venerdì 15 maggio 2020

Dieci splendidi oggetti morti


Marx chiude il primo capitolo del primo libro del Capitale col celeberrimo paragrafo sul carattere feticistico della merce (Der Fetischcharakter der Ware und sein Geheimnis). Dice che, a un primo colpo docchio, la merce sembra cosa prosaica, tutta conclusa nella sua autoevidenza, ma che ad analizzarla si rivela come cosa intricatissima (sehr vertracktes), piena di sottigliezze metafisiche (metaphysischer Spitzfindigkeit) e di allusioni teologiche (theologischer Mucken). Finché è valore duso, infatti, non ha alcunché di misterioso – è un prodotto del lavoro umano, e soddisfa questo o quel bisogno umano, stop – e tuttavia chi può negare che in essa vi sia un che di sensibilmente sovrasensibile (sinnlich übersinnliches)? Bene, da cosa le deriverebbe questo tratto, che Marx arriva addirittura a definire mistico (mystische Charakter)? Mantenetevi forte: «Dalla sua stessa forma». E cioè? «Il mistero della forma della merce sta semplicemente nel fatto che tale merce restituisce agli uomini, come in uno specchio, limmagine delle caratteristiche sociali del loro lavoro, come proprietà sociali naturali di quelle cose, e perciò restituisce anche limmagine del rapporto sociale tra produttori e lavoro complessivo, facendolo sembrare come un rapporto sociale tra oggetti che esista al di fuori di loro». In sostanza, se il valore di scambio di una cosa, e cioè la forma che di un qualsiasi prodotto del lavoro umano fa una merce, sta nella quantità di lavoro socialmente necessario a produrla, e se questa quantità di lavoro indica quanto delluomo che materialmente lha prodotta è stato alienato in favore di chi ne è il proprietario, il prezzo che chi l’acquista ritiene congruo, e cioè il valore di mercato, gronda del sangue che il primo ha succhiato al secondo: nel fascino che quell’oggetto esercita su chi lo acquista c’è la venerazione per quel dio che esige, e ottiene, quel tributo di sangue. Un dio che potrà anche avere il suo fascino, ma di sangue si nutre.
Prendo in mano, per esempio, la Montblanc che nel 1980 fu il regalo di laurea che ebbi in dono dalla mia fidanzata di allora, e che oggi è uno splendido oggetto morto (e parlo della penna, perché della ex non ho notizia da più di trentanni), un modello in numero limitato, lacca cinese, pennino in oro deliziosamente istoriato: dovrei vederci innanzitutto il costo di allora, quasi un milione delle vecchie lire; e poi pensare al plus-valore che lazienda di Amburgo sottrasse ai suoi operai, meglio se calcolandolo in marchi tedeschi; per poi passare a considerarne il suo Fetischcharakter come effetto di una proiezione (il ruolo delloggetto di lusso nellItalia degli anni Ottanta, per esempio); per così giungere, infine, a cogliere nella vita che fu delloggetto, quella di là da produzione, vendita, acquisto e possesso, la forma fantasmagorica (phantasmagorische Form) dellingarbugliata matassa di relazioni sociali di cui è il proiettato. Ecco, allora, perché Marx insiste tanto sul feticcio come simulacro di un dio: come «i prodotti della testa umana [idoli, idee, ma anche disegno, e cioè design] sembrano essere dotati di una propria vita, figure indipendenti che sono in rapporto tra di loro e con gli uomini» – dice – così «i prodotti della mano umana» ci appaiono ingannevolmente nella dimensione di «rapporti di cose tra persone» e di «rapporti sociali tra cose», mentre invece stanno in quella di un «determinato rapporto sociale tra gli uomini».

Convincente? Tutto sta nelladerire o meno alla rigida distinzione che Marx fa tra valore duso e valore di scambio, e nel sottoscrivere o meno lasserto che «il carattere mistico della merce non deriva dal suo valore duso», ma da quello di scambio, un po come accade col denaro, che pure può essere feticcio, e proprio in quanto particolarissimo tipo di merce priva di un valore d’uso. Bene – ripeto – vi convince? A me non tanto, ma probabilmente è perché ho metabolizzato male un trauma infantile. Avrò avuto nove o dieci anni, infatti, quando, aprendo con le forbicine un bottone foderato di stoffa che avevo staccato da un vecchio paltò di mia nonna, vi trovai dentro una moneta da cinque lire: banalmente, il produttore aveva ritenuto più conveniente usare quella piuttosto che una rondella metallica. Solo qualche tempo dopo seppi che il supporto rigido allinterno di un bottone foderato è detto «anima», ma fu comunque prima di arrivare alla pagina di Marx sul Fetischcharakter der Ware, e questo forse spiega perché, leggendola, ripensai alla monetina cui era stato dato un valore duso, sottraendole del tutto quello di scambio, e il bimbo di quel pomeriggio dei primi anni Sessanta muscì dal petto e con veemenza protestò: «E il bottone di nonna, allora?». E niente di lì in poi riuscì a rendermela convincente, neppure le gran belle glosse, e toste, di Rubin, Benjamin, Baudrillard e Derrida.
A dare, però, una mazzata definitiva a Marx – e a Rubin, Benjamin, Baudrillard e Derrida – è stato, qualche giorno fa, Dieci splendidi oggetti morti di Massimo Mantellini (Einaudi, 2020), che fin dal titolo, daltronde, non fa mistero di rigettare la tesi che, di là dallinorganica realtà del loro valore duso, agli oggetti riconosce esclusivamente un proiettato di vita alienata: in quanto «morti», è evidente che i dieci oggetti – undici, anzi, di cui uno, però, ancora vivo – abbiano vissuto una vita vera, fuor dogni astrazione, al centro di «rapporti di cose tra persone» e di «rapporti sociali tra cose». Fin dalla prima di copertina, infatti, si fa presente che «questo libro parla di loro e dunque di noi». Quel «dunque» sembra buttato lì per caso, ma ha la potenza di un assunto. E quel «loro»? Certo, come pronome va bene pure se riferito a cose inanimate, ma è un caso che sia stato preferito a «essi»? Sono solo indizi, ma inequivocabili: gli oggetti compongono una costellazione autobiografica. E arrivo, così, all’ultima pagina di Dieci splendidi oggetti morti, finalmente persuaso che Marx sbagliasse.

Non vorrei, però, che introdurre a questo modo la mia recensioncella dellultima fatica del Mantellini portasse fuori strada chi mi legge: al pari dei suoi due lavori precedenti (La vista da qui – minimum fax, 2014; Bassa risoluzione – Einaudi, 2018), Dieci splendidi oggetti morti è anche un saggio, ma, come gli altri due, non è uno di quei libroni zeppi del sopracciò che, dopo averti tolto il fiato col waterboarding di frasi lunghe tre pagine e averti inflitto scosse elettriche ai coglioni con schemi, tabelle e diagrammi, ti puntano un’aguzza tesi al gargarozzo intimandoti: «Annuisci, stronzo, sennò sei un uomo morto!». Quasi non sembra abbia una tesi, invece, e infatti si fa avanti come uno di quei vacui libricini da intrattenimento che oggi vanno di moda, tutto collage di curiosità e aneddoti, carinerie e arguzie, che sembrano voler sedurre chi li legge facendogli dire: «Caspiterina, questo l’ho pensato anch’io, ma mica sono stato capace di rappresentarmelo in modo tanto efficace!». Tutta apparenza, drago d’un Mantellini, perché, sotto un lessico assai brillante e un periodare assai scorrevole, come da apericena, Dieci splendidi oggetti morti ha la solidità e la profondità di un classico, da porre sullo scaffale tra Le mots et les choses di Michel Foucault e Logique du sens di Gilles Deleuze. E tanto più stupisce, tanto più incanta per lelegante disinvoltura con la quale dà soluzione a questioni che hanno fatto invano scimunire anche quegli spocchiosi della Scuola di Francoforte, constatando che riesce a scioglierle senza nemmeno formularle, e in sole centocinquantadue pagine, poco più di due etti.
Niente scatarrate di note a pie di pagina (qui e lì qualcuna, certo, ma solo come tributo alla collana), e citazioni, sì, ma quasi tutte relative ad autori vivi o morti da non più di mezzo secolo (fatta eccezione per un Platone ed un Flaubert che hanno comunque croccanza liceale), e nessun indice dei nomi, nessun sommario delle voci bibliografiche, nulla della stantìa archeologia degli oggetti come reperti: la penna, per esempio, sta tutta in questo «mio tratto incerto messo sulla carta» (pag. 29). E qui mi pare occorra un primo doveroso grazie al Mantellini, che ci risparmia la preistoria e storia della biro, per trasfigurarle in mitopoietica: «la morte delloggetto penna è anche, un po, la morte di una parte di me» (pag. 30). Si colga il tepore di quell«un po» e lo si compari allalgido «ora vi dico» di tanti saggi su questo o quelloggetto, chessò, faccio per dire, la Storia del bidet di Luciano Spadanuda (Castelvecchi, 1998), dove al bidet si arriva con «il marchese dArgesson [che] una mattina si recò a far visita, a Parigi, a madame de Prie e fu testimone di uno spettacolo imprevisto e sorprendente [ed] era il 1726...». Come se in Proust leggessimo: «Si ha notizia per la prima volta delle petites madeleines in un manuale di pasticceria del 1648...». Il Mantellini ci risparmia questo orrore, non ci rifila la storia di Lazlo Biro che trae lidea della penna sfera dalla traccia di fango lasciata sulla neve dalle biglie con le quali dei ragazzini stanno giocando nelle vie di Budapest: la penna è quella del 1967, quella degli «esercizi calligrafici e le macchie sul banco» (pag. 32).
Sono queste incursioni autobiografiche – peraltro assai discrete, quasi pudiche – che fanno il sottotesto di Dieci splendidi oggetti morti, rendendo inutile il pesante armamentario argomentativo del saggista comme il faut: «La bic, la reflex, il vinile... – par dudire – Macché feticci, erano vivi! Avevano unanima, e il tempo, inesorabile, ce li ha portati via». E, voilà, la cosa ci convince. Non si commetta, però, lerrore di credere che il Mantellini ci accompagni per mano in un mercatino delle pulci o, peggio, in un museo degli oggetti duso quotidiano nel Novecento: nessuna operazione-nostalgia, perché quando si è lì per scivolare nella melassa del passatismo, drago dun Mantellini, ne siamo tratti via per stargli dietro nei suoi instancabili girovagare per le brulicanti metropoli della post-modernità, comunque rinfrancati da incantevoli parentesi dotium, cui dà location degne di Architectural Digest. Qui, ammessi ad unintimità che emana una fragranza fresca e agrumata, qui e lì screziata da note di lavanda, godiamo di un Umanesimo che, fatte le dovute differenze, ricorda molto quello del Petrarca.

È solo alla seconda lettura – la prima lho sprecata per trovarvi lessay – che Dieci splendidi oggetti morti mi ha aperto gli occhi sulla straordinaria capacità del Mantellini di pizzicare le corde giuste nel lettore al quale si rivolge. Non vi stupisca chio parli di un lettore particolare dopo aver appena detto che il libricino respira dUmanesimo, perché, almeno in questo, Marx ha ragione: un idealtipo duomo che si immagini conserva intatta la sua «anima» sotto la sempre diversa fodera dei tempi – semplicemente – non esiste. Perciò citavo Petrarca, uomo di mondo quanto non mai, perfetto anteprototipo del weberiano Wissenschaft als Beruf, che nel selfie ci tiene ad apparirci «solo et pensoso» sullo sfondo de «più deserti campi» anche se intanto gira come una trottolina in tutta Europa a curare gli interessi diplomatici dei Colonna: non ha importanza se lo sapesse o meno – anche a posteriori è questione che lascia il tempo che trova – ma il suo pubblico non era un uomo fuori dal tempo, semmai un uomo saldamente – comodamente, diremmo – piantato nel tempo da venire, e dunque un idealtipo di lettore che è universale nel modo in cui lesprit du temps sa immaginarsi luniversalità. È dalluniverso culturale di Mantellini, dunque, che vien fuori il suo lettore ideale. Il primo analogo che mi viene in mente è il Massini di Piazza Pulita, che però rispetto a Mantellini è troppo ipertiroideo. In Dieci splendidi oggetti morti non cè traccia di esaltazione, non cè inciampo nellenfasi: il pubblico cui si rivolge è lo stesso che non perde un appuntamento del giovedì su La7, ma sa che col Mantellini è fuori luogo – perfino sconveniente – accelerare il battito. D’altronde, il Mantellini è così anche dal vivo, mite, misurato, gentile ma senza affettazione, ironico ma mai sarcastico, sensibilissimo ma mai svenevole, anglosassone più che latino, un bon bourgeois dalle passioni intelligentemente sorvegliate. Del tutto naturale, quindi, che gusti, inclinazioni, propensioni – quel che ci guida verso questo o quello scaffale, ci porta ad ascoltare questo o quel brano musicale, ecc. – siano raccolti in quello spazio di distribuzione che la statistica chiama «moda», anche se parliamo di gusti, inclinazioni, propensioni di quel ceto che un tempo veniva detta «aristocrazia operaia».
Alto e basso, nel Mantellini, si sposano benissimo: De Gregori non fa a pugni con Eraclito, né Peter Gabriel con John Cage, i telefoni pubblici di Manhattan hanno la forma che ricorda («un po») la stele di Rosetta, lultimo frame che Opportunity ha inviato da Marte è un Rothko, e così via. Altrettanto avviene con le evocazioni, che hanno anche maggiore potenza delle citazioni, soprattutto quando danno limpressione di essere involontarie. «Servono braccia grandi per dispiegare la carta stradale del Nord Italia...» (pag. 3): è un caso che Dieci splendidi oggetti morti ci accolga aprendoci queste «braccia grandi» che fanno eco alle «grandi braccia, grandi mani avrò per te» di Mina? Non lo sapremo mai, ma intanto levocazione cè, e la canzone è proprio del periodo in cui sulla carta Michelin ci cerca la strada per arrivare dove «i nostri genitori stanno portando me e mia sorella per le vacanze estive». «Siamo fermi in un autogrill o in una stazione di rifornimento. Il motore dellauto si sta raffreddando (dice mio padre che una volta allora è meglio fermarsi un po (pag. 4): dettagli in apparenza insignificanti, ma che costruiscono unatmofera, peraltro assai simile al «dolcemente viaggiare / rallentando per poi accelerare /gentilmente senza strappi al motore», che è più meno dello stesso periodo. Una straordinaria tavolozza di immagini ed emozioni, non cè che dire. Alla fin fine, cosa ci importa se leffetto sia studiato o casuale? Con due pennellate, il Mantellini si presenta, e ci seduce: sono figlio di un padre saggio e prudente, salite a bordo, si parte. La se-duzione, d’altronde, con-duce.

In ogni saggio c’è l’immancabile momento in cui l’autore cita una sua opera precedente. C’è modo e modo ovviamente, e non di rado è fastidioso, ma anche su questo punto occorre spendere una lode: un «bassa risoluzione» (in corsivo nel testo), a pag. 58, sta a impercettibile ammicco, mentre di La vista da qui è ripresa la tesi che il medium non è il messaggio nella incidentale affermazione che «la tecnologia è una forma di ragionamento che va a sostituirne un altro» (pag. 36). Una discrezione, una grazia, che, al confronto, le autocitazioni dei Beatles risultano pacchianate. Al confronto, perfino un cameo di Hitchcock in uno dei suoi film diventa fastidiosa intrusione. 

[...]

Qui metto da parte le altre note che avevo appuntato e vi lascio alla lettura di Dieci splendidi oggetti morti, di cui vi consiglio caldamente l’acquisto. Un’ultima cosa, però. A pag. 101, citando il Roland Barthes di Mythologies (1957), l’oggetto appare come «miglior portatore del soprannaturale». Seppur di sponda, dunque, la questione del Fetischcharakter der Ware è affrontata, ovviamente rigettandola, e abbiamo visto con quale atto di fede. Non si deve tuttavia commettere lerrore di credere che i feticci di cui ci parla il Mantellini affollino un Pantheon di tipo pagano o animista, perché, quando si chiede quale sia loggetto che al meglio rappresenta «le caratteristiche di grandiosità e mistero», la risposta è: «linsieme di tutte le tecnologie che hanno abolito i fili […] le molte tecnologie che, sempre più spesso, avvolgono la propria funzione con un mantello di invisibilità. Il momento in cui, fra causa ed effetto, si spande quellistante di assoluto silenzio. O di buio improvviso» (pag. 102). Latmosfera sembra tardo-ellenistica, si avverte una tensione al monoteismo, al Grande Feticcio che tutto prende e pervade. Anche per questo, Dieci splendidi oggetti morti è un testo che rimarrà.

domenica 10 maggio 2020

[...]




A me Pippo sta simpaticissimo, e sono contentissimo che Silvia sia tornata a casa, giuro. Ciò detto, è consentita qualche perplessità sul ritenere che twittare tutti i giorni per due anni un hashtag sia una «battaglia»? Contro chi avrebbe «battagliato», Pippo, perché Silvia tornasse a casa? A me pare che anche come metafora sia assai infelice. Lo ha auspicato con costanza e con passione, e questo è molto bello, certo, ma in cosa mai può aver avuto effetto, tutta questa bellezza, sul positivo esito della vicenda? Di solito non ne ha di più il tifo di chi si auspica che la propria squadra vinca, e con costanza e passione la incita e la sprona dagli spalti? È uno degli ingredienti del cosiddetto «fattore campo», che al tifoso può legittimamente dare un qualche appiglio alla convinzione di aver preso parte alla «battaglia» vinta. Possibile un parallelo coi tweet di Pippo? Con tutta la buona volontà, non credo, perché Silvia è a casa grazie al lavoro dei nostri servizi segreti e grazie ai soldi dei contribuenti, cui a tuttora – ventiquattrore dopo – Pippo non ritiene necessario, non dico dire un grazie, ma neppure far cenno. «Le battaglie non sono mai perse – twitta – nemmeno (soprattutto!) quelle che lo sembrano. Ricordiamolo sempre. E insistiamo. Ancora e ancora». Enfasi da Tartarino di Tarascona, che almeno in Africa si scomodò ad andare.

giovedì 7 maggio 2020

Affermazioni ancora più sgradevoli


Quattro o cinque giorni fa, su queste pagine, ho scritto che «è cosa buona e giusta, nostro dovere e fonte di salvezza, strappare agli artigli del virus il novantenne cardiopatico, diabetico, iperteso e col carcinoma prostatico, per farlo vivere quegli altri 6-18 mesi che gli sarebbero spettati se non avesse avuto il Covid-19».
Ho tuttavia fatto presente che «questo obbligo morale [ha] un costo» sociale che «per un ventenne o un trentenne implicherà condizioni di vita assai più disgraziate di quelle di cui ha goduto il novantenne».
Il Covid-19, infatti, fa la stragrande maggioranza di morti nelle fasce di età superiori ai 70 anni, mentre le misure di contenimento dellepidemia avranno ricadute a medio e a lungo termine sulleconomia che colpiranno quasi esclusivamente le fasce di età inferiori.
Constatavo, inoltre, che il solo sollevare la questione di questo costo sociale sia pressoché unanimemente considerato sgradevole in forza dellassunto che la vita è egualmente sacra nel bimbetto e nel vegliardo.
Ripensandoci, avrei potuto aggiungere che chi ha sempre sostenuto che «questa società è gerontocratica» e che «gli anziani hanno rubato il futuro ai giovani» proprio stavolta ha taciuto.

Bene, nel lasciarmi andare a queste oziose riflessioni, ignoravo che, due o tre giorni prima, Boris Palmer, sindaco di Tubinga, avesse fatto la seguente affermazione (così nella versione che Adriano Sofri riporta nel corpo di un articolo a sua firma su Il Foglio di mercoledì 6 maggio grazie al quale ne arrivo a conoscenza): «Lasciatemelo dire brutalmente: stiamo salvando in Germania persone che sarebbero comunque morte nel giro di sei mesi»
Versione sostanzialmente sovrapponibile a quella originale che ho recuperato dallintervista che linteressato aveva concesso a Welt Digital (ora anche su Youtube): «Ich sage es Ihnen mal ganz brutal: Wir retten in Deutschland möglicherweise Menschen, die in einem halben Jahr sowieso tot wären».
Nel risalire alla fonte originaria, mi sono imbattuto in un articolo a firma di Roberto Giardina, inviato a Berlino per Italia Oggi, sul quale ritengo utile porre attenzione per analizzare il modo di trattare la questione: «“Perché bloccare il paese, per salvare chi tra sei mesi sarebbe comunque morto”, ha protestato in tv Boris Palmer, sindaco di Tubinga. Chi governa deve badare ai fatti e non farsi guidare dalla morale, ha ammonito, e se la prende con i buonisti al potere. Il termine tedesco è lungo una ventina di lettere e lascio perdere. In sintesi, Boris propone di lasciar morire gli anziani e di pensare all’economia e a chi lavora. Il 64% dei morti per il coronavirus ha più di 80 anni. Boris, ha 47 anni, non è dell’AfD, il partito dell’estrema destra, ma è un verde […] Le sue parole hanno provocato un’ondata di sdegno, e Palmer all’italiana si è subito scusato per essere stato frainteso».
Mi pare siano evidenti parecchie tendenziosità.
Di «Boris» (usare il nome invece del cognome spoglia il sindaco del suo ruolo istituzionale: il discorso non è più politico, ma tutto personale) è importante dire letà, che – guarda caso – è assai lontana da quella in cui il Covid-19 comincia a fare più morti: sarà mica questo il motivo per cui «Boris» si rivela tanto insensibile alla sorte di chi ha più di 80 anni?
Poi – stupore! – non è un neonazista, ma un verde: il buonista dovrebbe essere lui, e invece che fa, attacca i buonisti?
In quanto alla «sintesi», intendeva davvero proporre di «lasciar morire gli anziani»? Probabilmente no, se ha detto di essere stato frainteso. Non sappiamo in cosa pensa di essere stato frainteso, perché Roberto Giardina ritiene irrilevante dargli voce sul punto, quasi gli bastasse averci offerto lo stupefacente orrore della sua affermazione, cui riserva un ulteriore e definitivo biasimo: dicendo di essere stato frainteso, si è comportato «all’italiana».
Capita spesso che un inviato a Londra cominci a sentirsi inglese, a star male se alle cinque non prende il tè, a sorprendersi un po’ monarchico, e Berlino deve aver fatto lo stesso effetto all’inviato di Italia Oggi: aspettiamoci che uno di questi giorni ci rutti in faccia un altro pregiudizio anti-italiano, di quelli classici, per il momento accontentiamoci del sentirci rimproverare che, se ci fraintendono, noi italiani precisiamo, e il vizio ha superato i confini nazionali, è arrivato perfino a Tubinga. La Germania esporta Mercedes, e noi cattive abitudini, Scheiße!

Ma torniamo ad Adriano Sofri, che è troppo galantuomo per dar del nazista a un verde e al problema sollevato da Boris Palmer dà questa soluzione: «Benché nessuna vita sia in saldo, una persona padrona di sé e “anziana”, cioè un vecchio, come me, avrebbe il privilegio della responsabilità, di decidere, moralmente o anche praticamente – sulla soglia di un reparto di rianimazione, per esempio – se valutare il proprio tempo supplementare più di quello di un bambino o di un giovane».
Può darsi sia solo unimpressione, ma dentro mè sembrato risuonasse la logica del Maurizio Paniz in difesa dei privilegi dei parlamentari in pensione: niente tagli, i privilegi non si toccano, tuttal più decido io se dalla pensione di 5-6.000 euro al mese voglio togliere una monetina da dare in elemosina al morto di fame.
Logica di ferro, sia quella di Maurizio Paniz, sia quella di Adriano Sofri: con entrambi siamo dinanzi alla cogenza della legge, che, in un caso, dichiara intangibili i diritti maturati grazie allautodichia, soprattutto se attaccati da una riforma che pretende di avere effetti retroattivi, e, nellaltro, si appella allimperativo morale che la società è tenuta a rispettare.
«Il rianimatore anestesista – infatti – rifiuta di fare dell’età anagrafica il criterio di selezione quando le risorse siano insufficienti, pur avvertendo che l’età biologica e la condizione di salute dell’anziano entrano nel conto della probabilità di reggere alla terapia intensiva. Il giudice non fa alcuna distinzione di fronte a un omicidio, qualunque età abbia la vittima: uccidere una persona molto vecchia e paralitica non comporta un’attenuante».
Correntemente accade? Il giudice dispone un risarcimento pecuniario simile a carico di chi abbia messo sotto il suo suv un trentenne o un novantenne? Se in terapia intensiva è rimasto solo un posto a disposizione e al pronto soccorso arrivano contemporaneamente un trentenne e un novantenne, il rianimatore sceglie a chi destinare quel posto (lasciamo perdere a chi) o, per evitare una scelta moralmente insostenibile, non lo destina a nessuno dei due? No, ovviamente, ma una volta tanto è bello dar per scontato che la politica debba chinarsi dinanzi alla perfetta rotondità delletica.
Domani, quando Paniz dovrà convincerci che Ruby è davvero nipote di Mubarak, quando Sofri dovrà convincerci che la certezza della pena deve cedere alla pietas, tornerà ad essere legge il magistero crociano secondo il quale la politica non ha nulla a che vedere con la morale, né deve, come invece pretenderebbe «l’ideale che canta nell’anima di tutti gli imbecilli». Per oggi, la politica dichiara moralmente categorico che la pensione del parlamentare è intoccabile e ad Adriano Sofri spetta di diritto un posto in terapia intensiva, nel caso.

domenica 3 maggio 2020

Affermazioni sgradevoli



«... der Pietist schwingt jetzt den Säbel
damit des Selbstes Exzellenz
nicht büße ein die Existenz...»

Ludwig Feuerbach, Reimverse auf del Tod


Stanno lì, le affermazioni sgradevoli, in attesa che qualcuno dica loro perché non reggano sul piano logico, in cosa siano fallaci, perché non facciamo argomento valido, ma, niente, tutto ciò che ottengono, poverine, è sentirsi dire che sono sconvenienti, inopportune o, peggio, provocatorie, e cioè intenzionalmente sgradevoli, il che le rende ancora più intollerabili, odiose. A me, in questi ultimi mesi, ne è scappata più d’una.
Ho detto, per esempio, che «il virus uccide, ma anche la fame». Non mi sembrava affermazione sgradevole, giuro, e poi pensavo che la cosa rimanesse tra noi. Niente, qualcuno di voi ha fatto lo stronzo ed è andato a dirlo a Bersani, che da Piazza pulita m’ha fatto un cazziatone, ma un cazziatone, che, se avessi messo in dubbio l’integrità morale della sua mamma, me la sarei cavata meglio: «Di virus, qui in Italia, si muore, eccome, ma di fame non muore nessuno».
«Ce l’ha con te – fa mia moglie – è chiaro».
«Vabbè – le dico – non sono stato il solo a scriverlo».
«Sarà – fa lei – però lo sguardo era rivolto a te, e hai visto com’era incazzato? Guarda che per fare incazzare Bersani ce ne vuole, è evidente che l’hai sparata grossa».
«Brune’ – a provo a difendermi – il tuo Bersani intende dirmi che per le strade non vedremo mai bambini scheletrici e con le mosche sugli occhi? Che una minestrina dalla Caritas ci sarà sempre? E allora vuol dire che gioca sporco e mi impicca a un termine, “fame”, che nella mia affermazione aveva manifesta accezione estensiva. Io volevo dire che è cosa buona e giusta, nostro dovere e fonte di salvezza, strappare agli artigli del virus il novantenne cardiopatico, diabetico, iperteso e col carcinoma prostatico, per farlo vivere quegli altri 6-18 mesi che gli sarebbero spettati se non avesse avuto il Covid-19. A scanso di equivoci, ripeto: dobbiamo farlo, ne va del poterci guardare allo specchio senza scoprirci in una divisa delle SS. E tuttavia mi pare chiaro che questo obbligo morale abbia un costo, e che a pagarlo sia giocoforza chiamata tutta la società. Ora tu pensi che sia fuori luogo porre il problema di questo costo sociale? Non è un costo che per un ventenne o un trentenne implicherà condizioni di vita assai più disgraziate di quelle di cui ha goduto il novantenne di cui sopra? Non ci saranno quarantenni e cinquantenni che si suicideranno perché senza lavoro? E quand’anche la fame, quella vera, non uccidesse nessuno, la “fame”, quella dell’accezione estensiva, quanta miseria, quanto degrado, quanta disperazione, ci costerà?».
Flette leggermente il capo come a prendere la mira col suo simpaticissimo fucile a pompa e mi fa: «Ma anche a novant’anni la vita è il bene supremo».
«E a centoventi no? – le rispondo – E però di qualcosa bisogna pur morire prima o poi».
E lei: «Ecco un’altra affermazione sgradevole. Per caso, hai fatto pure questa?».
Non ho risposto.
L’ho fatta, ho scritto proprio che, alla fin fine, «bisogna pur morire di qualcosa». Beh, anche qui non so proprio cosa ci sia di sgradevole. Forse è quel «bisogna», probabilmente suona spietato. E però mi pare che quel «pur» sia tanto, tanto, tanto solidale. Forse sarebbe stato meglio usare un «noi» di quelli leopardiani, chessò, avrei potuto dire: «Infin moriamo, e tutti: sì vuol l’umana nostra condicio». Ok, ma quanti ce ne sono che a sentire La ginestra si grattano le palle? Diciamola com’è: della nostra morte non si deve parlare, è tabù. Per quanto sia argomento di ineccepibile solidità, per quanto sul piano logico non faccia una grinza, che a tutti tocchi morire è affermazione sgradevole. Sappiamo che ci tocca, ma è brutto sentircelo dire, chissà che a non sentirlo si possa coltivare la speranza di essere eterni.
Oh, sia chiaro, in questo non c’è niente di male, e poi viene spontaneo desiderare di non morire mai. Non solo: tutti vorremmo vivere in eterno, possibilmente in perfetta salute. E tanta speranza investiamo in questa prospettiva che ai primi acciacchi dell’età ci sentiamo traditi. Per fortuna c’è la medicina, e la medicina ci garantisce una cura per ogni acciacco, sicché, se poi la garanzia vien meno, è chiaro che non siamo vittime dell’età e dei guai che quella inevitabilmente si tira dietro, ma della medicina: non ha il vaccino bell’e pronto per ogni virus, per esempio, e soprattutto è troppo lenta ad allungare la vita media attesa che oggi è di soli 80-84 anni.
Una vergogna, no? Si vive, si vive assai più lungo che in passato, e meglio, ma non ci basta mai. E tu che fai, vieni a dirmi che «bisogna pur morire di qualcosa»? Cane, stai per caso mettendo in discussione l’assunto che la vita è il bene supremo? Ieri ne son morti 964, oggi 413: puoi dire «meno male, va, si mette al meglio», ma solo se precisi – e meglio se lo fai prima – che anche un solo morto è una tragedia. Ma certo, ci mancherebbe altro, però si mette al meglio o no? Sì, si mette al meglio, ma dirlo è sgradevole.
Più o meno sgradevole dell’affermare che, «come c’è chi alla morte preferisce ogni forma di sopravvivenza, c’è chi alla sicurezza è disposto a sacrificare ogni libertà»? E già, perché ho affermato pure questo, e pure questo – m’è stato detto – era sgradevole. Ora, a parte il fatto che la frase era moralmente neutra nei confronti di quel «chi», si può forse negare che c’è chi a morire preferisce anche lo stato vegetativo? Tubi infilati dappertutto, elettroencefalogramma piatto, ma sul testamento biologico ha lasciato scritto: «Accanitevi pure, ma non mi private del vegetare: se mi staccate la spina, fate peccato mortale».
Massimo rispetto, è chiaro, ma mi pare evidente che «alla morte preferisce ogni forma di sopravvivenza». Anche per lui, la vita – qualunque tipo di vita – è il bene supremo. Un bene supremo – abbiamo visto – al quale prima poi dobbiamo rinunciare. E tutto questo non vale pure nel rapporto che cè tra libertà e sicurezza? Non cè chi ritiene che la sicurezza sia un bene prioritario rispetto alla libertà? E c’è da stupirsene, visto che la sicurezza assicura la vita? Se per lui ogni forma di sopravvivenza è preferibile alla morte, non ne consegue che possa ritenere indispensabile sacrificare ogni libertà alla sicurezza?
Massimo rispetto anche in questo caso, ovvio, ma è così difficile capire che allora la questione sta tutta nel personale punto di vista riguardo a ciò che prioritario, se libertà o sicurezza, e a cosa sia bene supremo, se vivere o sopravvivere?
Per caso sto per fare unaltra affermazione sgradevole, e cioè che «i valori sono punti di vista»? No, lho già fatta. Anche in questo caso non pensavo fosse cosa tanto sgradevole, e invece anche ad amici e conoscenti, che ai tempi del caso Welby e del caso Englaro la pensavano esattamente come me, mi hanno fatto presente che gradevole non era. Ma non si era detto che bene supremo non è la vita tout court, ma una vita che non abbia perso dignità di essere vissuta, che è valore sul quale a dire lultima parola può essere solo chi la vive? Di prioritario cè solo il suo punto di vista, no? Funzionava con Welby e con Englaro, quando  il tentativo di imporgliene un altro, dicendogli: «Spiacente, lindisponibilità della vita è un valore assoluto», ma oggi non più: la vita è da considerare un valore assoluto, da tutti.
Così pure coi valori di libertà e di sicurezza: amici e conoscenti che, come me, sospettavano che il terrorismo islamico stesse diventando una scusa per conculcare libertà e diritti (ci fu addirittura chi arrivò a dire che per difendere lOccidente dovevamo avere fede, o almeno far finta, ricordate?), mi hanno detto che hanno hanno trovato bello che dai balconi si cantasse in coro lInno di Mameli, che si facesse a gara a chi più s’inzaccherava di retorica e di sentimentalismo, che il fenomeno della delazione era comunque espressione di senso civico; come me, temevano che le misure antiterroristiche potessero celare il tentativo di controllare le nostre vite, i nostri movimenti, ma stavolta mi hanno detto che era stato sgradevole twittare: «Giacché non è obbligatorio, non installerò Immuni. Diventasse obbligatorio, l’installerei, ovvio. Ma chi potrà mai impedirmi di lasciare lo smartphone a casa dopo aver provveduto a programmare la deviazione delle chiamate a un altro cellulare, di quelli da venti euro?»; come me, hanno votato No al referendum del 2016, perché nella riforma costituzionale voluta da Renzi intravvedevano anche loro un pericoloso strabordare dellesecutivo nel legislativo, ma stavolta hanno trovato sgradevole che nelle iniziative del governo Conte vedessi anchio la sospensione della Costituzione che vedeva anche, faccio per dire, un Paolo Mieli (cioè che la vedessi, come Paolo Mieli, ma a differenza sua non aggiungevo: «Vabbè, ma è necessaria»).
Meno male che a risultare sgradevole sono abituato, sennò questepidemia mi ammazzava. Capirete, allora, che consolazione è stata lintervista che Wolfgang Schäuble ha concesso a Der Tagesspiegel: «Lo stato deve garantire la migliore assistenza sanitaria possibile a tutti, ma è assolutamente sbagliato subordinare tutto alla salvaguardia della vita umana, perché cè un valore, peraltro ancorato alla nostra Costituzione, che è quello della dignità delle persone, che è intoccabile. Questo, tuttavia, non esclude che prima o poi tutti dobbiamo morire».
Mi sono sentito meno solo, ecco. Ma già so che pure questo risulterà sgradevole: «Schäuble? Dio mio, Malvino, Schäuble?».