Marco
Travaglio ama caricaturizzare. Ora è chiaro che anche la caricatura
è un ritratto, ma cosa ci dà del soggetto che ritrae? Solo i tratti
salienti, per giunta enfatizzandoli nell’iperbole,
nello sproposito. Così, nella caricatura, la persona
torna ad essere la maschera di legno indossata dall’attore
sulla scena del teatro greco, mero πρóσωπον,
mero aspetto, il
cui carattere
è mero χαρακτήρ,
impronta, marchio, segno distintivo: una maschera che amplifica la
voce dell’attore
(per-sonar),
e che al primo sguardo consente di comprenderne contesto e ruolo, ma
con ciò quanto sappiamo dell’individuo
che ci sta dietro? Cosa ci dice di Antonio Funiciello, chiamato
giorni fa a ricoprire il ruolo di capo gabinetto del governo Draghi,
la caricatura offertaci da Marco Travaglio (Cafone
il Censore
– Il
Fatto Quotidiano,
16.2.2021)?
«Nato
a Piedimonte Matese (Caserta) 45 anni fa, il nostro eroe è laureato
in Filosofia e giornalista pubblicista, il che gli fa credere di
essere un “intellettuale liberale”. Ha pubblicato alcuni libri
all’insaputa dei più e collaborato con Riformista, Europa ,
Liberal (tutti falliti) e poi col Foglio e l’Espresso (auguri ai
colleghi). Blairiano e clintoniano fuori tempo massimo e all’insaputa
di Blair e Clinton, è un patito degli States, soprattutto del Texas,
che sta a lui come il Kansas City stava a Nando Mericoni. Ma la sua
vera vocazione è il consigliere dei principi o presunti tali...».
Segue uno svelto curriculum
vitae:
«Per
10 anni portaborse di Morando e poi di Zanda, che sono già belle
soddisfazioni, divenne veltroniano e napolitaniano, poi si avvicinò
persino a Ichino e Tonini, che ne fecero il direttore di una cosa
denominata “Libertà Eguale”. E aggiunsero la sua firma a un
mitico “Appello per l’Agenda Monti”. Epifani lo promosse
financo a “responsabile Cultura” del Pd: ma fu un attimo, poi lo
riconobbero. Lui, deluso, passò al servizio dell’Innominabile, che
lo elevò a direttore del comitato referendario BastaunSì e –
riferivano le cronache, senza offesa – “braccio destro di
Lotti”...».
Perché Cafone?
In un tweet «definì
Chiara Appendino in dolce stil novo “bocconiana come Sara
Tommasi”».
Perché Censore?
«Nel
2016 questo Anzaldi minore divenne l’occhiuto censore dei due-tre
critici della schiforma Boschi-Verdini, “monitorando tutti i
programmi tv” e presentando un “esposto all’Agcom” per
disinfestare La7 dalla “persistente manifesta violazione della
normativa” perpetrata invitando giornalisti del Fatto “che si
sono espressi chiaramente per il No”, anziché far parlare a reti
unificate il Sì».
Tutto
molto divertente, senza dubbio, ma con ciò ci è dato senso del
perché, e soprattutto del come, il Funiciello sia stato nominato
capo gabinetto del governo Draghi? La scena è quella di un governo
sul quale le più acute intelligenze patrie – si fa per dire – si
scervellano per capire se sia tecnico, politico o tecnico-politico, e
qui, su questa scena, ecco che compare un personaggio cui l’art.
7 del Decreto legislativo n. 300 del 30.7.1999 (Riforma
dell’organizzazione
del Governo)
assegna un ruolo tanto importante quanto poco noto ai più, per
giunta contemplandone la scelta tra «esperti,
anche estranei all’amministrazione,
dotati di elevata professionalità»
(comma 2, lettera e), e tu, fessacchione d’un
Travaglio, come mi liquidi la questione? «La
stima che nutriamo per Draghi ci fa escludere che sia stato lui a
scegliersi come capo di gabinetto Antonio Funiciello. Basta scorrere
le biografie dei due per escludere che si siano mai incontrati
neppure per sbaglio, in treno, in aereo, in ascensore. Né, nel
Governo dei Migliori, possono esser bastati gli slurpissimi tweet del
Funiciello all’avvento di Draghi».
Bene, e allora? «Qualcuno
deve aver tirato un pacco a SuperMario, approfittando della
confusione generale».
C’è
da supporre, dunque, che Draghi ignori il potere che è in mano a un
capo di gabinetto? Sia, ma è possibile che lo ignori anche
Travaglio, e al punto da trattare con tanta leggerezza la questione?
Scrive che Funiciello «ha
pubblicato alcuni libri all’insaputa dei più»:
è evidente che anch’egli
ne faccia parte, perché l’ultimo
che Funiciello ha scritto (Il
metodo Machiavelli
– Rizzoli, 2019) ha dato molto da discutere nel sottobosco della
politica italiana nei mesi passati e, senza eccezioni, con lode.
Lascio al lettore il compito di intendere cosa, qui, io voglia
intendere con sottobosco della politica italiana: basterà cercare
«Funiciello»
su Youtube
e nell’archivio
di Radio
Radicale,
guardare i nomi di chi si è offerto a promuovere Il
metodo Machiavelli,
sentire dalle loro voci perché si trattasse di un libro notevole (e
notevole, qui, sia inteso in senso letterale), soprattutto in
relazione alla sua dichiarata filosofia di fondo, espressamente
richiamata dal sottotitolo («come
servire il potere e salvarsi l’anima»).
Quando
il libro uscì, mi saltò l’uzzolo
di una recensioncella, che poi lasciai in sospeso nella cartella
delle bozze. Da lì traggo qualche stralcio che credo dia un’idea
dell’autocomprensione
che l’individuo
assegna alla sua maschera: «In
Italia, la riflessione sulla funzione di chi consiglia i detentori
della decisione è assente. In più, il discredito diffuso di cui
gode la classe dirigente in Italia diffama chiunque eserciti un
qualsiasi mestiere collegato alla politica. [...] Senza gli uomini e
le donne che lavorano alla loro ombra, semplicemente non ci sarebbero
i leader. E senza i leader non ci sarebbe la politica».
Versione
soft
–
very
very very soft,
direi – di quello che invece poteva permettersi l’Anonimo
autore di un libro uscito solo pochi mesi dopo (Io
sono il potere
– Feltrinelli, 2020), sottotitolo: Confessioni
di un capo gabinetto.
Qui, la certezza che senza leader non ci sarebbe politica, e che
senza «gli
uomini e le donne che lavorano alla loro ombra» non
ci sarebbero leader, è liberata da eufemismi e reticenze: «Io
non faccio qualcosa. Io sono qualcosa. Io sono il volto invisibile
del potere. Io sono il capo di gabinetto. So, vedo, dispongo,
risolvo, accelero e freno, imbroglio e sbroglio. Frequento la
penombra. Della politica, delle istituzioni e di tutti i pianeti
orbitanti. Industria, finanza, Chiesa. Non esterno su Twitter, non
pontifico sui giornali, non battibecco nei talk show. Compaio poche
volte e sempre dove non ci sono occhi indiscreti. […] Noi capi di
gabinetto non siamo una classe. Siamo un clero. Una cinquantina di
persone che tengono in piedi l’Italia,
muovendone i fili dietro le quinte. I politici passano, noi restiamo.
Siamo la continuità, lo scheletro sottile e resiliente di uno Stato
fragile, flaccido, storpio fin dalla nascita. Chierici di un sapere
iniziatico che non è solo dottrina, ma soprattutto prassi. [...] La
legittimazione del nostro potere non sono il sangue, i voti, i
ricatti, il servilismo. È l’autorevolezza.
Che ci rende detestati, ma anche indispensabili. Noi non siamo
rottamabili. Chi ci ha provato a fare a meno di noi è durato poco. E
s’è
fatto male».
Dietro
l’anonimato
non si è costretti ad abbellire il concetto, come fa il Funiciello.
Del potere, per dirla con il Foscolo, l’Anonimo
sì che «sfronda
gli allori».
E dunque è lui che s’apparenta
strettamente a Machiavelli, è lui che ne fa proprio il metodo, è
lui che, come il Machiavelli nella dedica a Lorenzo de’
Medici, rinuncia alle «clausule
ample»,
alle «parole
ampullose»,
a «qualunque
altro lenocinio o ornamento estrinseco».
Non il Funiciello, il cui libro ha in comune col Principe
solo
il tentativo di rientrare in gioco, qui dopo l’esperienza
di capo gabinetto del governo Gentiloni, lì dopo la cacciata in esilio da Firenze. Un libro quasi
esclusivamente autoreferenziale, e di
una autoreferenzialità assai efficace a giudicare dai risultati. Così, se
un «metodo
Machiavelli»
possiamo attribuirgli, è quello che lo scaltro Niccolò mise in atto
quando si fece spedire dal Guicciardini lettere cui erano apposti
sigilli papali per far colpo sul Gismondi, presso il quale era
ospite, e così ottenerne deferenza e favori. Eccolo, dunque,
illustrarci la sua collezione di ceralacche: «Al
seguito del presidente Gentiloni ho incontrato, talora in più di
un’occasione, i principali attori politici dello scenario
globale... Ricordo l’intelligenza politica di Angela Merkel...
Anche l’eccezionalità di Donald Trump mi ha molto impressionato...
Ho stimato Theresa May... Emmanuel Macron è un politico
preparatissimo... Xi Jinping è sicuramente il leader globale più
visionario … Vladimir Putin infine...».
In quanto agli arcana
imperii,
poco più di niente. In compenso, Il
metodo Machiavelli
funziona a meraviglia da manuale per il maggiordomo d’alto
livello, basti una scorsa ai titoli dei paragrafi del terzo capitolo,
che a titolo reca Le
regole del perfetto consigliere («Il
potere dell’accesso»,
«Il
lavoro di gruppo: gerarchia contro caos»,
«Gestire
la pluralità, evitare i conflitti»,
«Tenere
a freno il proprio ego»,
«Allearsi
con i burocrati»,
«Il
dovere di proteggere il leader»,
«Il
potere di informare il leader»)
e leggere con attenzione la chiusa: «Bisogna
saper osservare un leader. Il proprio e gli altri leader, con cui il
proprio è sempre in competizione, anche quando è momentaneamente
alleato con uno o più di loro. Bisogna conoscerlo a fondo. Sapere
che studi abbia svolto o non abbia svolto, tenere costantemente
presente il suo background sociale e territoriale, apprendere
minuziosamente come ragioni, quali schemi logici applichi con
maggiore frequenza, chi siano i suoi maestri, ammesso che ne abbia,
quali le sue preferenze estetiche (anche pessime), quali tic, quali
debolezze attanaglino il suo cuore, quali siano le persone influenti
presso di lui, e cercare di capire tutto questo entrando in contatto
con chi lo conosce da tempo, leggere ogni cosa sia stata scritta su
di lui e andare alla ricerca di occasioni per incontrarlo di
persona».
È di appena qualche pagina addietro la filosofia di questo
maggiordomo al quale lo sgrignaffare di tanto in tanto i sigari del
suo padrone dà la certezza di esserne «consigliere»,
qualifica che chiaramente esorbita gli estremi posti al ruolo dal
succitato Decreto legislativo n. 300 del 30.7.1999: «Il
servizio presso un leader –
scrive il Funiciello –
è fine a se stesso. Tutto quanto il consigliere può ricavarne, in
termini di elevazione professionale, intellettuale, morale, economica
è la diretta conseguenza dei risultati che realizza nell’esercizio
della propria funzione ancillare. Il cattivo servizio finisce quasi
sempre in disgrazia: o perché il leader se ne accorge e sostituisce
il consigliere con uno schiocco di dita; o perché il leader finisce
in rovina a causa dei cattivi servizi del suo collaboratore, che
precipita nel discredito insieme al suo capo. In quest’ultimo caso,
sarà un’impresa quasi impossibile scrollarsi di dosso la cattiva
reputazione di essere stato l’artefice del fallimento».
È
per questo che lasciai a metà la recensioncella de Il
metodo Machiavelli:
più che ipocrita, mi sembrò patetico. La
ragione è presto detta: dietro queste affannose e spesso invereconde
corse a conquistare un ufficio presso un ministero, una consulenza
presso un ministro, un posticino in questa o quella task force
governativa, in questo o in quel comitato tecnico-scientifico, io
vedo il dramma umano di chi ha scelto la Politik
o
la Wissenschaft
come Beruf
in
un’epoca
in cui s’è
pienamente compiuto quello che Max Weber chiama «processo
di espropriazione politica»,
dando vita alla figura del funzionario: è da un bel po’
di tempo che «la
politica può essere esercitata o mediante “cariche onorifiche”,
e quindi da coloro che si usa chiamare “indipendenti”, ossia
persone facoltose, soprattutto persone che vivono di rendita; oppure,
viene messa alla portata dei meno abbienti e bisogna allora
corrispondere un compenso. Il politico di professione il quale viva
con la politica può essere un semplice “beneficiario” oppure un
“impiegato” stipendiato. Egli trae quindi un reddito da
contributi o emolumenti per determinati servizi – le mance e le
somme ricevute per corruzione sono soltanto un’aberrazione
irregolare e formalmente illegale di questa categoria di entrate
[qui,
con la professionalizzazione dell’attività
di lobbying, le cose andrebbero un po’
riviste, nel senso che l’aberrazione
arriva a diventare sostanzialmente regolare e assai difficilmente
comprovabile come illegale] –,
oppure percepisce un compenso fisso in natura o uno stipendio in
denaro, o anche entrambi. Può assumere il carattere di un
“imprenditore”, come il condottiero o l’appaltatore
d’altri
tempi, o come il boss americano, il quale considera le sue spese alla
stregua di un investimento di capitale, che egli rende fruttifero col
valersi della propria influenza. Oppure può percepire una
remunerazione fissa, come un redattore o un segretario di partito o
un moderno ministro o un funzionario politico».
E poco oltre: «Lo svilupparsi della politica in un “esercizio
professionale” […] determinò la separazione dei funzionari
pubblici in due categorie, non certo nettamente separate, ma tuttavia
chiaramente distinte: funzionari tecnici da una parte, funzionari
politici dall’altra».
Caratteristica eminente di questa seconda categoria? «Possono essere
in qualunque momento trasferiti o congedati».
Perde peso, dunque,
quanto abbiamo letto nelle Confessioni
di un capo gabinetto:
«I
politici passano, noi restiamo», ma non è così, come dimostra lo spoils system che alla caduta del
governo Gentiloni vede la messa in congedo di Antonio Funiciello.
Certo, alcuni capi di gabinetto di questo o quel ministero possono
essere riconfermati nel loro impiego anche al mutare dei governi, non
di rado anche di governi di opposto segno politico, ma questo non
accade quasi mai col capo di gabinetto della Presidenza del
Consiglio. Qui la natura politica del funzionario si sgancia da ogni
sua esperienza tecnica, perché il suo ruolo è sostanzialmente
quello di stilare l’agenda
del suo datore di lavoro, selezionare le informazioni che gli devono
arrivare e gli incontri che è più opportuno abbia, stare a
sentinella dei suoi umori e dei suoi dubbi. Ruolo certamente di
rilievo, senza dubbio impiastricciato di qualche potere, ma che di
tecnico ha solo ciò che attiene alla gestione della casa, e di
«competente»
ha solo ciò che implica quel che compete – come già si è detto –
al maggiordomo d’alto
livello.
Questo
parallelismo non deve essere inteso come sminuente il ruolo del capo
di gabinetto di un Presidente del Consiglio. D’altronde
basta uno sguardo alla manualistica del perfetto maggiordomo dei
tempi andati e alle autobiografie dei più celebri maggiordomi, per
dare il giusto significato al loro essere «consiglieri».
Certamente prestigioso il compenso, sicuramente esaltante l’essere
di casa lì dove si esercita il potere, assodato il fruttuoso trarne
vantaggi in termini di relazioni, ma siamo in presenza di un
servitore, e non dello Stato, come potrebbe ben rivendicare il
funzionario tecnico che, governo dopo governo, resta al suo posto, ma della parte politica che esprime il Presidente del Consiglio: siamo in presenza di un funzionario politico, le cui sorti sono legate, nel migliore dei
casi, a quelle del suo datore di lavoro e, in quello peggiore, ai
suoi giramenti di coglioni. Ogni perplessità riguardo a questo ruolo rischia inevitabilmente di risultare prosaica, perché il titolare di una rosticceria ben avviata guadagna senza dubbio di più, ma non ha alcun modo di poter sviluppare – e qui torna utile citare ancora Weber – quella sensazione di poter esercitare «un’azione sugli uomini» per quella partecipazione al «potere che li domina», il quale, «seppur
in posizioni modeste dal punto di vista formale», produce «il
sentimento di avere tra le mani un filo conduttore delle vicende
storiche e di elevarsi al di sopra della realtà quotidiana». Sentimento che dà vita più frequentemente ad una bolla percettiva che a una vera e propria élite. È che l’intellettuale (sensu lato) da sempre sovrastima il suo reale potere, perché sottostima quello della classe che lo mette a libro paga. Produce sovrastrutture, ma allucina la costruzione di plinti e pilastri.
L’ho
già scritto su queste pagine, ma qui mi pare che la tutta presunta
natura tecnica di questo tipo di funzionari politici riveli la vera
natura di quella «competenza»
che solo ai gonzi può sembrare essere conoscenza ed esperienza al di là e al di sopra
degli interessi che di volta in volta essa è chiamata a curare, ma che in
realtà è il mero risultato della «competizione»
che una data classe egemone indìce per selezionare le intelligenze
che meglio possano servire le proprie esigenze, che in primo luogo sono
relative alla conservazione dell’egemonia.
In tal senso, quello che, qui e altrove, viene celebrato come
«competente»
altro non è che l’aspirante
che abbia saputo dimostrare per tempo di poter meglio svolgere il compito al quale è chiamato. A consigliare Funiciello a Draghi è stato quasi certamente Gentiloni, Il metodo Machiavelli era una lettera di referenze.