giovedì 7 maggio 2020

Affermazioni ancora più sgradevoli


Quattro o cinque giorni fa, su queste pagine, ho scritto che «è cosa buona e giusta, nostro dovere e fonte di salvezza, strappare agli artigli del virus il novantenne cardiopatico, diabetico, iperteso e col carcinoma prostatico, per farlo vivere quegli altri 6-18 mesi che gli sarebbero spettati se non avesse avuto il Covid-19».
Ho tuttavia fatto presente che «questo obbligo morale [ha] un costo» sociale che «per un ventenne o un trentenne implicherà condizioni di vita assai più disgraziate di quelle di cui ha goduto il novantenne».
Il Covid-19, infatti, fa la stragrande maggioranza di morti nelle fasce di età superiori ai 70 anni, mentre le misure di contenimento dellepidemia avranno ricadute a medio e a lungo termine sulleconomia che colpiranno quasi esclusivamente le fasce di età inferiori.
Constatavo, inoltre, che il solo sollevare la questione di questo costo sociale sia pressoché unanimemente considerato sgradevole in forza dellassunto che la vita è egualmente sacra nel bimbetto e nel vegliardo.
Ripensandoci, avrei potuto aggiungere che chi ha sempre sostenuto che «questa società è gerontocratica» e che «gli anziani hanno rubato il futuro ai giovani» proprio stavolta ha taciuto.

Bene, nel lasciarmi andare a queste oziose riflessioni, ignoravo che, due o tre giorni prima, Boris Palmer, sindaco di Tubinga, avesse fatto la seguente affermazione (così nella versione che Adriano Sofri riporta nel corpo di un articolo a sua firma su Il Foglio di mercoledì 6 maggio grazie al quale ne arrivo a conoscenza): «Lasciatemelo dire brutalmente: stiamo salvando in Germania persone che sarebbero comunque morte nel giro di sei mesi»
Versione sostanzialmente sovrapponibile a quella originale che ho recuperato dallintervista che linteressato aveva concesso a Welt Digital (ora anche su Youtube): «Ich sage es Ihnen mal ganz brutal: Wir retten in Deutschland möglicherweise Menschen, die in einem halben Jahr sowieso tot wären».
Nel risalire alla fonte originaria, mi sono imbattuto in un articolo a firma di Roberto Giardina, inviato a Berlino per Italia Oggi, sul quale ritengo utile porre attenzione per analizzare il modo di trattare la questione: «“Perché bloccare il paese, per salvare chi tra sei mesi sarebbe comunque morto”, ha protestato in tv Boris Palmer, sindaco di Tubinga. Chi governa deve badare ai fatti e non farsi guidare dalla morale, ha ammonito, e se la prende con i buonisti al potere. Il termine tedesco è lungo una ventina di lettere e lascio perdere. In sintesi, Boris propone di lasciar morire gli anziani e di pensare all’economia e a chi lavora. Il 64% dei morti per il coronavirus ha più di 80 anni. Boris, ha 47 anni, non è dell’AfD, il partito dell’estrema destra, ma è un verde […] Le sue parole hanno provocato un’ondata di sdegno, e Palmer all’italiana si è subito scusato per essere stato frainteso».
Mi pare siano evidenti parecchie tendenziosità.
Di «Boris» (usare il nome invece del cognome spoglia il sindaco del suo ruolo istituzionale: il discorso non è più politico, ma tutto personale) è importante dire letà, che – guarda caso – è assai lontana da quella in cui il Covid-19 comincia a fare più morti: sarà mica questo il motivo per cui «Boris» si rivela tanto insensibile alla sorte di chi ha più di 80 anni?
Poi – stupore! – non è un neonazista, ma un verde: il buonista dovrebbe essere lui, e invece che fa, attacca i buonisti?
In quanto alla «sintesi», intendeva davvero proporre di «lasciar morire gli anziani»? Probabilmente no, se ha detto di essere stato frainteso. Non sappiamo in cosa pensa di essere stato frainteso, perché Roberto Giardina ritiene irrilevante dargli voce sul punto, quasi gli bastasse averci offerto lo stupefacente orrore della sua affermazione, cui riserva un ulteriore e definitivo biasimo: dicendo di essere stato frainteso, si è comportato «all’italiana».
Capita spesso che un inviato a Londra cominci a sentirsi inglese, a star male se alle cinque non prende il tè, a sorprendersi un po’ monarchico, e Berlino deve aver fatto lo stesso effetto all’inviato di Italia Oggi: aspettiamoci che uno di questi giorni ci rutti in faccia un altro pregiudizio anti-italiano, di quelli classici, per il momento accontentiamoci del sentirci rimproverare che, se ci fraintendono, noi italiani precisiamo, e il vizio ha superato i confini nazionali, è arrivato perfino a Tubinga. La Germania esporta Mercedes, e noi cattive abitudini, Scheiße!

Ma torniamo ad Adriano Sofri, che è troppo galantuomo per dar del nazista a un verde e al problema sollevato da Boris Palmer dà questa soluzione: «Benché nessuna vita sia in saldo, una persona padrona di sé e “anziana”, cioè un vecchio, come me, avrebbe il privilegio della responsabilità, di decidere, moralmente o anche praticamente – sulla soglia di un reparto di rianimazione, per esempio – se valutare il proprio tempo supplementare più di quello di un bambino o di un giovane».
Può darsi sia solo unimpressione, ma dentro mè sembrato risuonasse la logica del Maurizio Paniz in difesa dei privilegi dei parlamentari in pensione: niente tagli, i privilegi non si toccano, tuttal più decido io se dalla pensione di 5-6.000 euro al mese voglio togliere una monetina da dare in elemosina al morto di fame.
Logica di ferro, sia quella di Maurizio Paniz, sia quella di Adriano Sofri: con entrambi siamo dinanzi alla cogenza della legge, che, in un caso, dichiara intangibili i diritti maturati grazie allautodichia, soprattutto se attaccati da una riforma che pretende di avere effetti retroattivi, e, nellaltro, si appella allimperativo morale che la società è tenuta a rispettare.
«Il rianimatore anestesista – infatti – rifiuta di fare dell’età anagrafica il criterio di selezione quando le risorse siano insufficienti, pur avvertendo che l’età biologica e la condizione di salute dell’anziano entrano nel conto della probabilità di reggere alla terapia intensiva. Il giudice non fa alcuna distinzione di fronte a un omicidio, qualunque età abbia la vittima: uccidere una persona molto vecchia e paralitica non comporta un’attenuante».
Correntemente accade? Il giudice dispone un risarcimento pecuniario simile a carico di chi abbia messo sotto il suo suv un trentenne o un novantenne? Se in terapia intensiva è rimasto solo un posto a disposizione e al pronto soccorso arrivano contemporaneamente un trentenne e un novantenne, il rianimatore sceglie a chi destinare quel posto (lasciamo perdere a chi) o, per evitare una scelta moralmente insostenibile, non lo destina a nessuno dei due? No, ovviamente, ma una volta tanto è bello dar per scontato che la politica debba chinarsi dinanzi alla perfetta rotondità delletica.
Domani, quando Paniz dovrà convincerci che Ruby è davvero nipote di Mubarak, quando Sofri dovrà convincerci che la certezza della pena deve cedere alla pietas, tornerà ad essere legge il magistero crociano secondo il quale la politica non ha nulla a che vedere con la morale, né deve, come invece pretenderebbe «l’ideale che canta nell’anima di tutti gli imbecilli». Per oggi, la politica dichiara moralmente categorico che la pensione del parlamentare è intoccabile e ad Adriano Sofri spetta di diritto un posto in terapia intensiva, nel caso.

domenica 3 maggio 2020

Affermazioni sgradevoli



«... der Pietist schwingt jetzt den Säbel
damit des Selbstes Exzellenz
nicht büße ein die Existenz...»

Ludwig Feuerbach, Reimverse auf del Tod


Stanno lì, le affermazioni sgradevoli, in attesa che qualcuno dica loro perché non reggano sul piano logico, in cosa siano fallaci, perché non facciamo argomento valido, ma, niente, tutto ciò che ottengono, poverine, è sentirsi dire che sono sconvenienti, inopportune o, peggio, provocatorie, e cioè intenzionalmente sgradevoli, il che le rende ancora più intollerabili, odiose. A me, in questi ultimi mesi, ne è scappata più d’una.
Ho detto, per esempio, che «il virus uccide, ma anche la fame». Non mi sembrava affermazione sgradevole, giuro, e poi pensavo che la cosa rimanesse tra noi. Niente, qualcuno di voi ha fatto lo stronzo ed è andato a dirlo a Bersani, che da Piazza pulita m’ha fatto un cazziatone, ma un cazziatone, che, se avessi messo in dubbio l’integrità morale della sua mamma, me la sarei cavata meglio: «Di virus, qui in Italia, si muore, eccome, ma di fame non muore nessuno».
«Ce l’ha con te – fa mia moglie – è chiaro».
«Vabbè – le dico – non sono stato il solo a scriverlo».
«Sarà – fa lei – però lo sguardo era rivolto a te, e hai visto com’era incazzato? Guarda che per fare incazzare Bersani ce ne vuole, è evidente che l’hai sparata grossa».
«Brune’ – a provo a difendermi – il tuo Bersani intende dirmi che per le strade non vedremo mai bambini scheletrici e con le mosche sugli occhi? Che una minestrina dalla Caritas ci sarà sempre? E allora vuol dire che gioca sporco e mi impicca a un termine, “fame”, che nella mia affermazione aveva manifesta accezione estensiva. Io volevo dire che è cosa buona e giusta, nostro dovere e fonte di salvezza, strappare agli artigli del virus il novantenne cardiopatico, diabetico, iperteso e col carcinoma prostatico, per farlo vivere quegli altri 6-18 mesi che gli sarebbero spettati se non avesse avuto il Covid-19. A scanso di equivoci, ripeto: dobbiamo farlo, ne va del poterci guardare allo specchio senza scoprirci in una divisa delle SS. E tuttavia mi pare chiaro che questo obbligo morale abbia un costo, e che a pagarlo sia giocoforza chiamata tutta la società. Ora tu pensi che sia fuori luogo porre il problema di questo costo sociale? Non è un costo che per un ventenne o un trentenne implicherà condizioni di vita assai più disgraziate di quelle di cui ha goduto il novantenne di cui sopra? Non ci saranno quarantenni e cinquantenni che si suicideranno perché senza lavoro? E quand’anche la fame, quella vera, non uccidesse nessuno, la “fame”, quella dell’accezione estensiva, quanta miseria, quanto degrado, quanta disperazione, ci costerà?».
Flette leggermente il capo come a prendere la mira col suo simpaticissimo fucile a pompa e mi fa: «Ma anche a novant’anni la vita è il bene supremo».
«E a centoventi no? – le rispondo – E però di qualcosa bisogna pur morire prima o poi».
E lei: «Ecco un’altra affermazione sgradevole. Per caso, hai fatto pure questa?».
Non ho risposto.
L’ho fatta, ho scritto proprio che, alla fin fine, «bisogna pur morire di qualcosa». Beh, anche qui non so proprio cosa ci sia di sgradevole. Forse è quel «bisogna», probabilmente suona spietato. E però mi pare che quel «pur» sia tanto, tanto, tanto solidale. Forse sarebbe stato meglio usare un «noi» di quelli leopardiani, chessò, avrei potuto dire: «Infin moriamo, e tutti: sì vuol l’umana nostra condicio». Ok, ma quanti ce ne sono che a sentire La ginestra si grattano le palle? Diciamola com’è: della nostra morte non si deve parlare, è tabù. Per quanto sia argomento di ineccepibile solidità, per quanto sul piano logico non faccia una grinza, che a tutti tocchi morire è affermazione sgradevole. Sappiamo che ci tocca, ma è brutto sentircelo dire, chissà che a non sentirlo si possa coltivare la speranza di essere eterni.
Oh, sia chiaro, in questo non c’è niente di male, e poi viene spontaneo desiderare di non morire mai. Non solo: tutti vorremmo vivere in eterno, possibilmente in perfetta salute. E tanta speranza investiamo in questa prospettiva che ai primi acciacchi dell’età ci sentiamo traditi. Per fortuna c’è la medicina, e la medicina ci garantisce una cura per ogni acciacco, sicché, se poi la garanzia vien meno, è chiaro che non siamo vittime dell’età e dei guai che quella inevitabilmente si tira dietro, ma della medicina: non ha il vaccino bell’e pronto per ogni virus, per esempio, e soprattutto è troppo lenta ad allungare la vita media attesa che oggi è di soli 80-84 anni.
Una vergogna, no? Si vive, si vive assai più lungo che in passato, e meglio, ma non ci basta mai. E tu che fai, vieni a dirmi che «bisogna pur morire di qualcosa»? Cane, stai per caso mettendo in discussione l’assunto che la vita è il bene supremo? Ieri ne son morti 964, oggi 413: puoi dire «meno male, va, si mette al meglio», ma solo se precisi – e meglio se lo fai prima – che anche un solo morto è una tragedia. Ma certo, ci mancherebbe altro, però si mette al meglio o no? Sì, si mette al meglio, ma dirlo è sgradevole.
Più o meno sgradevole dell’affermare che, «come c’è chi alla morte preferisce ogni forma di sopravvivenza, c’è chi alla sicurezza è disposto a sacrificare ogni libertà»? E già, perché ho affermato pure questo, e pure questo – m’è stato detto – era sgradevole. Ora, a parte il fatto che la frase era moralmente neutra nei confronti di quel «chi», si può forse negare che c’è chi a morire preferisce anche lo stato vegetativo? Tubi infilati dappertutto, elettroencefalogramma piatto, ma sul testamento biologico ha lasciato scritto: «Accanitevi pure, ma non mi private del vegetare: se mi staccate la spina, fate peccato mortale».
Massimo rispetto, è chiaro, ma mi pare evidente che «alla morte preferisce ogni forma di sopravvivenza». Anche per lui, la vita – qualunque tipo di vita – è il bene supremo. Un bene supremo – abbiamo visto – al quale prima poi dobbiamo rinunciare. E tutto questo non vale pure nel rapporto che cè tra libertà e sicurezza? Non cè chi ritiene che la sicurezza sia un bene prioritario rispetto alla libertà? E c’è da stupirsene, visto che la sicurezza assicura la vita? Se per lui ogni forma di sopravvivenza è preferibile alla morte, non ne consegue che possa ritenere indispensabile sacrificare ogni libertà alla sicurezza?
Massimo rispetto anche in questo caso, ovvio, ma è così difficile capire che allora la questione sta tutta nel personale punto di vista riguardo a ciò che prioritario, se libertà o sicurezza, e a cosa sia bene supremo, se vivere o sopravvivere?
Per caso sto per fare unaltra affermazione sgradevole, e cioè che «i valori sono punti di vista»? No, lho già fatta. Anche in questo caso non pensavo fosse cosa tanto sgradevole, e invece anche ad amici e conoscenti, che ai tempi del caso Welby e del caso Englaro la pensavano esattamente come me, mi hanno fatto presente che gradevole non era. Ma non si era detto che bene supremo non è la vita tout court, ma una vita che non abbia perso dignità di essere vissuta, che è valore sul quale a dire lultima parola può essere solo chi la vive? Di prioritario cè solo il suo punto di vista, no? Funzionava con Welby e con Englaro, quando  il tentativo di imporgliene un altro, dicendogli: «Spiacente, lindisponibilità della vita è un valore assoluto», ma oggi non più: la vita è da considerare un valore assoluto, da tutti.
Così pure coi valori di libertà e di sicurezza: amici e conoscenti che, come me, sospettavano che il terrorismo islamico stesse diventando una scusa per conculcare libertà e diritti (ci fu addirittura chi arrivò a dire che per difendere lOccidente dovevamo avere fede, o almeno far finta, ricordate?), mi hanno detto che hanno hanno trovato bello che dai balconi si cantasse in coro lInno di Mameli, che si facesse a gara a chi più s’inzaccherava di retorica e di sentimentalismo, che il fenomeno della delazione era comunque espressione di senso civico; come me, temevano che le misure antiterroristiche potessero celare il tentativo di controllare le nostre vite, i nostri movimenti, ma stavolta mi hanno detto che era stato sgradevole twittare: «Giacché non è obbligatorio, non installerò Immuni. Diventasse obbligatorio, l’installerei, ovvio. Ma chi potrà mai impedirmi di lasciare lo smartphone a casa dopo aver provveduto a programmare la deviazione delle chiamate a un altro cellulare, di quelli da venti euro?»; come me, hanno votato No al referendum del 2016, perché nella riforma costituzionale voluta da Renzi intravvedevano anche loro un pericoloso strabordare dellesecutivo nel legislativo, ma stavolta hanno trovato sgradevole che nelle iniziative del governo Conte vedessi anchio la sospensione della Costituzione che vedeva anche, faccio per dire, un Paolo Mieli (cioè che la vedessi, come Paolo Mieli, ma a differenza sua non aggiungevo: «Vabbè, ma è necessaria»).
Meno male che a risultare sgradevole sono abituato, sennò questepidemia mi ammazzava. Capirete, allora, che consolazione è stata lintervista che Wolfgang Schäuble ha concesso a Der Tagesspiegel: «Lo stato deve garantire la migliore assistenza sanitaria possibile a tutti, ma è assolutamente sbagliato subordinare tutto alla salvaguardia della vita umana, perché cè un valore, peraltro ancorato alla nostra Costituzione, che è quello della dignità delle persone, che è intoccabile. Questo, tuttavia, non esclude che prima o poi tutti dobbiamo morire».
Mi sono sentito meno solo, ecco. Ma già so che pure questo risulterà sgradevole: «Schäuble? Dio mio, Malvino, Schäuble?».

mercoledì 29 aprile 2020

«La Costituzione è sospesa: brutto, sì, vabbè, ma è necessario»


Silvio Trentin (1885-1944) – padre di Bruno, segretario della Cgil dal 1988 al 1994 – fu docente di Diritto amministrativo presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia dal 1923 al 1925, anno in cui capì che aria tirava, si ritirò dall’insegnamento e riparò in Francia. Fece ritorno in Italia solo nel 1943, per unirsi alle formazioni partigiane di Giustizia e Libertà operanti nel Veneto, e morì l’anno dopo, d’infarto, dopo una breve detenzione seguita all’arresto da parte della polizia fascista. È in Francia che nel 1929, per i tipi della Girard, esce il suo Les transformations récents du droit public italien, che in Italia viene pubblicato da Marsilio nel 1983 col titolo Dallo statuto albertino al regime fascista (ignoro se si abbia altra edizione italiana antecedente a questa).
A pag. 371 leggiamo: «Il fascismo – una volta consolidata la sua fortuna politica mediante l’integrale conquista dello stato – dovette necessariamente pensare, come ogni parvenu, a fabbricare e a fissare senza ritardo i suoi titoli di nobiltà; a mascherare sotto le pieghe di un vestito fastoso i segni indelebili e rivelatori della sua vera origine; a riabilitare insomma, con l’enunciazione di una compiacente dottrina, gli innumerevoli atti – tutti compiuti nel disprezzo di ogni aderenza ad un principio, di ogni coerenza ad un programma, di ogni continuità di direttive – sui quali aveva appena fondato il regime uscito della sua miracolosa “avventura”».

Sembra quasi di vederlo, il Mussolini, nell’atelier di Rocco e Gentile: è in mutande e canottiera, dritto davanti allo specchio, e i due gli danzano d’attorno prendendo le misure – collo, torace, vita, braccio, coscia – e lui sbuffa, fa: «Sbrighiamoci!», e dà un’occhiataccia al manichino che sta in un angolo (com’è che non ha testa, il manichino?), poi guarda il tavolo sul quale, in attesa del taglio, stanno i rotoli di stoffa filosofica e di stoffa giuridica, e risbuffa, e impreca, e poi si raccomanda che i pantaloni non stringano troppo al cavallo, e Rocco di rimando: «Stia tranquillo, Eccellenza, starà comodissimo!», e Gentile: «Eccellenza, con la mistica fascista facciamo tre bottoni o doppiopetto?», e lui, brusco: «Non ha importanza, tanto la porto sbottonata, ma sbrighiamoci, porco d’un Giuda!», e ancora, ormai al limite della sopportazione: «Ma questo guardaroba è proprio necessario?», e Gentile: «Ma certo, Eccellenza, non vorrà mica incarnare il destino patrio vestito da squadrista?», e Rocco: «Vedrà, Eccellenza, sembrerà “cosa venuta da cielo in terra a miracol mostrare”».

Facile farsi beffe del parvenu, fin troppo facile, quasi me ne pento. È che, negli abiti di uomo di stato, chi fino a ieri è stato un criminale si nota subito, veste male, mentre sotto lo splendido mantello firmato da un Hobbes o da un Bodin il pronipote di un altrettale fetente sembra quasi un padreterno. Tempo fa su queste pagine scrivevo: «Quando si riesce a mettere al sicuro le fortune accumulate sgozzando e depredando, viene il momento di far dimenticare come si è riusciti ad accumularle, nel tentativo di lasciar credere che siano cadute dal cielo a premiare un eccezionale incrocio di virtù. È il momento in cui il nomignolo del delinquente diventa nome del casato, mentre i suoi misfatti vengono trasfigurati nei simboli del blasone, dove ben presto diventeranno leggenda di imprese eroiche. I modi diventano sempre più fini, il sangue diventa blu, il bottino dei saccheggi diventa possedimento, e dove prima i nemici pendevano ai ganci di macelleria si fa spazio alla pinacoteca, ben presto ricca di dipinti di rara bellezza, immancabili le ninfe al bagno, le scene tratte dalle Sacre Scritture, i ritratti del padrone di casa cui il pennello abbia saputo dare la patina d’uomo giusto, perfino pio». Qui aggiungerei che, anche a discendere dai più alti rami di un nobilissimo albero genealogico scoprendo che il bisnonno di quel tal papa squisito mecenate era né più né meno che un mafioso nella Firenze del Dugento, si finisce sempre per chiudere un occhio, scurdammece ’o passato, ché, senza sbudellamenti e squartamenti, niente Michelangelo, solo orologi a cucù. E dunque, siamo indulgenti col parvenu che abbiamo sorpreso in sartoria: non avesse fatto la fine che ha fatto, staremmo qui a lodarne il drop.

Nel suo caso, Trentin dice che il taglio sartoriale era di scuola tedesca, ma con alcune sostanziali variazioni che fecero dell’abito una creazione del tutto originale. Rocco e Gentile, infatti, «cercarono in tutti i modi di trarre partito dalle dottrine che furono enunciate in Germania durante il periodo bismarkiano da tutta una scuola di giuristi; dottrine che, avendo il loro punto d’inizio nella filosofia hegeliana ed essendo imbevute del principio di identità dei contrari, erano state fatalmente indotte a riconoscere l’identità della forza e del diritto, a definire il diritto come “la politica della forza”» (pagg. 378-380), e però da quel cartamodello di sovranità eliminarono il principio di autolimitazione, secondo il quale, «benché lo stato rimanga sovrano, l’attività dei suoi organi non può svilupparsi altro che secondo le prescrizioni e sotto la garanzia delle sanzioni dettate dalla norma giuridica» (pag. 381), e tanto si adoperarono perché l’abito fosse esclusivamente a misura di chi doveva indossarlo che la sovranità dello stato finì per diventare sovranità tutta personale. Sarà che scrive nel 1929 e forse non ha letto lo Schmitt del 1922 (di fatto nell’indice dei nomi non c’è), altrimenti pure in quelle modifiche del cartamodello avrebbe dovuto riconoscere una mano tedesca.

Qui forse è necessario, però, che io dia qualche spiegazione. Nell’ultimo post ho citato Schmitt e ho detto che il suo stato d’eccezione fonda sulla distinzione tra legittimità e legalità, che in realtà è un eufemismo in luogo del conflitto tra arbitrio e diritto, che finisce con l’attribuire al primo la piena sovranità che al secondo lascia solo in comodato; e un lettore, anonimo per giunta, ha commentato: «Ma legalità e legittimità non sono la stessa cosa?»; ed io, brusco: «No», e senza aggiungere altro, perché a doverlo fare sarei stato scortese; e allora un altro lettore, da buon samaritano, è intervenuto e ha detto: «Fino al 1946 le donne in Italia non potevano votare. Secondo me questa disposizione era legale ma non legittima»; e certo – ho risposto io – questo è «un buon esempio, ma non è tutto così semplice. [...] Cosa rendeva legittimo il voto alle donne anche prima del 1946? Qualsiasi sia la risposta, essa rimanda a un valore: e cos’è un valore, se non un particolare punto di vista?». Troppo criptico, c’era bisogno di spiegare. Per esempio, avrei potuto chiedere: fino a non molto tempo fa, un figlio nato fuori dal matrimonio veniva definito illegittimo, il valore cui rimandava il concetto di legittimità, qui, era o no un particolare punto di vista?
Poi c’è che proprio in quelle ore Andrea Pennacchi ha twittato un adagio di Marco Aurelio («Quel che è male per l’alveare è male per l’ape») che in tutta evidenza esortava a tollerare gli isterici decreti governativi in nome del bene comune; e lì ho avuto un fastidiosissimo giramento di coglioni, ma ho cercato lo stesso di mantenere la calma che solitamente mi vien meno quando mi rifilano la minestrina dell’organicismo riscaldata al fuocherello del volèmose bbene, e ho commentato: «Questa è la logica sulla quale regge l’arnia, ma sia chiaro che l’ape non agisce, è agita. E tuttavia questa logica incanta l’apicultore, la ritiene mirabile, e questo è comprensibile per il miele che gliene viene». E pure questo molto molto molto chiaro non era.
Infine, capitava pure unaltra cosa: da tante stimabili personcine sentivo dire – testualmente, eh – che «la Costituzione è sospesa», e il tono era di chi sottintendesse «è brutto, sì, vabbè, ma è necessario», mentre a sottolinearne la gravità, e anche con calore, era il Renzi di cui su queste pagine sè sempre detto il peggio del peggio, senza eccezioni, e dal 2010. Strumentale, la sua posizione? Molto probabile, e tuttavia è una posizione che merita attenzione di là da chi la esprime, e dal perché, per arrivare ad essere condivisa, nel caso, o rigettata. In via preliminare, tuttavia, è da notare che essa nega la priorità dellinteresse che impone (imporrebbe) la sospensione della Costituzione e solleva la questione del chi abbia il potere di affermare questa priorità, che è chiaramente un potere che mette in discussione la legalità in nome della legittimità.
So bene che sul punto merita attenzione anche unaltra posizione, quella di chi sostiene che fin qui non c’è stata alcuna sospensione della Costituzione, perché l’art. 16 recita che «ogni cittadino può circolare e soggiornare liberamente in qualsiasi parte del territorio nazionale, salvo le limitazioni che la legge stabilisce in via generale per motivi di sanità o di sicurezza». Ho molti dubbi – e li ho già espressi – sul fatto che in questo caso le «limitazioni» siano state stabilite per «legge»: il potere legislativo è del Parlamento e fin qui esse sono venute tutte dall’esecutivo. Vado oltre il lecito affermando che, se «la sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione» (art. 1), mettersi sotto i piedi queste forme e questi limiti configuri – e qui torno a Trentin – una redefinizione del concetto di sovranità? Se il potere di decidere quando vi siano «motivi di sanità o di sicurezza» per porre limiti ai diritti contemplati dalla Costituzione si trasferisce dal legislativo all’esecutivo, che peraltro si arroga anche quello di decidere fino a quando questi motivi sussistano, quanto distanti siamo dalla situazione in cui «sovrano è chi decide sullo stato di eccezione»?  

Anticipo lobiezione: cè coincidenza formale e sostanziale tra emergenza e stato di eccezione? Mah, non saprei, vedete voi, lascio parlare Schmitt e poi mi dite.
«In generale non si disputa intorno ad un concetto in sé, quanto meno nella storia della sovranità: si disputa intorno al suo concreto impiego, cioè su chi in caso di conflitto decida dove consiste l’interesse pubblico o statale, la sicurezza e l’ordine pubblico, le salut public e così via. Il caso d’eccezione, il caso non descritto nell’ordinamento giuridico vigente, può al massimo essere indicato come caso di emergenza esterna, come pericolo per l’esistenza dello Stato o qualcosa di simile, ma non può essere descritto con riferimento alla situazione di fatto. Solo questo caso rende attuale la questione relativa al soggetto della sovranità, che è poi la questione della sovranità stessa. Non si può affermare con chiarezza incontrovertibile quando sussista un caso d’emergenza, né si può descrivere dal punto di vista del contenuto che cosa possa accadere quando realmente si tratta del caso estremo di emergenza e del suo superamento. Tanto il presupposto quanto il contenuto della competenza sono qui necessariamente illimitati. Anzi dal punto di vista dello Stato di diritto non sussiste qui nessuna competenza. La costituzione può al più indicare chi deve agire in un caso siffatto. Se quest’azione non è sottoposta a nessun controllo, se essa non è ripartita in qualche modo, secondo la prassi della costituzione dello Stato di diritto, fra diverse istanze che si controllano e si bilanciano a vicenda, allora diventa automaticamente chiaro chi è il sovrano. Egli decide tanto sul fatto se sussista il caso estremo di emergenza, quanto sul fatto di che cosa si debba fare per superarlo. Egli sta al di fuori dell’ordinamento giuridico normalmente vigente e tuttavia appartiene ad esso poiché a lui tocca la competenza di decidere se la costituzione in toto possa essere sospesa».
Non so che impressione ne abbiate tratto voi, io ribadisco quanto ho già detto qui e nel post precedente: Agamben ha visto giusto.