domenica 14 marzo 2021

Ore contate per l’odio online

 



«Se lo Stato è santo, la censura deve esistere»

Max Stirner – Der Einzige und sein Eigentum


Giulio Andreotti, Mariano Rumor, Oscar Luigi Scalfaro, Antonio Bisaglia, Francesco Compagna. E poi Giuliano Amato, Riccardo Misasi, Antonio Maccanico, Gianni Letta, Filippo Patroni Griffi. Basta una scorsa ai prestigiosi nomi che si sono succeduti alla carica di Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio per intuire limportanza del ruolo e la competenza che questo ruolo esige. Una competenza che, a detta di chi sta più addentro agli arcana imperii della nostra amata Republichetta, necessariamente implica doti non comuni sul piano tecnico e su quello politico. Fu per questo che assai timidamente, lanno scorso, avanzavo qualche perplessità sulliniziativa presa dallallora Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Andrea Martella, che con apposito decreto aveva dato vita ad una commissione chiamata a studiare soluzioni per contrastare «lodio online» (tra virgolette perché il decreto si esprimeva proprio in questi termini). Di là dal ritenere – insieme – ridicolo e pericoloso dichiarare guerra a un sentimento, «non si capisce che senso abbia questa commissione – scrivevo – né quali innovative soluzioni essa possa partorire per arricchire la già fornita utensileria del nostro codice penale dedicata ai reati che sono concretizzazione dell’odio in forma di insulto, minaccia, calunnia, e perfino di malaugurio. Anche laddove essa fosse immaginata come embrione di un’authority che stabilmente vigili sul web, si fa fatica a immaginare possa bypassare la magistratura con funzione di censura» (Bisogna andarci cauti, col denigrare lodio Malvino, 9.2.2020). Ma la timidezza con la quale esprimevo queste mie perplessità era dovuta anche ad altro: questa cosa tra think tank e task force era composta da quindici persone che il parere pressoché unanime degli organi dinformazione dava tra i più esperti delle problematiche relative al web.

Sia chiaro che qui non sè mai preso per oro colato quel che cola dagli organi dinformazione, però stavolta qualcosa mi spingeva a fidarmi: nulla sapevo di quattordici dei quindici membri della neonata commissione, ma di uno, lottimo Mantellini, qualcosina sì, e quello bastava a darmi adeguata garanzia che anche gli altri fossero d’altrettale competenza, sicché, anche quando il Mantellini lasciò lincarico per motivi che mi sembrò indelicato approfondire, alla commissione anti-odio voluta dal Martella restarono appiccicati il prestigio e lautorevolezza che le avevo transitivamente conferito.

Con queste premesse, si può ben intuire con quanto interesse qui si attendessero i risultati dello studio della commissione anti-odio a fugare le mie perplessità, che, che seppure timidamente espresse, sentivo colpevoli di una patente mancanza di fede in competenze fuori discussione. Bene, il lavoro della commissione è giunto a conclusione.

Sarà che in genere sono incline a farmi sviare dai dettagli marginali, ma la prima cosa ad avermi colpito è la copertina del documento, che è opera di SacSix, noto street artist newyorkese chiamato ad affrescare gli interni di lussuosi hotel e ristoranti della Big Apple, a firmare una linea di sneakers della Adidas, a collaborare per le scene di alcuni film di Spike Lee, a curare ledizione degli MTV Video Music Awards del 2016, e le cui produzioni sono ottimamente quotate: impensabile che lillustrazione che impreziosisce il Rapporto finale del Gruppo di lavoro «Odio Online» non gli sia stata doverosamente retribuita. Quanto, è senza dubbio una stupida curiosità. Se fosse necessaria, forse, un po meno.

Il secondo dettaglio che mè balzato agli occhi, subito dopo, è lultima pagina del documento, quella dei Ringraziamenti. Qui vengo a conoscenza del fatto che i quindici esperti chiamati dal Martella ad estirpare lodio dal web – quattordici, dopo le dimissioni del Mantellini – sono diventati venticinque, che si sono avvalsi di ben ventotto consulenti, per partorire diciotto paginette dallariosa interlinea, nelle quali ciò che è ragionevolmente condivisibile sul piano dellanalisi è di una avvilente banalità, mentre ciò che pare offrirsi a soluzione del problema è di una sconcertante vaghezza, cui tuttavia fa schermo il noto gergo da internettologi con almeno due dozzine danni di esperienza sul groppone, che hanno gas discharge o stink release in luogo delle nostre banali e ignoranti scoregge.

La Premessa apre con unaffermazione che deve essere stata oggetto di assai meditata riflessione: lodio è un sentimento. Quello che, però, dà la piena misura di quanto la competenza qui chiamata a esprimere il suo informato parere su un tema estremamente delicato come lodio non sia fredda conoscenza tecnica è la concessione che «gli esseri umani sono liberi di provare sentimenti». Non so a voi, ma a me questo pare molto bello.

Sì, ma cosè lodio? Di fronte a una domanda tanto impegnativa, quanti di noi, che esperti non siamo, ci saremmo trovati in seria difficoltà? Non gli internettologi della commissione voluta dal Martella, ai quali è venuta in testa unidea geniale: consultare un dizionario. Qui hanno preso atto, concordando (non sappiamo se all’unanimità), che lodio è quel «sentimento di forte e persistente avversione, per cui si desidera il male o la rovina altrui». Ci sarà voluto il tempo necessario per arrivarci, ma direi che non sia stato speso invano. Tanto più che proprio questo primo passo della commissione consente quello successivo, col quale, in un assunto assai elegantemente esposto, viene racchiusa una preziosa perla di filosofia del diritto: «Quando dal desiderio del male altrui si passa all’azione, per favorire o realizzare tale male, subentrano le responsabilità».

Così avviata, la riflessione non può che scorrere spedita, penserà luomo comune: quando unazione è imputata di mirare efficacemente al male altrui, si chiama un giudice e gli si chiede di valutare se ci sia o meno una responsabilità penale. Luomo comune, appunto, per il quale, dunque, la commissione potrebbe chiuderla qui e andare a ristorarsi al buffet. In realtà, ciò che sfugge alluomo comune è che un giudice opera in virtù delle leggi che il legislatore gli mette a disposizione: bastassero quelle vigenti, che senso avrebbe avuto una commissione anti-odio? È chiaro che quelle vigenti non bastano, e che ne occorrono di nuove. E tuttavia «i legislatori devono dimostrare grande saggezza. Perché su questa materia si osservano diritti in tensione tra loro, come la libertà di espressione, appunto, il diritto alla privacy, il diritto al rispetto della libertà di pensiero, coscienza e religione, il diritto di proprietà e la libertà di mercato, il diritto a essere difesi contro le violenze... Il problema fondamentale è quello di bilanciare i diversi diritti»: in sostanza, il rischio è che nuove leggi possano entrare in contraddizione con quelle già vigenti. Come se ne esce? È qui che occorre far spazio a una nuova fattispecie penale. Giacché «qualunque policy in materia di odio online non può non considerare che ci sono diverse gradazioni della gravità dei comportamenti dettati dall’odio e diverse manifestazioni di odio, […] l’argomento prioritario di una policy sull’odio online riguarda i casi in cui si arriva a generare una lesione dell’ordine pubblico»: in altri termini, dovrà trovarsi il modo di imputare a unazione di mirare efficacemente al male altrui, se e quando sia in grado di turbare l’ordine pubblico, un ordine che è evidentemente diverso da quello garantito dalle leggi vigenti, a meno che non si voglia credere che tale garanzia non sia mai stata piena. Si è giocoforza chiamati a interrogarsi sulla natura di un ordine pubblico così riconsiderato. Vediamo come.

«L’espressione di odio attraverso internet non riduce la difficoltà di definire il sentimento in modo standardizzato ma aggiunge un ulteriore elemento di complessità, per la capacità delle tecnologie digitali di influenzare i comportamenti delle persone e amplificarne la portata, creando nel contempo le condizioni per implementare peculiari modalità di contenimento». In buona evidenza, siamo dinanzi al tentativo di immaginare unimputabilità di turbamento dellordine pubblico che scatti quando potenzialmente in grado di creare consenso riguardo ad unazione mirante a turbarlo: in parole povere, al giudice si affianca il sociologo, qui inteso come ingegnere sociale. Sia chiaro, nessuno è così ingenuo, qui, da ignorare che qualsiasi legislazione nasce in un funzione di un particolare ordine pubblico che si intenda tutelare; né si ignora che, in tal senso, il legislatore svolga un ruolo di garante degli interessi che tale ordine pubblico è chiamato a difendere; dovrebbe essere chiaro, tuttavia, che una cosa è la difesa di questi interessi, che da particolari sono riusciti ad affermarsi come generali, con gli strumenti della repressione delle azioni miranti a lederli, unaltra è la loro difesa con gli strumenti della repressione delle azioni miranti a mettere in discussione che essi siano realmente interessi generali. Ritenendo indispensabile questo secondo tipo di difesa, diventa «odio» tutto ciò che sia potenzialmente in grado di minare il consenso attorno a interessi, che da particolari sono riusciti ad affermarsi come generali, col metterne in discussione la legittimità dellaffermazione. Detto prosaicamente, il tentativo è quello di sterilizzare il conflitto sociale.

Anche se non ve ne fosse immediata coscienza, tale fine pare evidente laddove il Rapporto afferma che «i media digitali sono strumenti potenti e possono essere trasformativi anche per i fenomeni di odio, non solo perché i media, che tutti possono usare per esprimersi, liberano e talvolta amplificano la voce di ciascuno senza le intermediazioni tradizionali, ma anche perché gli algoritmi e le interfacce influenzano l’esposizione, la selezione e la diffusione dell’informazione, diventando veri e propri filtri cognitivi alla percezione della realtà». E quale interesse particolare è mai riuscito ad affermarsi come generale senza dover ricorrere a un filtro cognitivo alla percezione della realtà? Cosè la persuasione, se non la piena accettazione di un determinato filtro cognitivo? E perché mai i filtri cognitivi dovrebbero essere ad esclusivo appannaggio delle «intermediazioni tradizionali»? Daltronde, basta entrare nel merito delle proposte avanzate dal gruppo di lavoro sullodio online per aver chiaro che ogni soluzione non riesca a prospettarsi in altro modo che come riaffermazione di un particolare filtro cognitivo. Esse sono articolate in tre capitoli: «attività di prevenzione», «interventi normativi» e «sostegno allinfodiversità».

«Attività di prevenzione»: «Un programma educativo per l’epoca digitale, di pari ampiezza di quello che ha reso possibile accompagnare l’industrializzazione nel corso del “miracolo economico”, è in gran parte necessario. E non si rivolgerà soltanto ai giovani, ma all’insieme della società. [...] Il Ministero dell’Istruzione può lanciare un grande programma di modernizzazione culturale di base rafforzando il percorso di educazione all’uso consapevole del digitale previsto nel quadro dell’insegnamento dell’educazione civica introdotto nel 2019. [...] Premiare le aziende che attivano percorsi di formazione rivolti alle famiglie sui temi della consapevolezza digitale e in particolare sul contrasto ai discorsi di odio e a tutti i reati legati all’espressione (diffamazione, incitazione alla violenza e così via). […] Proporre allOrdine Nazionale dei Giornalisti lintegrazione del codice deontologico dei giornalisti con uno specifico articolo che possa vietare azioni mirate alla diffusione di discorsi di odio. Introduzione di una strategia di contrasto alla violenza sui media, con esemplari disposizioni da inserire nel contratto di servizio che regola il servizio pubblico, della Rai o delle aziende incaricate di svolgerlo. Condizionamento del finanziamento pubblico ai giornali al rispetto dell’obbligo – da introdurre – di astenersi dal ricorso a campagne di incitamento all’odio e dall’uso di un linguaggio discriminatorio». Stato, famiglia, ordini professionali: filtri cognitivi affidati ad intermediazioni tradizionali.

«Interventi normativi»: «Un controllo massivo dello Stato e della pubblica autorità che tenda a governare e filtrare il discorso pubblico in rete che travalichi la legittima e doverosa attività di prevenzione e repressione delle specifiche fattispecie di reato previste per legge sarebbe ovviamente inammissibile ». Daltra parte, «l’ordinamento già determina quali contenuti sono illeciti e quali comunicazioni in rete consentono da parte dello Stato interventi di rimozione e sanzione; ipotizzare una strategia repressiva con nuove forme di illeciti legati all’odio online appare arduo e inutile». Bene, e allora? «Per efficaci politiche di contenimento potrebbe esser utile creare centri di ascolto e percorsi assistiti per generare consapevolezza negli utenti resisi responsabili di condotte qualificabili come “hate speech”, soprattutto se minori o adolescenti. Anche per le vittime potrebbe esser utile prevedere percorsi di supporto per cercare di attenuare l’impatto subito da condotte di odio online. In caso di procedimenti per fattispecie penali legate all’odio online, potrebbero esser previste forme di definizione del processo con percorsi di recupero ed educativi, o forme di messa alla prova con condotte riparatorie in grado di estinguere il reato. […] Se è errato pensare di delegare alle piattaforme ed a provider privati il ruolo di “gatekeeper” che decidono ciò che è consentito e ciò che non è consentito comunicare pubblicamente, è però necessario incentivare la moderazione dei contenuti caricati dagli utenti a opera degli stessi provider, per permettere alle piattaforme la creazione di ambienti digitali più sicuri. [...] Regole certe e standardizzate per la segnalazione e la rimozione dei contenuti ritenuti dannosi [ritenuti dannosi da chi?] eventualmente agevolando accordi con “segnalatori privilegiati” individuati [individuati da chi?] in relazione al ruolo o all’attività svolta e obblighi di fornire informazioni all’autorità giudiziaria [in quale ruolo?]». Con un odio inteso come mero sentimento, il rischio sarebbe stato quello di una psico-polizia. Qui, dopo aver concesso che «gli esseri umani sono liberi di provare sentimenti», li si considera alunni discoli e si nomina un capoclasse.

«Sostegno allinfodiversità», capitolo che lascia sospesi tra il riso e il pianto. «Un contesto nel quale la struttura della piattaforma, i suoi algoritmi, la sua interfaccia, sia definita essenzialmente intorno al modello di business della raccolta pubblicitaria, nel quale dunque qualunque tipo di attenzione è un valore che si può vendere sul mercato della pubblicità, può tendere ad accettare qualche messaggio tossico in più. Anche per questo, a quanto pare, certi comportamenti sono stati consentiti sulle grandi piattaforme sociali attuali. Per l’enorme successo delle piattaforme sociali basate esclusivamente sulla pubblicità, una sorta di monocoltura pubblicitaria ha ridotto la biodiversità in questo settore. Una sorta di esternalità negativa del modello di business pubblicitario ha aumentato le probabilità, se così si può dire, di un “inquinamento” dell’ecosistema mediatico». Come si può disinquinare? «Nuove piattaforme, progettate in base a logiche più consapevoli dei diritti umani, possono essere favorite con forme di sostegno finanziario»: unetica di stato che si fa ipostasi in social network, ovviamente a spese del contribuente. Di poi, si potrebbero favorire forme di «aggregazione di persone che abbiano come loro atteggiamento mentale e sociale quello di evitare, rifiutare, disprezzare, le manifestazioni di odio. [...] L’influenza sul comportamento garantito da ambienti che attraggono soprattutto persone civili, rispettose degli altri, orientate all’ascolto e al dialogo sereno anche quando conflittuale o critico, sarebbe un forte incentivo ad adottare comportamenti civicamente avvertiti»: dar vita, insomma, ad una aristocrazia dei buoni sentimenti e dei modi fini, in cui ogni rozzo villano aspirerebbe ad entrare. Parti come zotico digitale, ma, se ti impegni, come Parsifal, diventi degno del Sacro Graal della civile conversazione online. Chissà, può darsi che un pizzico di fortuna possa portarti perfino ai livelli degli esperti chiamati dal Martella. Ma non metterci troppo il pensiero: l’empireo è già affollato di beati. 

lunedì 22 febbraio 2021

Il metodo Funiciello

 


Marco Travaglio ama caricaturizzare. Ora è chiaro che anche la caricatura è un ritratto, ma cosa ci dà del soggetto che ritrae? Solo i tratti salienti, per giunta enfatizzandoli nelliperbole, nello sproposito. Così, nella caricatura, la persona torna ad essere la maschera di legno indossata dallattore sulla scena del teatro greco, mero πρóσωπον, mero aspetto, il cui carattere è mero χαρακτήρ, impronta, marchio, segno distintivo: una maschera che amplifica la voce dellattore (per-sonar), e che al primo sguardo consente di comprenderne contesto e ruolo, ma con ciò quanto sappiamo dellindividuo che ci sta dietro? Cosa ci dice di Antonio Funiciello, chiamato giorni fa a ricoprire il ruolo di capo gabinetto del governo Draghi, la caricatura offertaci da Marco Travaglio (Cafone il CensoreIl Fatto Quotidiano, 16.2.2021)?

«Nato a Piedimonte Matese (Caserta) 45 anni fa, il nostro eroe è laureato in Filosofia e giornalista pubblicista, il che gli fa credere di essere un “intellettuale liberale”. Ha pubblicato alcuni libri all’insaputa dei più e collaborato con Riformista, Europa , Liberal (tutti falliti) e poi col Foglio e l’Espresso (auguri ai colleghi). Blairiano e clintoniano fuori tempo massimo e all’insaputa di Blair e Clinton, è un patito degli States, soprattutto del Texas, che sta a lui come il Kansas City stava a Nando Mericoni. Ma la sua vera vocazione è il consigliere dei principi o presunti tali...». Segue uno svelto curriculum vitae: «Per 10 anni portaborse di Morando e poi di Zanda, che sono già belle soddisfazioni, divenne veltroniano e napolitaniano, poi si avvicinò persino a Ichino e Tonini, che ne fecero il direttore di una cosa denominata “Libertà Eguale”. E aggiunsero la sua firma a un mitico “Appello per l’Agenda Monti”. Epifani lo promosse financo a “responsabile Cultura” del Pd: ma fu un attimo, poi lo riconobbero. Lui, deluso, passò al servizio dell’Innominabile, che lo elevò a direttore del comitato referendario BastaunSì e – riferivano le cronache, senza offesa – “braccio destro di Lotti”...». Perché Cafone? In un tweet «definì Chiara Appendino in dolce stil novo “bocconiana come Sara Tommasi”». Perché Censore? «Nel 2016 questo Anzaldi minore divenne l’occhiuto censore dei due-tre critici della schiforma Boschi-Verdini, “monitorando tutti i programmi tv” e presentando un “esposto all’Agcom” per disinfestare La7 dalla “persistente manifesta violazione della normativa” perpetrata invitando giornalisti del Fatto “che si sono espressi chiaramente per il No”, anziché far parlare a reti unificate il Sì».

Tutto molto divertente, senza dubbio, ma con ciò ci è dato senso del perché, e soprattutto del come, il Funiciello sia stato nominato capo gabinetto del governo Draghi? La scena è quella di un governo sul quale le più acute intelligenze patrie – si fa per dire – si scervellano per capire se sia tecnico, politico o tecnico-politico, e qui, su questa scena, ecco che compare un personaggio cui lart. 7 del Decreto legislativo n. 300 del 30.7.1999 (Riforma dellorganizzazione del Governo) assegna un ruolo tanto importante quanto poco noto ai più, per giunta contemplandone la scelta tra «esperti, anche estranei allamministrazione, dotati di elevata professionalità» (comma 2, lettera e), e tu, fessacchione dun Travaglio, come mi liquidi la questione? «La stima che nutriamo per Draghi ci fa escludere che sia stato lui a scegliersi come capo di gabinetto Antonio Funiciello. Basta scorrere le biografie dei due per escludere che si siano mai incontrati neppure per sbaglio, in treno, in aereo, in ascensore. Né, nel Governo dei Migliori, possono esser bastati gli slurpissimi tweet del Funiciello all’avvento di Draghi». Bene, e allora? «Qualcuno deve aver tirato un pacco a SuperMario, approfittando della confusione generale». Cè da supporre, dunque, che Draghi ignori il potere che è in mano a un capo di gabinetto? Sia, ma è possibile che lo ignori anche Travaglio, e al punto da trattare con tanta leggerezza la questione? Scrive che Funiciello «ha pubblicato alcuni libri all’insaputa dei più»: è evidente che anchegli ne faccia parte, perché lultimo che Funiciello ha scritto (Il metodo Machiavelli – Rizzoli, 2019) ha dato molto da discutere nel sottobosco della politica italiana nei mesi passati e, senza eccezioni, con lode. Lascio al lettore il compito di intendere cosa, qui, io voglia intendere con sottobosco della politica italiana: basterà cercare «Funiciello» su Youtube e nellarchivio di Radio Radicale, guardare i nomi di chi si è offerto a promuovere Il metodo Machiavelli, sentire dalle loro voci perché si trattasse di un libro notevole (e notevole, qui, sia inteso in senso letterale), soprattutto in relazione alla sua dichiarata filosofia di fondo, espressamente richiamata dal sottotitolo («come servire il potere e salvarsi lanima»).

Quando il libro uscì, mi saltò luzzolo di una recensioncella, che poi lasciai in sospeso nella cartella delle bozze. Da lì traggo qualche stralcio che credo dia unidea dellautocomprensione che lindividuo assegna alla sua maschera: «In Italia, la riflessione sulla funzione di chi consiglia i detentori della decisione è assente. In più, il discredito diffuso di cui gode la classe dirigente in Italia diffama chiunque eserciti un qualsiasi mestiere collegato alla politica. [...] Senza gli uomini e le donne che lavorano alla loro ombra, semplicemente non ci sarebbero i leader. E senza i leader non ci sarebbe la politica».

Versione soft very very very soft, direi – di quello che invece poteva permettersi lAnonimo autore di un libro uscito solo pochi mesi dopo (Io sono il potere – Feltrinelli, 2020), sottotitolo: Confessioni di un capo gabinetto. Qui, la certezza che senza leader non ci sarebbe politica, e che senza «gli uomini e le donne che lavorano alla loro ombra» non ci sarebbero leader, è liberata da eufemismi e reticenze: «Io non faccio qualcosa. Io sono qualcosa. Io sono il volto invisibile del potere. Io sono il capo di gabinetto. So, vedo, dispongo, risolvo, accelero e freno, imbroglio e sbroglio. Frequento la penombra. Della politica, delle istituzioni e di tutti i pianeti orbitanti. Industria, finanza, Chiesa. Non esterno su Twitter, non pontifico sui giornali, non battibecco nei talk show. Compaio poche volte e sempre dove non ci sono occhi indiscreti. […] Noi capi di gabinetto non siamo una classe. Siamo un clero. Una cinquantina di persone che tengono in piedi lItalia, muovendone i fili dietro le quinte. I politici passano, noi restiamo. Siamo la continuità, lo scheletro sottile e resiliente di uno Stato fragile, flaccido, storpio fin dalla nascita. Chierici di un sapere iniziatico che non è solo dottrina, ma soprattutto prassi. [...] La legittimazione del nostro potere non sono il sangue, i voti, i ricatti, il servilismo. È lautorevolezza. Che ci rende detestati, ma anche indispensabili. Noi non siamo rottamabili. Chi ci ha provato a fare a meno di noi è durato poco. E sè fatto male».

Dietro lanonimato non si è costretti ad abbellire il concetto, come fa il Funiciello. Del potere, per dirla con il Foscolo, lAnonimo sì che «sfronda gli allori». E dunque è lui che sapparenta strettamente a Machiavelli, è lui che ne fa proprio il metodo, è lui che, come il Machiavelli nella dedica a Lorenzo de Medici, rinuncia alle «clausule ample», alle «parole ampullose», a «qualunque altro lenocinio o ornamento estrinseco». Non il Funiciello, il cui libro ha in comune col Principe solo il tentativo di rientrare in gioco, qui dopo lesperienza di capo gabinetto del governo Gentiloni, lì dopo la cacciata in esilio da Firenze. Un libro quasi esclusivamente autoreferenziale, e di una autoreferenzialità assai efficace a giudicare dai risultati. Così, se un «metodo Machiavelli» possiamo attribuirgli, è quello che lo scaltro Niccolò mise in atto quando si fece spedire dal Guicciardini lettere cui erano apposti sigilli papali per far colpo sul Gismondi, presso il quale era ospite, e così ottenerne deferenza e favori. Eccolo, dunque, illustrarci la sua collezione di ceralacche: «Al seguito del presidente Gentiloni ho incontrato, talora in più di un’occasione, i principali attori politici dello scenario globale... Ricordo l’intelligenza politica di Angela Merkel... Anche l’eccezionalità di Donald Trump mi ha molto impressionato... Ho stimato Theresa May... Emmanuel Macron è un politico preparatissimo... Xi Jinping è sicuramente il leader globale più visionario … Vladimir Putin infine...». In quanto agli arcana imperii, poco più di niente. In compenso, Il metodo Machiavelli funziona a meraviglia da manuale per il maggiordomo dalto livello, basti una scorsa ai titoli dei paragrafi del terzo capitolo, che a titolo reca Le regole del perfetto consigliere («Il potere dellaccesso», «Il lavoro di gruppo: gerarchia contro caos», «Gestire la pluralità, evitare i conflitti», «Tenere a freno il proprio ego», «Allearsi con i burocrati», «Il dovere di proteggere il leader», «Il potere di informare il leader») e leggere con attenzione la chiusa: «Bisogna saper osservare un leader. Il proprio e gli altri leader, con cui il proprio è sempre in competizione, anche quando è momentaneamente alleato con uno o più di loro. Bisogna conoscerlo a fondo. Sapere che studi abbia svolto o non abbia svolto, tenere costantemente presente il suo background sociale e territoriale, apprendere minuziosamente come ragioni, quali schemi logici applichi con maggiore frequenza, chi siano i suoi maestri, ammesso che ne abbia, quali le sue preferenze estetiche (anche pessime), quali tic, quali debolezze attanaglino il suo cuore, quali siano le persone influenti presso di lui, e cercare di capire tutto questo entrando in contatto con chi lo conosce da tempo, leggere ogni cosa sia stata scritta su di lui e andare alla ricerca di occasioni per incontrarlo di persona». È di appena qualche pagina addietro la filosofia di questo maggiordomo al quale lo sgrignaffare di tanto in tanto i sigari del suo padrone dà la certezza di esserne «consigliere», qualifica che chiaramente esorbita gli estremi posti al ruolo dal succitato Decreto legislativo n. 300 del 30.7.1999: «Il servizio presso un leader – scrive il Funiciello – è fine a se stesso. Tutto quanto il consigliere può ricavarne, in termini di elevazione professionale, intellettuale, morale, economica è la diretta conseguenza dei risultati che realizza nell’esercizio della propria funzione ancillare. Il cattivo servizio finisce quasi sempre in disgrazia: o perché il leader se ne accorge e sostituisce il consigliere con uno schiocco di dita; o perché il leader finisce in rovina a causa dei cattivi servizi del suo collaboratore, che precipita nel discredito insieme al suo capo. In quest’ultimo caso, sarà un’impresa quasi impossibile scrollarsi di dosso la cattiva reputazione di essere stato l’artefice del fallimento».

È per questo che lasciai a metà la recensioncella de Il metodo Machiavelli: più che ipocrita, mi sembrò patetico. La ragione è presto detta: dietro queste affannose e spesso invereconde corse a conquistare un ufficio presso un ministero, una consulenza presso un ministro, un posticino in questa o quella task force governativa, in questo o in quel comitato tecnico-scientifico, io vedo il dramma umano di chi ha scelto la Politik o la Wissenschaft come Beruf in unepoca in cui sè pienamente compiuto quello che Max Weber chiama «processo di espropriazione politica», dando vita alla figura del funzionario: è da un bel po di tempo che «la politica può essere esercitata o mediante “cariche onorifiche”, e quindi da coloro che si usa chiamare “indipendenti”, ossia persone facoltose, soprattutto persone che vivono di rendita; oppure, viene messa alla portata dei meno abbienti e bisogna allora corrispondere un compenso. Il politico di professione il quale viva con la politica può essere un semplice “beneficiario” oppure un “impiegato” stipendiato. Egli trae quindi un reddito da contributi o emolumenti per determinati servizi – le mance e le somme ricevute per corruzione sono soltanto unaberrazione irregolare e formalmente illegale di questa categoria di entrate [qui, con la professionalizzazione dellattività di lobbying, le cose andrebbero un po riviste, nel senso che laberrazione arriva a diventare sostanzialmente regolare e assai difficilmente comprovabile come illegale] –, oppure percepisce un compenso fisso in natura o uno stipendio in denaro, o anche entrambi. Può assumere il carattere di un “imprenditore”, come il condottiero o lappaltatore daltri tempi, o come il boss americano, il quale considera le sue spese alla stregua di un investimento di capitale, che egli rende fruttifero col valersi della propria influenza. Oppure può percepire una remunerazione fissa, come un redattore o un segretario di partito o un moderno ministro o un funzionario politico». E poco oltre: «Lo svilupparsi della politica in un “esercizio professionale” […] determinò la separazione dei funzionari pubblici in due categorie, non certo nettamente separate, ma tuttavia chiaramente distinte: funzionari tecnici da una parte, funzionari politici dallaltra». Caratteristica eminente di questa seconda categoria? «Possono essere in qualunque momento trasferiti o congedati».

Perde peso, dunque, quanto abbiamo letto nelle Confessioni di un capo gabinetto: «I politici passano, noi restiamo», ma non è così, come dimostra lo spoils system che alla caduta del governo Gentiloni vede la messa in congedo di Antonio Funiciello. Certo, alcuni capi di gabinetto di questo o quel ministero possono essere riconfermati nel loro impiego anche al mutare dei governi, non di rado anche di governi di opposto segno politico, ma questo non accade quasi mai col capo di gabinetto della Presidenza del Consiglio. Qui la natura politica del funzionario si sgancia da ogni sua esperienza tecnica, perché il suo ruolo è sostanzialmente quello di stilare lagenda del suo datore di lavoro, selezionare le informazioni che gli devono arrivare e gli incontri che è più opportuno abbia, stare a sentinella dei suoi umori e dei suoi dubbi. Ruolo certamente di rilievo, senza dubbio impiastricciato di qualche potere, ma che di tecnico ha solo ciò che attiene alla gestione della casa, e di «competente» ha solo ciò che implica quel che compete – come già si è detto – al maggiordomo dalto livello.

Questo parallelismo non deve essere inteso come sminuente il ruolo del capo di gabinetto di un Presidente del Consiglio. Daltronde basta uno sguardo alla manualistica del perfetto maggiordomo dei tempi andati e alle autobiografie dei più celebri maggiordomi, per dare il giusto significato al loro essere «consiglieri». Certamente prestigioso il compenso, sicuramente esaltante lessere di casa lì dove si esercita il potere, assodato il fruttuoso trarne vantaggi in termini di relazioni, ma siamo in presenza di un servitore, e non dello Stato, come potrebbe ben rivendicare il funzionario tecnico che, governo dopo governo, resta al suo posto, ma della parte politica che esprime il Presidente del Consiglio: siamo in presenza di un funzionario politico, le cui sorti sono legate, nel migliore dei casi, a quelle del suo datore di lavoro e, in quello peggiore, ai suoi giramenti di coglioni. Ogni perplessità riguardo a questo ruolo rischia inevitabilmente di risultare prosaica, perché il titolare di una rosticceria ben avviata guadagna senza dubbio di più, ma non ha alcun modo di poter sviluppare – e qui torna utile citare ancora Weber  quella sensazione di poter esercitare «unazione sugli uomini» per quella partecipazione al «potere che li domina», il quale «seppur in posizioni modeste dal punto di vista formale», produce «il sentimento di avere tra le mani un filo conduttore delle vicende storiche e di elevarsi al di sopra della realtà quotidiana». Sentimento che dà vita più frequentemente ad una bolla percettiva che a una vera e propria élite. È che l’intellettuale (sensu lato) da sempre sovrastima il suo reale potere, perché sottostima quello della classe che lo mette a libro paga. Produce sovrastrutture, ma allucina la costruzione di plinti e pilastri. 

Lho già scritto su queste pagine, ma qui mi pare che la tutta presunta natura tecnica di questo tipo di funzionari politici riveli la vera natura di quella «competenza» che solo ai gonzi può sembrare essere conoscenza ed esperienza al di là e al di sopra degli interessi che di volta in volta essa è chiamata a curare, ma che in realtà è il mero risultato della «competizione» che una data classe egemone indìce per selezionare le intelligenze che meglio possano servire le proprie esigenze, che in primo luogo sono relative alla conservazione dell’egemonia. In tal senso, quello che, qui e altrove, viene celebrato come «competente» altro non è che laspirante che abbia saputo dimostrare per tempo di poter meglio svolgere il compito al quale è chiamato. A consigliare Funiciello a Draghi è stato quasi certamente Gentiloni, Il metodo Machiavelli era una lettera di referenze.

giovedì 11 febbraio 2021

Ecco, l’ho detto.

 

Uno dei post più letti su queste pagine (28.661 accessi, quasi tutti da Google, col titolo come chiave di ricerca) attacca a questo modo: «Cambiare idea è legittimo, addirittura salutare, perché rivela duttilità mentale, capacità di elaborazione autocritica e rifiuto della coerenza come rappresentazione di un Io infallibile, perciò immutabile. A un patto, però. Che cambiare idea non sia motivato da un tornaconto e che si sia in grado di spiegare in modo adeguato cosa ce l’abbia fatta cambiare, meglio ancora chiarendo il come, cioè in che modo gli argomenti che sostenevano la vecchia sono caduti sotto il peso di quelli che sostengono la nuova» (Cambiare idea, 3 settembre 2013).

Bene, nessun cambio di idea dei tanti, dei troppi, dei continui cambi di idea che da tempo ci offre la cronaca politica italiana rispetta questi requisiti: tutti i suoi protagonisti cambiano idea senza sentire alcun bisogno del dar conto del perché l’abbiano cambiata, tanto meno del come siano arrivati a cambiarla, e spesso si tratta di idee sulle quali si erano giocati il nome, la faccia, la storia personale; non di rado, poi, questo accade con un’improntitudine che impone a chi abbia un minimo di onestà intellettuale di vergognarsi in loro vece, soprattutto, come spesso accade, quando al rilievo del patente aver cambiato idea oppongono un netto, talvolta addirittura risentito, diniego; e qui non parlo del negare ciò che si è detto appena il giorno prima, ma del buttare con incredibile disinvoltura nel cesso, oggi, quello che dichiaravano irrinunciabile, ieri.

È dinanzi a queste oscene prove di miseria umana che io, stasera, volgo il mio pensiero a Maurizio Paolo Ferrari, brigatista irriducibile, l’unico forse a non essersi mai pentito e mai dissociato, trent’anni di dura galera senza sconti di pena, e a Vincenzo Vinciguerra, ordinovista, autore della strage di Peteano, l’unica strage italiana di cui sappiamo chi sia l’autore per sua piena, fiera, responsabile confessione, un ergastolo affrontato con una dignità senza pari; e a loro porgo il mio profondo, sincero, ossequioso rispetto. Ecco, l’ho detto. 

venerdì 5 febbraio 2021

La fine del mondo

 

«... et vidi caelum novum et terram novam,

primum enim caelum et prima terra abiit...»

Ap 21, 1


Le stime variano sensibilmente – c’è chi dice che accadrà tra 7,5 miliardi di anni e chi dice che accadrà molto prima, tra 5 miliardi di anni – ma la cosa pare fuori discussione: da nana gialla il Sole si trasformerà in gigante rossa, espandendosi fino a inglobare la Terra, polverizzandola. In ogni caso, quando ciò accadrà, la Terra avrà già smesso di essere abitabile da qualsivoglia forma di vita animale o vegetale da almeno 2 o 3 miliardi di anni, e, in quanto all’uomo, pare che le condizioni diverranno proibitive assai prima. Si stima, infatti, che di qui a 600 milioni d’anni la vita umana sarà materialmente impossibile sulla Terra, ma c’è chi sostiene che già tra 130.000 anni all’uomo verrà meno ciò che fin qui gli è stato indispensabile per abitarla, e questo al netto di inquinamento, pandemie, guerre nucleari o impatto di meteoriti: ben prima di essere inghiottita dal Sole, alla Terra verrà meno la biosfera, e con essa ogni materiale possibilità di vita umana, se non di vita in senso lato, giacché alcuni batteri potrebbero resistere.

È assodato, dunque, che una fine del mondo ci sarà, sia che con questa locuzione si voglia intendere la scomparsa del pianeta, sia che l’irriducibile antropocentrismo che ci portiamo dentro da sempre ci porti a considerarlo finito con la scomparsa del genere umano. E tuttavia, dacché mondo è mondo, il genere umano ne ha sempre immaginato la fine assai in anticipo rispetto a queste tutto sommato lontanissime scadenze, e questo è accaduto anche quando era ben lungi da venire un’idea di responsabilità umana in ordine alle condizioni di abitabilità del pianeta o a quelle relative ad una sostenibile convivenza: ben prima che l’uomo acquisisse coscienza del fatto che la fine del mondo potesse dipendere anche da lui, la catastrofe finale, definitiva, irreversibile e irreparabile, è sempre stata all’orizzonte come evento relativamente prossimo, e dunque incombente. Non sarà il caso, qui, di entrare in una dettagliata disamina delle date di volta in volta poste a scadenza del mondo, sta di fatto che, rispetto al momento in cui era previsto, l’evento catastrofico finale non è mai stato posto più in là dei 2-3.000 anni. C’è poi da considerare che più in là era prevista la fine del mondo e meno la previsione era formulata in modo inequivoco, fino al punto da non poter neppure essere certi che di una previsione si trattasse, e proprio di una previsione di fine del mondo. Al contrario, più la scadenza era vicina e più l’evento catastrofico finale aveva tratti definiti, talvolta addirittura assai precisi, comunque avvolti nel mistero, certo, ma in ogni caso tali da rendere configurabile, di massima, lo scenario. Qui non mi intratterrò sulle variabili che di volta in volta hanno caratterizzato lo scenario catastrofico finale previsto, limitandomi a considerare una delle sue costanti: la fine del mondo ci è di regola rappresentata come una rivelazione, e cioè come una αποκάλυψις, che letteralmente è discoprimento, con ciò dando alla rivelazione il senso di un’azione, che ovviamente ha un attore.

La previsione della catastrofe finale da parte di questo attore della rivelazione è letteralmente una pre-visione: egli vede la catastrofe finale prima che essa accada, e ne dà annuncio predittivo, anche qui nel senso letterale del termine: la sua pre-dizione non è effetto di una congettura, di un’ipotesi, ma della stessa pre-visione dell’evento. La sua azione, dunque, è letteralmente una profezia, una προ-φητεία, un parlare che precorre il tempo. In tal senso, la figura è perfettamente antitetica a quella di chi annuncia l’avvento del Millennio, del Paradiso in terra, di quell’altra fine della storia che non coincide con la fine del mondo, ma con l’eternamento del suo compiuto fine dialettico (luogo in cui la fine e il fine trovano la lisi di ogni conflitto), sicché anche la profezia della catastrofe finale è un’utopia: utopia negativa, certo, ma con aderente analogia di modello, giacché in entrambi i casi la cosa è da venire, e c’è chi l’annuncia, la pre-vede, la pre-dice; in entrambi i casi, essa è fatale, nel senso che è insieme inevitabile e ultimamente risolutiva; in entrambi i casi, essa ha effetti su tutti, senza eccezioni, e sono effetti radicali, definitivi, irreversibili; in entrambi i casi, essa è sola risposta possibile alla crisi che non vede via duscita soddisfacente in quelle che offre la storia. Come quella positiva delletà delloro, anche lutopia negativa della fine del mondo è la negazione della storia come luogo in cui i problemi trovano soluzione: non riuscendo a trovarla, la si cerca fuori, nel non-luogo per eccellenza.


[segue]


giovedì 4 febbraio 2021

In breve

 


Il sapere non è mai politicamente neutro, non lo è mai stato, non lo sarà mai, perché ciò che lo motiva e lo indirizza, lo sostiene e gli dà fine, è sempre sociale, ineluttabilmente sociale. Ma c’è di più: se la morale altro non è che la pretesa di assolutizzare i mores di una società (i mores che la parte egemone di una società riesce a imporre come informati da valori assoluti) e se l’etica altro non è che la pretesa di imporre un certo ethos come superiore e antecedente all’uomo, o in lui connaturato, e in ogni caso, perciò, universale, eterno, ubiquitariamente valido, e dunque necessariamente cogente, il sapere non è mai moralmente o eticamente neutro. Ne consegue che la competenza in un qualsiasi campo del sapere non può mai dichiararsi politicamente, moralmente, eticamente neutra: se lo fa, è solo per spacciare come indiscutibili moventi e fini sui quali la politica è chiamata a discutere e, peggio, per spacciarli come moralmente ed eticamente superiori rispetto a quelli che dalla discussione politica escono vincenti. Dietro ogni competente c’è la vittoria che egli ha conseguito nella competizione indetta dalla parte egemone di una società al fine di selezionare il sapere che più sia in grado di conservare ed eventualmente potenziare la sua egemonia. Non c’è molta differenza tra le tavole della legge dettate da un roveto ardente e un vitello d’oro costruito dagli uomini: in entrambi i casi, l’esigenza è quella di zittire, ridurre all’obbedienza, sterilizzare la politica, toglierle le ragioni che le danno vita. Nel primato della tecnocrazia sulla democrazia c’è l’incoercibile tentazione chiliastica alla fine della storia, al sopimento dei conflitti, al compimento ultimo di tutte le dialettiche: la parte egemone di una società tenta di perpetuare i suoi privilegi appaltandone la difesa a chi ha pretesa di saperli dimostrare necessari al conseguimento del bene comune. Nell’impossibilità di una democrazia che non sia altro che un’oligarchia ben dissimulata, la tentazione tecnocratica sarà sempre allettante.