino una critica a chi non sa stare al gioco democratico del confronto alla pari e sul web riproduce la «struttura feudale» del «signorotto che fa il suo tweet acuto» coi «servi della gleba che commentano e non ottengono mai una cazzo di risposta che sia una». Di più: lo fa da una posizione di relativo privilegio, perché può vantare «100.000 follower», e tuttavia risponde a tutti, sebbene i suoi pari cerchino di dissuaderlo («ma perché ti abbassi al loro livello?»). Niente, lui rimane un sincero democratico, e risponde a tutti, anche se è costretto ad ammettere che però «ci sono persone che decidono di dedicare la loro vita al peggioramento di sé», in sostanza a scendere ad un livello al quale davvero non vale la pena di scendere.
Questione di livelli, come è evidente. Ci sono quelli alti e quelli bassi, va da sé. E Internet ha il difetto di non riuscire ad evitare che possano intersecarsi. E quando si intersecano – ahilui! – il vip soffre. Verrebbe da chiedersi perché si senta costretto a tanto. In altri termini, perché sta sul web? Più brutalmente ancora: un vip che twitta, che ha una pagina su Facebook, che ha un blog aperto a commenti, ecc. – esattamente – cosa vuole? Che cerca? Cosa muove uno scrittore, un attore, un politico, un giornalista, un cantante, ad offrirsi, almeno nelle intenzioni, all’interlocuzione in rete? Ho già affrontato la questione in passato, sarò costretto a ripetermi.
Andiamo per esclusione. Un vip non dovrebbe essere affetto dalla smania che consuma il volgo nella disperata ricerca di un’occasione per affiorare con la punta del naso dall’anonimato e per dar sfogo in questo modo alle sue misere frustrazioni. Tanto meno mancano occasioni di socializzare, al vip, anzi, quasi sempre ne ha di eccezionali, quantitativamente e qualitativamente. Non twitta certo per vincere la solitudine, il vip, né sta su Facebook perché gli mancano opportunità di comunicare: a differenza di chi ha solo il web per aprir bocca, a uno scrittore, a un attore, a un politico, a un giornalista, a un cantante sono offerte di continuo mille occasioni per esprimere opinioni. Si è visto, no? Sei un rocker, coi fumetti non c’entri un cazzo, di Internet ne sai quanto chiunque, ma Lucca Comics pende lo stesso dalle tue labbra anche se non hai altro da offrire che una sgangherata geremiade.
E allora? Cos’è che spinge un vip a darsi pubblicamente, oltre che in cambio di un compenso, per le sue prestazioni professionali, anche a gratis, per il dichiarato intento di socializzare? Dalla prontezza a retwittare ogni complimento a loro indirizzato – ogni dichiarazione di stima o di simpatia, ogni dimostrazione di ammirazione o di affetto – si supporrebbe sia per vanità, ipotesi che non vacilla neppure al constatare che spesso retwittano anche gli insulti, perché si sa che i meccanismi della vanità spesso sono perversi. Ma la conferma che il vip frequenta i social per mera ingordigia di attenzioni, travestita però da quel bisogno di contatto col pubblico che fa tanto democratico e alla mano, e che perciò è un efficace strumento di autopromozione professionale, oltre che di fidelizzazione dei fan, la troviamo ovunque. E si tratta di momenti ordinari con applausi veri.

domenica 27 ottobre 2019

sabato 26 ottobre 2019

Pronti, via!


C’è una storiella ebraica che spiega a meraviglia come la cosa-in-sé sia mero artefatto del contesto in cui la si osserva. E dunque. Un giovane chiede a un rabbino: «Mi è lecito fumare mentre studio la Torah?». Fulmini e saette: «Il solo porre la domanda è cosa empia!». Passa un po’ di tempo e il giovane gli sottopone un altro quesito: «Quando fumo, mi piace leggere: va bene anche la Torah?». E lì il rabbino, più che condiscendente: «Leggere la Torah va bene sempre».
Sta andando allo stesso modo con «la fulgida gemma che la Chiesa custodisce da secoli» (Paolo VI), e cioè il celibato dei preti. Può sposarsi, un prete? Giammai. Può, chi è sposato, fare il prete? Ma certo. Perché questo sia possibile, tuttavia, occorre che il contesto tolga ogni centralità alla cosa-in-sé. Per meglio dire: deve arrivare al centro dell’attenzione da lontano, prendere al volo quel che vuole, e subito riallontanarsi. Il contesto, come dire, deve essere distraente, e nel senso etimologico del termine (trarre via da). Roba da gesuiti, ma in senso lato, perché tecnica di largo impiego anche da parte del laicato. Un esempio. Perché aprire in Parlamento una discussione che tenda all’equiparazione dell’hashish all’eroina? Si tolga centralità alla questione: l’equiparazione sia infilata di stramacchio (extra mathesis) in un decreto sulle Olimpiadi invernali che si dovranno tenere a Torino (Fini-Giovanardi), e non si dica che la cosa sia pretestuosa, perché anche lì c’è «neve».
Non è un Sinodo sul Celibato, così, che affronta la questione, ma un Sinodo sull’Amazonia. A un passo dal dis-traente, ecco il di-vertente: diamoci appuntamento in rete per dirci quanto ci avesse preso, Lucio Dalla, col prevedere che «anche i preti potranno sposarsi». Aperta la gara a chi arriva primo: pronti, via!

giovedì 24 ottobre 2019

Autofagia


Quando «laffermazione di una regola è incompatibile con le condizioni o le conseguenze della sua asserzione – scrive Chaïm Perelman – a queste incompatibilità si può dare il nome di “autofagia”»; e conclude: «La “ritorsione” è largomento che attacca la regola, mettendo in evidenza l’“autofagia”» (Il dominio retorico – Einaudi, 1981).
Ora, si consideri il seguente tweet di Massimo Mantellini: «Un idiota o un semplice esibizionista augura su Twitter di ammalarsi di tumore a una manciata di personaggi politici. Invece che ignorare l’idiota, segnalarlo e bannarlo, tutti, perfino i giornali, ne parlano». Esplicita affermazione di una regola non cè, ma di fatto quell«invece» non segnala una stortura alla quale «ignorare l’idiota, segnalarlo e bannarlo» si offre come rimedio? Sebbene in modo implicito, a me pare che la regola sia enunciata. Non suona come un «si deve», questo no, ma come non sentirci dentro un «si dovrebbe»? Tanto più persuasivo, aggiungerei, perché fa appello al buonsenso. E non a caso parlo di buonsenso, perché è finanche proverbiale che concedere attenzione a un idiota sia da idioti e concederla a un esibizionista sia fare il suo gioco.
Se però questo buonsenso ci persuade, patente è lincompatibilità tra l’affermazione della regola e le condizioni (ma, a ben vedere, anche le conseguenze) dell’asserzione. Mettendo in evidenza l’autofagia, ho commentato: «Beh, anche qui non mi pare che venga ignorato». E qui ignorato sono stato io, costretto a chiedermi se perché idiota o perché esibizionista.
Poteva finire qui, ma qualche ora dopo, su il Post, Massimo Mantellini ritorna sulla questione. Chissà – mi son detto – può darsi che tra le righe ci sarà pure una risposta alla mia obiezione. Macché. Niente più quanto aveva twittato, e con un’ulteriore autofagia. Perché il tweet lamentava che «tutti, perfino i giornali, ne parlano», dove il «perfino» segnalava una aggravante nel parlarne, se a farlo è chi si dà il compito di informare. E come attacca larticolo? «Oggi mi chiedevo, per l’ennesima volta, come mai, sempre più spesso, il peggio della comunicazione social trovi ospitalità sui grandi siti web editoriali». Al centro dellattenzione, ovviamente, l«hater con qualche decina di follower che ha dedicato tweet ad una serie di personaggi noti augurando loro di ammalarsi di tumore», e «i giornali [che] hanno dedicato alla notizia fiumi di parole». E il Post? È un «giornale»? È un «sito web editoriale»? Comunque lo si voglia considerare, ha coperto la notizia. E grazie alla firma di chi non la considera una notizia, ma una «cazzata travestita da notizia». Unaltra autofagia.

Possiamo limitarci a segnalare linfortunio logico o è il caso di chiederci come possa esservi incorso uno come Massimo Mantellini, che fesso non è, e che su cosa sia il web, e linformazione in generale, ormai riflette da decenni, e con risultati notevoli, unanimemente riconosciutigli? Vediamo se proprio in questarticolo può esservi una traccia che ci consenta di arrivare a una spiegazione.
«I giornali offrono ciò che la gente chiede», scrive. E cosa chiede? «Fondamentalmente notizie che fanno indignare, notizie che fanno meravigliare e notizie che fanno sorridere». Dove le si va a scovare «per titillare l’audience digitale»? In quegli «orrori della rete che se ne stavano nascosti nelle pieghe più recondite senza dare fastidio a nessuno o quasi». Cosa ne consegue? «Un’informazione sempre più scadente, rapida e casuale, che spontaneamente rinuncia a qualsiasi aspirazione». A cosa dovrebbe aspirare? Esplicitamente non lo si dice, ma si intuisce che tra le sue ispirazioni dovrebbesservi quella di formare, che così viene negletta. I pedagoghi lasciano il posto agli intrattenitori, senza con ciò rinunciare a «un tentativo di distinzione elitaria», «utilizzan[d]o simili notizie [le «cazzate travestite da notizie»] per marcare la distanza fra loro stessi e i social. Il giornalismo che dice ai propri lettori: guardate come sono messi questi poveretti su Twitter! Guardate che schifo fa Internet, che ambientaccio frequentate ogni giorno!». E qui anche Massimo Mantellini scopre unautofagia, che poi è la stessa in cui incorre nel momento stesso in cui ce la segnala: «C’è in fondo qualcosa di comico in tutto questo distinguere, visto che spesso le medesime notizie si trovano nella timeline di Facebook e sulla homepage dei giornali». E qui siamo al cortocircuito, perché si conclude: «Il giorno in cui il giornalismo desidererà ricominciare a marcare sul serio la propria indispensabile distanza dal pulviscolo delle comunicazioni di rete sarà semplice da identificare. Sarà il giorno in cui le troppe cazzate che internet rovescia sulle nostre teste ogni giorno smetteranno di avere ospitalità da quelle parti travestite da notizie». Direi che con questo articolo siamo ancora lontani da quel giorno: manca la distanza. E tuttavia anche qui non viene meno un «tentativo di distinzione elitaria», perché, parafrasando, tra le righe si legge: «Guardate come sono messi questi poveretti dei giornali! Guardate che schifo fa linformazione nostrana!».
Come se ne esce? Credo che l’unica via di uscita sia quella di ridefinire il tradizionale ruolo pedagogico da sempre assegnato alle strutture che formano informando, di cui la stampa (cartacea o digitale, ormai non fa più differenza) è solo un settore. Come ignorare, infatti, che l’intrattenimento ha preso il sopravvento dovunque l’audience era in precedenza assicurata solo dalla serietà, e per la semplice ragione che non mirava alla quantità, ma alla qualità? Per porre la questione in altri termini, quelli relativi a un campo della formazione appena superiore a quello che si affida alle «notizie»: quale «divulgazione» può fare a meno di prendere in considerazione il «vulgo»?
È di piana evidenza che i guasti culturali che Massimo Mantellini rileva nella costruzione di una homepage sono gli stessi che ritroviamo nella costruzione di un palinsesto televisivo e perfino nella scelta dei titoli di una collana editoriale, e sia chiaro che li chiamo «guasti» solo per concedere una solidarietà tutta formale, di mera cortesia, a chi li biasima come espressione di vizi morali. Nulla rimane intatto quando muta il paradigma che in-forma i tempi. Lasciarsi andare alla corrente, no. Ma pensare di risalire il fiume usando un cucchiaino per pagaia, nemmeno.