A
me Pippo sta simpaticissimo, e sono contentissimo che Silvia sia
tornata a casa, giuro. Ciò detto, è consentita qualche perplessità
sul ritenere che twittare tutti i giorni per due anni un hashtag sia
una «battaglia»?
Contro chi avrebbe «battagliato»,
Pippo, perché Silvia tornasse a casa? A me pare che anche come
metafora sia assai infelice. Lo ha auspicato con costanza e con
passione, e questo è molto bello, certo, ma in
cosa mai può aver avuto effetto, tutta questa bellezza, sul positivo
esito della vicenda? Di solito non ne ha di più il tifo di chi si auspica che
la propria squadra vinca, e con costanza e passione la incita e la
sprona dagli spalti? È uno degli ingredienti del cosiddetto «fattore
campo»,
che al tifoso può legittimamente dare un qualche appiglio alla
convinzione di aver preso parte alla «battaglia»
vinta. Possibile un parallelo coi tweet di Pippo? Con tutta la buona
volontà, non credo, perché Silvia è a casa grazie al lavoro dei
nostri servizi segreti e grazie ai soldi dei contribuenti, cui a
tutt’ora
– ventiquattr’ore
dopo – Pippo non ritiene necessario, non dico dire un grazie, ma neppure far cenno. «Le
battaglie non sono mai perse –
twitta – nemmeno
(soprattutto!) quelle che lo sembrano. Ricordiamolo sempre. E
insistiamo. Ancora e ancora».
Enfasi da Tartarino di Tarascona, che almeno in Africa si scomodò ad andare.
domenica 10 maggio 2020
giovedì 7 maggio 2020
Affermazioni ancora più sgradevoli
Quattro
o cinque giorni fa, su queste pagine, ho scritto che «è
cosa buona e giusta, nostro dovere e fonte di salvezza,
strappare
agli artigli del virus il novantenne cardiopatico, diabetico,
iperteso e col carcinoma prostatico, per farlo vivere quegli altri
6-18 mesi che gli sarebbero spettati se non avesse avuto il
Covid-19».
Ho tuttavia fatto presente che «questo
obbligo morale [ha]
un
costo» sociale
che «per
un ventenne o un trentenne implicherà condizioni di vita assai più
disgraziate di quelle di cui ha goduto il novantenne».
Il Covid-19, infatti, fa la stragrande maggioranza di morti nelle
fasce di età superiori ai 70 anni, mentre le misure di contenimento
dell’epidemia
avranno ricadute a medio e a lungo termine sull’economia
che colpiranno quasi esclusivamente le fasce di età inferiori.
Constatavo, inoltre, che il solo sollevare la questione di questo
costo sociale sia pressoché unanimemente considerato sgradevole in
forza dell’assunto
che la vita è egualmente sacra nel bimbetto e nel vegliardo.
Ripensandoci, avrei potuto aggiungere che chi
ha sempre sostenuto che «questa
società è gerontocratica»
e che «gli
anziani hanno rubato il futuro ai giovani» proprio
stavolta ha taciuto.
Bene,
nel lasciarmi andare a queste oziose riflessioni, ignoravo che,
due o tre giorni prima, Boris
Palmer, sindaco
di Tubinga,
avesse fatto la seguente affermazione (così
nella versione che
Adriano Sofri riporta nel corpo di un articolo a sua firma su Il
Foglio di
mercoledì 6 maggio grazie al quale ne arrivo a conoscenza):
«Lasciatemelo
dire brutalmente: stiamo salvando in Germania persone che sarebbero
comunque morte nel giro di sei mesi».
Versione sostanzialmente sovrapponibile a quella originale che ho
recuperato dall’intervista
che l’interessato
aveva concesso a Welt
Digital (ora
anche su Youtube):
«Ich
sage es Ihnen mal ganz brutal: Wir retten in Deutschland
möglicherweise Menschen, die in einem halben Jahr sowieso tot
wären».
Nel risalire alla fonte originaria, mi sono imbattuto in un articolo
a
firma di Roberto Giardina, inviato a Berlino per Italia
Oggi,
sul quale ritengo utile porre attenzione per analizzare il modo di
trattare la questione: «“Perché
bloccare il paese, per salvare chi tra sei mesi sarebbe comunque
morto”, ha protestato in tv Boris Palmer, sindaco di Tubinga. Chi
governa deve badare ai fatti e non farsi guidare dalla morale, ha
ammonito, e se la prende con i buonisti al potere. Il termine tedesco
è lungo una ventina di lettere e lascio perdere. In
sintesi, Boris propone di lasciar morire gli anziani e di pensare
all’economia e a chi lavora. Il 64% dei morti per il coronavirus ha
più di 80 anni. Boris, ha 47 anni, non è dell’AfD, il partito
dell’estrema destra, ma è un verde […] Le sue parole hanno
provocato un’ondata di sdegno, e Palmer all’italiana si è subito
scusato per essere stato frainteso».
Mi pare siano evidenti parecchie tendenziosità.
Di «Boris»
(usare il nome invece del cognome spoglia il sindaco del
suo ruolo istituzionale: il discorso non è più politico, ma tutto
personale) è importante dire l’età,
che – guarda caso – è assai lontana da quella in cui il Covid-19
comincia a fare più morti: sarà mica questo il motivo per cui
«Boris»
si
rivela tanto insensibile alla sorte di chi ha più di 80 anni?
Poi –
stupore! – non è un neonazista, ma un verde: il buonista dovrebbe
essere lui, e invece che fa, attacca i buonisti?
In quanto alla
«sintesi»,
intendeva davvero proporre di «lasciar
morire gli anziani»?
Probabilmente no, se ha detto di essere stato frainteso. Non sappiamo
in cosa pensa di essere stato frainteso, perché Roberto Giardina ritiene
irrilevante dargli voce sul punto, quasi gli bastasse averci offerto
lo stupefacente orrore della sua affermazione, cui riserva un
ulteriore e definitivo biasimo: dicendo di essere stato frainteso, si
è comportato «all’italiana».
Capita spesso che un inviato a Londra cominci a sentirsi inglese, a
star male se alle cinque non prende il tè, a sorprendersi un po’
monarchico, e Berlino deve aver fatto lo stesso effetto all’inviato
di Italia
Oggi: aspettiamoci
che uno di questi giorni ci rutti in faccia un altro pregiudizio
anti-italiano, di quelli classici, per il momento accontentiamoci del
sentirci rimproverare che, se ci fraintendono, noi italiani
precisiamo, e il vizio ha superato i confini nazionali, è arrivato
perfino a Tubinga. La Germania esporta Mercedes, e noi cattive
abitudini, Scheiße!
Ma torniamo ad Adriano Sofri, che è troppo
galantuomo per dar del nazista a un verde e al problema sollevato da
Boris Palmer dà questa soluzione: «Benché
nessuna vita sia in saldo, una persona padrona di sé e “anziana”,
cioè un vecchio, come me, avrebbe il privilegio della
responsabilità, di decidere, moralmente o anche praticamente –
sulla soglia di un reparto di rianimazione, per esempio – se
valutare il proprio tempo supplementare più di quello di un bambino
o di un giovane».
Può darsi sia solo un’impressione,
ma dentro m’è
sembrato risuonasse la logica del Maurizio Paniz in difesa dei
privilegi dei parlamentari in pensione: niente tagli, i privilegi non
si toccano, tutt’al
più decido io se dalla pensione di 5-6.000 euro al mese voglio
togliere una monetina da dare in elemosina al morto di fame.
Logica
di ferro, sia quella di Maurizio Paniz, sia quella di Adriano Sofri:
con entrambi siamo dinanzi alla
cogenza della
legge, che, in un caso, dichiara intangibili i diritti maturati
grazie all’autodichia,
soprattutto se attaccati da una riforma che pretende di avere effetti
retroattivi, e, nell’altro,
si appella all’imperativo
morale che la società è tenuta a rispettare.
«Il
rianimatore anestesista –
infatti – rifiuta
di fare dell’età anagrafica il criterio di selezione quando le
risorse siano insufficienti, pur avvertendo che l’età biologica e
la condizione di salute dell’anziano entrano nel conto della
probabilità di reggere alla terapia intensiva. Il giudice non fa
alcuna distinzione di fronte a un omicidio, qualunque età abbia la
vittima: uccidere una persona molto vecchia e paralitica non comporta
un’attenuante».
Correntemente accade? Il giudice dispone un risarcimento pecuniario
simile a carico di chi abbia messo sotto il suo suv un trentenne o un
novantenne? Se in terapia intensiva è rimasto solo un posto a
disposizione e al pronto soccorso arrivano contemporaneamente un
trentenne e un novantenne, il rianimatore sceglie a chi destinare
quel posto (lasciamo perdere a chi) o, per evitare una scelta
moralmente insostenibile, non lo destina a nessuno dei due? No,
ovviamente, ma una volta tanto è bello dar per scontato che la
politica debba chinarsi dinanzi alla perfetta rotondità dell’etica.
Domani, quando Paniz dovrà convincerci che Ruby è davvero nipote di
Mubarak, quando Sofri dovrà convincerci che la certezza della pena
deve cedere alla pietas, tornerà ad essere legge il magistero
crociano secondo il quale la politica non ha nulla a che vedere con
la morale, né deve, come invece pretenderebbe «l’ideale
che canta nell’anima di tutti gli imbecilli». Per oggi, la politica dichiara moralmente categorico che la pensione del parlamentare è intoccabile e ad Adriano Sofri spetta di diritto un posto in terapia intensiva, nel caso.
domenica 3 maggio 2020
Affermazioni sgradevoli
«...
der Pietist schwingt jetzt den Säbel
damit
des Selbstes Exzellenz
nicht
büße ein die Existenz...»
Ludwig
Feuerbach, Reimverse
auf del Tod
Stanno
lì, le affermazioni sgradevoli, in attesa che qualcuno dica loro
perché non reggano sul piano logico, in cosa siano fallaci, perché
non facciamo argomento valido, ma, niente, tutto ciò che ottengono,
poverine, è sentirsi dire che sono sconvenienti, inopportune o,
peggio, provocatorie, e cioè intenzionalmente sgradevoli, il che le
rende ancora più intollerabili, odiose. A me, in questi ultimi mesi,
ne è scappata più d’una.
Ho
detto, per esempio, che «il
virus uccide, ma anche la fame».
Non mi sembrava affermazione sgradevole, giuro, e poi pensavo che la
cosa rimanesse tra noi. Niente, qualcuno di voi ha fatto lo stronzo
ed è andato a dirlo a Bersani, che da Piazza
pulita
m’ha fatto un cazziatone, ma un cazziatone, che, se avessi messo in
dubbio l’integrità morale della sua mamma, me la sarei cavata
meglio: «Di
virus, qui in Italia, si muore, eccome, ma di fame non muore
nessuno».
«Ce
l’ha con te
– fa mia moglie – è
chiaro».
«Vabbè
–
le dico – non
sono stato il solo a scriverlo».
«Sarà
–
fa lei – però
lo sguardo era rivolto a te, e hai visto com’era incazzato? Guarda
che per fare incazzare Bersani ce ne vuole, è evidente che l’hai
sparata grossa».
«Brune’
– a provo a difendermi – il
tuo Bersani intende dirmi che per le strade non vedremo mai bambini
scheletrici e con le mosche sugli occhi? Che una minestrina dalla
Caritas ci sarà sempre? E allora vuol dire che gioca sporco e mi
impicca a un termine, “fame”, che nella mia affermazione aveva
manifesta accezione estensiva. Io volevo dire che è cosa buona e
giusta, nostro dovere e fonte di salvezza, strappare agli artigli del
virus il novantenne cardiopatico, diabetico, iperteso e col carcinoma
prostatico, per farlo vivere quegli altri 6-18 mesi che gli sarebbero
spettati se non avesse avuto il Covid-19. A scanso di equivoci,
ripeto: dobbiamo farlo, ne va del poterci guardare allo specchio
senza scoprirci in una divisa delle SS. E tuttavia mi pare chiaro che
questo obbligo morale abbia un costo, e che a pagarlo sia giocoforza
chiamata tutta la società. Ora tu pensi che sia fuori luogo porre il
problema di questo costo sociale? Non è un costo che per un ventenne
o un trentenne implicherà condizioni di vita assai più disgraziate
di quelle di cui ha goduto il novantenne di cui sopra? Non ci saranno
quarantenni e cinquantenni che si suicideranno perché senza lavoro?
E quand’anche la fame, quella vera, non uccidesse nessuno, la
“fame”, quella dell’accezione estensiva, quanta miseria, quanto
degrado, quanta disperazione, ci costerà?».
Flette
leggermente il capo come a prendere la mira col suo simpaticissimo
fucile a pompa e mi fa: «Ma
anche a novant’anni la vita è il bene supremo».
«E a centoventi no? –
le rispondo – E però di qualcosa bisogna pur morire prima o poi».
E
lei: «Ecco
un’altra
affermazione sgradevole. Per caso, hai fatto pure questa?».
Non
ho risposto.
L’ho
fatta, ho scritto proprio che, alla fin fine, «bisogna
pur morire di qualcosa».
Beh, anche qui non so proprio cosa ci sia di sgradevole. Forse è
quel «bisogna»,
probabilmente suona spietato. E però mi pare che quel «pur»
sia tanto, tanto, tanto solidale. Forse sarebbe stato meglio usare un
«noi»
di quelli leopardiani, chessò, avrei potuto dire: «Infin
moriamo, e tutti: sì vuol l’umana nostra condicio».
Ok, ma quanti ce ne sono che a sentire La
ginestra si
grattano le palle? Diciamola com’è: della nostra morte non si deve
parlare, è tabù. Per quanto sia argomento di ineccepibile solidità,
per quanto sul piano logico non faccia una grinza, che a tutti tocchi
morire è affermazione sgradevole. Sappiamo che ci tocca, ma è
brutto sentircelo dire, chissà che a non sentirlo si possa coltivare
la speranza di essere eterni.
Oh, sia chiaro, in questo non c’è
niente di male, e poi viene spontaneo desiderare di non morire mai.
Non solo: tutti vorremmo vivere in eterno, possibilmente in perfetta
salute. E tanta speranza investiamo in questa prospettiva che ai
primi acciacchi dell’età ci sentiamo traditi. Per fortuna c’è
la medicina, e la medicina ci garantisce una cura per ogni acciacco,
sicché, se poi la garanzia vien meno, è chiaro che non siamo
vittime dell’età e dei guai che quella inevitabilmente si tira
dietro, ma della medicina: non ha il vaccino bell’e pronto per ogni
virus, per esempio, e soprattutto è troppo lenta ad allungare la
vita media attesa che oggi è di soli 80-84 anni.
Una vergogna, no?
Si vive, si vive assai più lungo che in passato, e meglio, ma non ci
basta mai. E tu che fai, vieni a dirmi che «bisogna
pur morire di qualcosa»?
Cane, stai per caso mettendo in discussione l’assunto che la vita è
il bene supremo? Ieri ne son morti 964, oggi 413: puoi dire «meno
male, va’,
si mette al meglio»,
ma solo se precisi – e meglio se lo fai prima – che anche un solo
morto è una tragedia. Ma certo, ci mancherebbe altro, però si mette
al meglio o no? Sì, si mette al meglio, ma dirlo è sgradevole.
Più
o meno sgradevole dell’affermare che, «come
c’è chi alla morte preferisce ogni forma di sopravvivenza, c’è
chi alla sicurezza è disposto a sacrificare ogni libertà»?
E già, perché ho affermato pure questo, e pure questo – m’è
stato detto – era sgradevole. Ora, a parte il fatto che la frase
era moralmente neutra nei confronti di quel «chi»,
si può forse negare che c’è chi a morire preferisce anche lo
stato vegetativo? Tubi infilati dappertutto, elettroencefalogramma
piatto, ma sul testamento biologico ha lasciato scritto: «Accanitevi
pure, ma non mi private del vegetare: se mi staccate la spina, fate
peccato mortale».
Massimo rispetto, è chiaro, ma mi pare evidente che «alla
morte preferisce ogni forma di sopravvivenza».
Anche per lui, la vita – qualunque tipo di vita – è il bene
supremo. Un bene supremo – abbiamo visto – al quale prima poi
dobbiamo rinunciare. E tutto questo non vale pure nel rapporto che c’è
tra libertà e sicurezza? Non c’è
chi ritiene che la sicurezza sia un bene prioritario rispetto alla
libertà? E c’è
da stupirsene, visto che la sicurezza assicura la vita? Se per lui
ogni forma di sopravvivenza è preferibile alla morte, non ne
consegue che possa ritenere indispensabile sacrificare ogni libertà
alla sicurezza?
Massimo rispetto anche in questo caso, ovvio, ma è così difficile capire
che allora la questione sta tutta nel personale punto di vista
riguardo a ciò che prioritario, se libertà o sicurezza, e a cosa
sia bene supremo, se vivere o sopravvivere?
Per caso sto per fare
un’altra
affermazione sgradevole, e cioè che «i
valori sono punti di vista»?
No, l’ho
già fatta. Anche in questo caso non pensavo fosse cosa tanto
sgradevole, e invece anche ad amici e conoscenti, che ai tempi del caso Welby e del caso Englaro la pensavano
esattamente come me, mi hanno fatto presente che gradevole non era. Ma non si era detto che bene supremo non è la vita tout
court,
ma una vita che non abbia perso dignità di essere vissuta, che è
valore sul quale a dire l’ultima
parola può essere solo chi la vive? Di prioritario c’è
solo il suo punto di vista, no? Funzionava con Welby e con Englaro, quando il tentativo di imporgliene un altro, dicendogli: «Spiacente, l’indisponibilità della vita è un valore assoluto», ma oggi non più: la vita è da considerare un valore assoluto, da tutti.
Così pure coi valori di libertà e di sicurezza: amici e conoscenti
che, come me, sospettavano che il terrorismo islamico stesse
diventando una scusa per conculcare libertà e diritti (ci fu
addirittura chi arrivò a dire che per difendere l’Occidente
dovevamo avere fede, o almeno far finta, ricordate?), mi hanno detto
che hanno hanno trovato bello che dai balconi si cantasse in coro
l’Inno
di Mameli,
che si facesse a gara a chi più s’inzaccherava di retorica e di
sentimentalismo, che
il fenomeno della delazione era comunque espressione di senso civico;
come me, temevano che le misure antiterroristiche potessero celare il
tentativo di controllare le nostre vite, i nostri movimenti, ma
stavolta mi hanno detto che era stato sgradevole twittare: «Giacché
non è obbligatorio, non installerò Immuni. Diventasse obbligatorio,
l’installerei, ovvio. Ma chi potrà mai impedirmi di lasciare lo
smartphone a casa dopo aver provveduto a programmare la deviazione
delle chiamate a un altro cellulare, di quelli da venti euro?»;
come me, hanno votato No al referendum del 2016, perché nella riforma
costituzionale voluta da Renzi intravvedevano anche loro un pericoloso
strabordare dell’esecutivo
nel legislativo, ma stavolta hanno trovato sgradevole che nelle
iniziative del governo Conte vedessi anch’io
la sospensione della Costituzione che vedeva anche, faccio per dire,
un Paolo Mieli (cioè che la vedessi, come Paolo Mieli, ma a
differenza sua non aggiungevo: «Vabbè,
ma è necessaria»).
Meno
male che a risultare sgradevole sono abituato, sennò quest’epidemia
mi ammazzava. Capirete, allora, che consolazione è stata
l’intervista
che Wolfgang Schäuble ha concesso a Der
Tagesspiegel:
«Lo
stato deve garantire la migliore assistenza sanitaria possibile a
tutti, ma è assolutamente sbagliato subordinare tutto alla
salvaguardia della vita umana, perché c’è
un valore, peraltro ancorato alla nostra Costituzione, che è quello
della dignità delle persone, che è intoccabile. Questo, tuttavia,
non esclude che prima o poi tutti dobbiamo morire».
Mi sono sentito meno solo, ecco. Ma già so che pure questo risulterà
sgradevole: «Schäuble?
Dio mio, Malvino, Schäuble?».
mercoledì 29 aprile 2020
«La Costituzione è sospesa: brutto, sì, vabbè, ma è necessario»
Silvio
Trentin (1885-1944) – padre di Bruno, segretario della Cgil dal
1988 al 1994 – fu docente di Diritto amministrativo presso
l’Università Ca’ Foscari di Venezia dal 1923 al 1925, anno in
cui capì che aria tirava, si ritirò dall’insegnamento e riparò
in Francia. Fece ritorno in Italia solo nel 1943, per unirsi alle
formazioni partigiane di Giustizia e Libertà operanti nel Veneto, e
morì l’anno dopo, d’infarto, dopo una breve detenzione seguita
all’arresto da parte della polizia fascista. È in Francia che nel
1929, per i tipi della Girard, esce il suo
Les transformations récents du droit public italien,
che in Italia viene pubblicato da Marsilio nel 1983 col titolo Dallo
statuto albertino al regime fascista (ignoro
se si abbia altra edizione italiana antecedente a questa).
A
pag. 371 leggiamo: «Il
fascismo – una volta consolidata la sua fortuna politica mediante
l’integrale conquista dello stato – dovette necessariamente
pensare, come ogni parvenu, a fabbricare e a fissare senza ritardo i
suoi titoli di nobiltà; a mascherare sotto le pieghe di un vestito
fastoso i segni indelebili e rivelatori della sua vera origine; a
riabilitare insomma, con l’enunciazione di una compiacente
dottrina, gli innumerevoli atti – tutti compiuti nel disprezzo di
ogni aderenza ad un principio, di ogni coerenza ad un programma, di
ogni continuità di direttive – sui quali aveva appena fondato il
regime uscito della sua miracolosa “avventura”».
Sembra
quasi di vederlo, il Mussolini, nell’atelier di Rocco e Gentile: è
in mutande e canottiera, dritto davanti allo specchio, e i due gli
danzano d’attorno prendendo le misure – collo, torace, vita,
braccio, coscia – e lui sbuffa, fa: «Sbrighiamoci!»,
e dà un’occhiataccia al manichino che sta in un angolo (com’è
che non ha testa, il manichino?), poi guarda il tavolo sul quale, in
attesa del taglio, stanno i rotoli di stoffa filosofica e di stoffa
giuridica, e risbuffa, e impreca, e poi si raccomanda che i pantaloni
non stringano troppo al cavallo, e Rocco di rimando: «Stia
tranquillo, Eccellenza, starà comodissimo!»,
e Gentile: «Eccellenza,
con la mistica fascista facciamo tre bottoni o doppiopetto?»,
e lui, brusco: «Non
ha importanza, tanto la porto sbottonata, ma sbrighiamoci, porco d’un
Giuda!»,
e ancora, ormai al limite della sopportazione: «Ma
questo guardaroba è proprio necessario?»,
e Gentile: «Ma
certo, Eccellenza, non vorrà mica incarnare il destino patrio
vestito da squadrista?»,
e Rocco: «Vedrà,
Eccellenza, sembrerà “cosa venuta da cielo in terra a miracol
mostrare”».
Facile
farsi beffe del parvenu, fin troppo facile, quasi me ne pento. È che, negli abiti di uomo di stato, chi fino a ieri è stato un criminale si
nota subito, veste male, mentre sotto lo splendido mantello firmato da un Hobbes o da un Bodin il pronipote di un altrettale fetente sembra quasi un
padreterno. Tempo fa su queste pagine scrivevo: «Quando
si riesce a mettere al sicuro le fortune accumulate sgozzando e
depredando, viene il momento di far dimenticare come si è riusciti
ad accumularle, nel tentativo di lasciar credere che siano cadute dal
cielo a premiare un eccezionale incrocio di virtù. È il momento in
cui il nomignolo del delinquente diventa nome del casato, mentre i
suoi misfatti vengono trasfigurati nei simboli del blasone, dove ben
presto diventeranno leggenda di imprese eroiche. I modi diventano
sempre più fini, il sangue diventa blu, il bottino dei saccheggi
diventa possedimento, e dove prima i nemici pendevano ai ganci di
macelleria si fa spazio alla pinacoteca, ben presto ricca di dipinti
di rara bellezza, immancabili le ninfe al bagno, le scene tratte
dalle Sacre Scritture, i ritratti del padrone di casa cui il pennello
abbia saputo dare la patina d’uomo giusto, perfino pio». Qui
aggiungerei che, anche a discendere dai più alti rami di un
nobilissimo albero genealogico scoprendo che il bisnonno di quel tal
papa squisito mecenate era né più né meno che un mafioso nella
Firenze del Dugento, si finisce sempre per chiudere un occhio,
scurdammece
’o passato,
ché, senza sbudellamenti e squartamenti, niente Michelangelo, solo
orologi a cucù. E dunque, siamo indulgenti col parvenu che abbiamo
sorpreso in sartoria: non avesse fatto la fine che ha fatto, staremmo
qui a lodarne il drop.
Nel
suo caso, Trentin dice che il taglio sartoriale era di scuola
tedesca, ma con alcune sostanziali variazioni che fecero dell’abito
una creazione del tutto originale. Rocco e Gentile, infatti,
«cercarono
in tutti i modi di trarre partito dalle dottrine che furono enunciate
in Germania durante il periodo bismarkiano da tutta una scuola di
giuristi; dottrine che, avendo il loro punto d’inizio nella
filosofia hegeliana ed essendo imbevute del principio di identità
dei contrari, erano state fatalmente indotte a riconoscere l’identità
della forza e del diritto, a definire il diritto come “la politica
della forza”»
(pagg. 378-380), e però da quel cartamodello di sovranità
eliminarono il principio di autolimitazione, secondo il quale,
«benché
lo stato rimanga sovrano, l’attività dei suoi organi non può
svilupparsi altro che secondo le prescrizioni e sotto la garanzia
delle sanzioni dettate dalla norma giuridica»
(pag. 381), e tanto si adoperarono perché l’abito fosse
esclusivamente a misura di chi doveva indossarlo che la sovranità
dello stato finì per diventare sovranità tutta personale. Sarà che
scrive nel 1929 e forse non ha letto lo Schmitt del 1922 (di fatto nell’indice dei nomi non c’è), altrimenti pure in quelle modifiche
del cartamodello avrebbe dovuto riconoscere una mano tedesca.
Qui forse è necessario, però, che io dia qualche spiegazione. Nell’ultimo post ho citato Schmitt e ho detto che il suo stato d’eccezione fonda sulla distinzione tra legittimità e legalità, che in realtà è un eufemismo in luogo del conflitto tra arbitrio e diritto, che finisce con l’attribuire al primo la piena sovranità che al secondo lascia solo in comodato; e un lettore, anonimo per giunta, ha commentato: «Ma legalità e legittimità non sono la stessa cosa?»; ed io, brusco: «No», e senza aggiungere altro, perché a doverlo fare sarei stato scortese; e allora un altro lettore, da buon samaritano, è intervenuto e ha detto: «Fino al 1946 le donne in Italia non potevano votare. Secondo me questa disposizione era legale ma non legittima»; e certo – ho risposto io – questo è «un buon esempio, ma non è tutto così semplice. [...] Cosa rendeva legittimo il voto alle donne anche prima del 1946? Qualsiasi sia la risposta, essa rimanda a un valore: e cos’è un valore, se non un particolare punto di vista?». Troppo criptico, c’era bisogno di spiegare. Per esempio, avrei potuto chiedere: fino a non molto tempo fa, un figlio nato fuori dal matrimonio veniva definito illegittimo, il valore cui rimandava il concetto di legittimità, qui, era o no un particolare punto di vista?
Poi c’è che proprio in quelle ore Andrea Pennacchi ha
twittato un adagio di Marco Aurelio («Quel
che è male per l’alveare è male per l’ape»)
che in tutta evidenza esortava a tollerare gli isterici decreti
governativi in nome del bene comune; e lì ho avuto un
fastidiosissimo giramento di coglioni, ma ho cercato lo stesso di
mantenere la calma che solitamente mi vien meno quando mi rifilano la
minestrina dell’organicismo riscaldata al fuocherello del volèmose
bbene,
e ho commentato:
«Questa è la logica sulla quale regge l’arnia, ma sia chiaro che
l’ape non agisce, è agita. E tuttavia questa logica incanta
l’apicultore, la ritiene mirabile, e questo è comprensibile per il
miele che gliene viene».
E pure questo molto molto molto chiaro non era.
Infine, capitava pure
un’altra
cosa: da tante stimabili personcine sentivo dire – testualmente, eh
– che «la
Costituzione è sospesa»,
e il tono era di chi sottintendesse «è
brutto, sì, vabbè, ma è necessario»,
mentre a sottolinearne la gravità, e anche con calore, era il Renzi
di cui su queste pagine s’è
sempre detto il peggio del peggio, senza eccezioni, e dal 2010.
Strumentale, la sua posizione? Molto probabile, e tuttavia è una
posizione che merita attenzione di là da chi la esprime, e dal
perché, per arrivare ad essere condivisa, nel caso, o rigettata. In
via preliminare, tuttavia, è da notare che essa nega la priorità
dell’interesse
che impone (imporrebbe) la sospensione della Costituzione e solleva
la questione del chi abbia il potere di affermare questa priorità,
che è chiaramente un potere che mette in discussione la legalità in
nome della legittimità.
So bene che sul punto merita attenzione
anche un’altra
posizione, quella di chi sostiene che fin qui non c’è
stata alcuna sospensione della Costituzione, perché l’art. 16
recita che «ogni
cittadino può circolare e soggiornare liberamente in qualsiasi parte
del territorio nazionale, salvo le limitazioni che la legge
stabilisce in via generale per motivi di sanità o di sicurezza».
Ho molti dubbi – e li ho già espressi – sul fatto che in questo
caso le «limitazioni»
siano
state stabilite per «legge»:
il potere legislativo è del Parlamento e fin qui esse sono venute
tutte dall’esecutivo. Vado oltre il lecito affermando che, se «la
sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei
limiti della Costituzione»
(art. 1), mettersi sotto i piedi queste forme e questi limiti
configuri – e qui torno a Trentin – una redefinizione del
concetto di sovranità? Se il potere di decidere quando
vi siano «motivi
di sanità o di sicurezza» per
porre limiti ai diritti contemplati dalla Costituzione si trasferisce
dal legislativo all’esecutivo, che peraltro si arroga anche quello
di decidere fino a quando questi motivi sussistano, quanto
distanti siamo dalla situazione in cui «sovrano
è chi decide sullo stato di eccezione»?
Anticipo
l’obiezione:
c’è
coincidenza formale e sostanziale tra emergenza e stato di eccezione?
Mah, non saprei, vedete voi, lascio parlare Schmitt e poi mi dite.
«In
generale non si disputa intorno ad un concetto in sé, quanto meno
nella storia della sovranità: si disputa intorno al suo concreto
impiego, cioè su chi in caso di conflitto decida dove consiste
l’interesse pubblico o statale, la sicurezza e l’ordine pubblico,
le salut public e così via. Il caso d’eccezione, il caso non
descritto nell’ordinamento giuridico vigente, può al massimo
essere indicato come caso di emergenza esterna, come pericolo per
l’esistenza dello Stato o qualcosa di simile, ma non può essere
descritto con riferimento alla situazione di fatto. Solo questo caso
rende attuale la questione relativa al soggetto della sovranità, che
è poi la questione della sovranità stessa. Non si può affermare
con chiarezza incontrovertibile quando sussista un caso d’emergenza,
né si può descrivere dal punto di vista del contenuto che cosa
possa accadere quando realmente si tratta del caso estremo di
emergenza e del suo superamento. Tanto il presupposto quanto il
contenuto della competenza sono qui necessariamente illimitati. Anzi
dal punto di vista dello Stato di diritto non sussiste qui nessuna
competenza. La costituzione può al più indicare chi deve agire in
un caso siffatto. Se quest’azione non è sottoposta a nessun
controllo, se essa non è ripartita in qualche modo, secondo la
prassi della costituzione dello Stato di diritto, fra diverse istanze
che si controllano e si bilanciano a vicenda, allora diventa
automaticamente chiaro chi è il sovrano. Egli decide tanto sul fatto
se sussista il caso estremo di emergenza, quanto sul fatto di che
cosa si debba fare per superarlo. Egli sta al di fuori
dell’ordinamento giuridico normalmente vigente e tuttavia
appartiene ad esso poiché a lui tocca la competenza di decidere se
la costituzione in toto possa essere sospesa».
Non
so che impressione ne abbiate tratto voi, io ribadisco quanto ho già
detto qui e nel post precedente: Agamben ha visto giusto.
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