domenica 9 aprile 2017

[...]


«Comincio ad invecchiare. Sono stanco, ho perduto il gusto per le questioni rumorose, senza cui non si fa politica. Probabilmente la vecchiaia comincia a farmi diventare egoista. E l’egoismo assume la forma di amore per lo studio».

Gaetano Salvemini,
lettera a Ernesto Rossi,
7 ottobre 1922

martedì 28 marzo 2017

Il calcetto sta solo a metafora

Bersagliato dalle critiche per la sua seconda infelice uscita sulla disoccupazione giovanile, che tuttavia, come la prima, ha il pregio di rivelarci quale miserabile ometto sia rincantucciato in quello sproposito di omone, Giuliano Poletti riesce a fare anche di peggio nel tentativo di schermirsi: «Il calcetto – dice – era metafora delle relazioni sociali».
Nulla da correggere, dunque, riguardo all’affermata priorità delle entrature rispetto ai meriti, che indubbiamente oggi è realtà di fatto, come d’altronde è dimostrato proprio da chi non si capisce con quali meriti sieda a capo del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, visti i risultati della sua azione di governo: solo l’essere riuscito a tessere una solidissima rete di relazioni sociali può spiegarlo, e per farsi un’idea di quale genere basta aver letto Falce e carrello (Bernardo Caprotti, Marsilio 2007), spaccato di un affresco antropologico prima che economico e politico.
Sta di fatto che Giuliano Poletti non si è affatto limitato a fotografare una realtà di fatto: ben lungi dal definirla odiosamente iniqua nei confronti di chi fra i suoi meriti non può vantare quello di essere un maneggione, l’ha legittimata come la sola possibile. In sostanza ha detto: «Così è: adeguatevi. Oppure – e qui pare evidente il richiamo a quanto disse alcuni mesi fa – andatevene all’estero, perché di chi non sa adeguarsi possiamo fare a meno, anzi, ci infastidisce averlo tra i piedi». E si può capire: uno che pretende sia dato il giusto riconoscimento ai propri meriti, e non coglie l’importanza del lasciarsi dribblare la palla da chi può restituirgli il simpatico gesto atletico con uno splendido voucher, diciamo la verità, che ci sta a fare nel paese dove il servilismo è considerata un’arte? Perché scandalizzarsi, poi? Che c’è di nuovo rispetto allo «sposi un uomo ricco» che Silvio Berlusconi dava in risposta alla precaria che gli chiedeva con quali mezzi potesse aspirare a crearsi una famiglia? 
Le chiamano gaffes, direi che invece sono i capisaldi di un vero e proprio manifesto politico. In tal senso credo che a Matteo Renzi si faccia un grave torto nel rimproverargli di non avere un progetto di società, perché gli uomini e le donne che ha portato al governo, e lui stesso, ne illustrano a dovere uno che è la fedele riproduzione della provincia di cui sono il frutto: figli di intrallatori perennemente attaccati al telefonino, alla Gazzetta Ufficiale, alla pagina dei necrologi, per costruire la trama di affarucoli e scambi di favore, pastette e pacche sulle spalle, simpatie e interessi, a messa la domenica e il lunedì a brigare nello studio del commercialista. Il calcetto – è evidente – sta solo a metafora. 

mercoledì 15 marzo 2017

Apri parentesi. Chiudi parentesi.


Apri parentesi. Com’è possibile che a tanti Matteo Renzi nemmeno sembra di sinistra e poi fra i suoi più convinti sostenitori si ritrova un Giuseppe Vacca, che, in quanto presidente dellIstituto Gramsci, non può non essere comunista? In favore dei poveri di spirito che possano essersi fatti cogliere da questa perplessità, Lilli Gruber pone la domanda al diretto interessato, che risponde: «E che centra? Gramsci è morto». Chiudi parentesi.

Apri parentesi. Non mancate alla tavola rotonda su «Attualità del pensiero di Antonio Gramsci» che oggi si terrà allIstituto Gramsci. Presiede il presidente, Giuseppe Vacca. Chiudi parentesi.


martedì 14 marzo 2017

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Le definizioni di fiaccolata date dal Battaglia, dal De Mauro, dal Devoto-Oli, dal Palazzi, dal Sabatini-Coletti, dal Treccani e dallo Zanichelli sono concordi nellassegnare ragionevole motivo di tenerne una alle occasioni in cui si intenda festeggiare, onorare, commemorare qualcosa o qualcuno, oppure conferire solenne intensità emotiva a un momento di protesta.
Per quella tenutasi laltrieri a Palermo credo si possa senzalcun dubbio escludere loccasione di festa. Tenderei ad escludere pure che si intendesse protestare contro qualcosa o qualcuno: era morto un clochard, ma sera da subito assodato si fosse trattato di un delitto dimpeto, per motivi passionali, e che una volta tanto non fosse necessario trascinare sul banco degli imputati il solito branco di naziskin, i soliti quattro o cinque figli di papà in cerca di emozioni forti, e neppure la criminale indifferenza della società che emargina i più deboli, condannandoli a morte per inedia o assideramento.
Resta solo lipotesi che la fiaccolata volesse essere un omaggio funebre, ma è qui che sorgono le perplessità. Volendo pur mettere a tacere quelle che a ragione potrebbero urtare la sensibilità di chi ha deciso di dare forma tanto enfatica a questi funerali, un dubbio tuttavia resta: non c’è del grottesco nel tenere in pugno una torcia fiammeggiante nellaccompagnare al cimitero uno che è morto bruciato vivo?

lunedì 13 marzo 2017

Corrispondenze


Caro Castaldi, [...] quando laltro giorno, alla kermesse dei renziani riuniti al Lingotto, ha preso la parola Massimo Recalcati, non ho potuto fare a meno di pormi una domanda, alla quale però non ho saputo dare una risposta, e che perciò le giro: come è possibile che vi sia pure uno psicoanalista fra i fedelissimi di chi lei ritiene essere affetto da un grave disturbo della personalità? Ci legga pure una puntina di polemica, ma non mi tratti male, perché credo che la questione non sia affatto oziosa, anzi sono certo che debba essersela posta anche lei. [...] Con stima,

Mariano Russo


Caro Russo, non ritengo affatto oziosa la questione che mi sottopone: mi sono posto la stessa domanda anchio, ma alcuni mesi fa, quando Massimo Recalcati calcò il palco della Leopolda. Senza essere in grado di dirle quale sia la più attendibile, credo che due siano le risposte possibili.
La prima prende forza da alcuni dati che sono incontestabili, e che provo a esporle in modo sintetico, rimandandola ai lavori degli autori che citerò per i riscontri che le dovessero sembrare necessari.
Inizierei col farle notare che la figura del leader politico affetto da gravi disturbi della personalità è sempre stata di grande interesse per il mondo della psicoanalisi, a fronte di una pressoché costante impossibilità di poter studiare il caso da vicino, tanto meno di poter dar luogo a un setting. Prenda, per esempio, quel che Walter Langer mette in premessa alla sua analisi della personalità di Adolf Hitler: non farà fatica a leggere, in sottotraccia allavvertenza sui limiti di uno studio a distanza, un «cosa non avrei pagato per poter avere un tizio così sul mio lettino tre volte a settimana per dieci anni!».
Bene, sia carino, riconosca a Massimo Recalcati quellincoercibile amore per la ricerca che in lui è evidente fin dalla montatura degli occhiali, e dica: cè un caso psichiatrico più interessante di quello di Matteo Renzi sulla piazza?
Ernst Ticho dice che i narcisisti costituiscono un«indicazione eroica per la psicoanalisi», mentre Joan Riviere sostiene che essi «non possono sopportare lidea di migliorare, perché in tal caso dovrebbero ammettere di essere stati aiutati» ed Herbert Rosenfeld si spinge a sostenere che «considerano intollerabile la stessa idea di guarigione»: sfida affascinante, soprattutto dopo essersi fatto massacrare i coglioni per anni da anoressiche e bulimiche.
E quale altro espediente aveva a disposizione, Massimo Recalcati, per studiare Matteo Renzi tanto da vicino come certamente starà facendo di meeting in meeting? Vedrà, caro Russo, che volumone ne verrà fuori, occorre solo attendere qualche annetto.
Mi sembra di poter già cogliere le sue obiezioni. Massimo Recalcati le sembra appena un po meno stronzo del tipico renziano, ma ne ha tutti i tratti distintivi. Vero, ma Heinz Kohut è chiaro: nellapproccio al narcisismo paranoide è indispensabile che lo psicoanalista faccia uno straordinario investimento empatico per assicurarsi che il paziente lo idealizzi, consentendo in tal modo quel transfert speculare che è indispensabile allo studio del caso. Anche su questo punto direi che Massimo Recalcati abbia fin qui dato il meglio di sé: geniale, per esempio, la trovata di paragonare Matteo Renzi a Telemaco per accreditarsi come un Omero pronto a cantarne le gesta.
Lha sentito, poi, al Lingotto? Parlava delle necessarie correzioni alla riforma della scuola, ma è evidente che parlava a lei, caro Russo, e a chiunque aveva a porsi la stessa domanda che lei ha girato a me. «In Matteo Renzi – ha detto – cè una ferita aperta»: lui è lì a cercare di guarirla, incurante del rischio di poter essere fotografato tra un De Luca e un Rondolino e così essere sputtanato a vita, coraggioso come deve essere uno che indefessamente si è votato alla cura e alla ricerca. Non so a lei, ma a me questo pare molto bello.
Laltra ipotesi è che la psicoanalisi non centri niente, che al pari di tanti carrieristi Massimo Recalcati abbia fatto una scommessa, che quanto è nella prima ipotesi gli servirà da scusa se la perde. In fondo è lacaniano, e Jacques Lacan è chiaro: «Larte dell’analista dev’essere quella di sospendere le certezze del soggetto finché se ne consumino gli ultimi miraggi».



venerdì 10 marzo 2017

martedì 7 marzo 2017

Ogni cruccio è ipocrisia

«Il popolo confonde ogni cosa
e dice esser bella la commedia
se è bella la recitazione»

Francesco M. Zanotti, Paradossi


Dopo aver tanto festeggiato la «morte delle ideologie», ci vuole una bella faccia tosta per lamentarsi del livello cui si è abbassato il dibattito politico. Quando le idee che si offrono a soluzione dei problemi del presente si fanno refrattarie ad articolarsi in un sistema che dia coerente solidità di struttura ad una visione del futuro – quando si arriva addirittura ad affermare che la coerenza sarebbe un intollerabile limite imposto alla politica – quello che sarebbe auspicabile come confronto tra due o più progetti di società è giocoforza destinato a frammentarsi in una incessante serie di scontri polemici su questioni tutte contingenti, ciascuna con una posta in gioco spesso anche miserrima, e tuttavia ragione di contesa sulla quale è vitale spendersi interamente, perché fuori da ogni ampio disegno strategico vince la logica che fa di ogni battaglia una guerra e di ogni dottrina un impaccio.
Sia chiaro: al pari delle religioni rivelate, di cui sono riproduzioni più o meno ben riuscite, anche le ideologie – tutte le ideologie – altro non sono che espressione di interessi materiali, peraltro sempre ben riconoscibili come particolari, e spesso mal dissimulati come generali. Qui si è ben lungi, dunque, dal piangere sulla «morte delle ideologie» come per lo smarrimento del concetto di «bene comune» – sempre sineddoche, dacché mondo è mondo – intendendo solo richiamare l’attenzione sulla differenza che corre tra l’epica dell’egemonia culturale e l’avventurismo che ormai segna trasversalmente tutta la politica, per chiedere: con quale sfrontatezza si può lamentare la paurosa ignoranza dimostrata di continuo dai leader politici che oggi sono sulla piazza? Si è preteso fossero agili, duttili, pragmatici, disinvolti nel cambiare idea in corsa: si può pretendere, adesso, somiglino più a fini intellettuali che a volgari piazzisti?
Con quale faccia tosta si pretende, poi, che questi leader rinuncino all’attacco personale come arma più efficace nellagone politico, dopo aver festeggiato lavvento del partito che si identifica nella persona del proprio leader? Ne ho già parlato: «Se prima era il partito alla continua ricerca dei propri quadri dirigenti e di un leader che riuscisse ad incarnarne il portato etico-estetico, oggi chi ha la vocazione di farsi leader la persegue e la soddisfa nel riuscire a fare di un partito lo strumento del suo Io narrante, sicché in buona sostanza si può dire che egli è veramente leader quando il partito riesce a far propri i tratti di quel narrato. [...] Ieri il leader era la sintesi simbolica di un quid che oggi è sintesi simbolica del leader» (Appunti per una «Psicologia del Supercazzola» – Malvino, 16.7.2014).
Limbarbarimento del dibattito sulla cosa pubblica, dunque, sta molto più a monte di quanto si lamenta. Se la politica non è più tenuta a esprimersi come progetto, se chi regge le leve del comando non è tenuto a render conto di quanto possa aver tradito il programma col quale ha chiesto e ottenuto consenso, se le sorti di un partito sono indissolubilmente legate a quelle del suo leader, ogni cruccio è ipocrisia.  

giovedì 2 marzo 2017

martedì 28 febbraio 2017

Dj Fabo è riuscito a sottrarsi anche a questo

Ci sono questioni che più di altre offrono occasione di ricorso a quegli espedienti retorici, noti come fallacie, in grado di dare, almeno agli sprovveduti, parvenza di argomento a un vizio logico, ma nessuna ne consente un impiego così largo come quella relativa all’eutanasia, quasi esclusivamente in suo sfavore, ma non solo, perché anche fra quanti riconoscono all’individuo il diritto di suicidio assistito non mancano coloro – anche per loro, come gli altri, non ha importanza far nomi – che ricorrono all’appeal to popularity («Oltre il 75% degli italiani è favorevole a una legge sull’eutanasia»), all’appeal to novelty («In tutti i paesi più progrediti il diritto alla “buona morte” è riconosciuto da decenni») o all’appeal to emotion («Costringere a vivere chi vuole morire è una delle più feroci crudeltà»), il che è robetta rispetto a quanto è vomitato dal fronte opposto, soprattutto con la reductio ad Hitlerum (nella versione classica: «Anche i nazisti ammazzavano i malati cronici dicendo che era per mettere fine alle loro sofferenze»; o nei suoi derivati: «Hitler almeno i disabili li eliminava a gratis») e con lo slippery slope («Si finirà per sopprimere tutti quelli che lo Stato considererà un peso economico insostenibile»), ma pure all’appeal to authority («Il quinto comandamento è categorico: non uccidere»), all’appeal to belief («Ripugna al comune sentire che un debole debba essere soppresso per il solo fatto di essere un debole»), all’appeal to pity («Il malato terminale ha bisogno di amore, non di un’iniezione letale»), al bandwagon («Una legge che consentisse l’eutanasia opererebbe un’intollerabile pressione psicologica anche su chi non fosse pienamente motivato a ricorrervi»), all’appeal to tradition (nelle diverse forme date alla tradition: «La vita non è nella disponibilità di alcuno», «Una cosa è il gesto pietoso e discreto che i parenti riescono a strappare al medico, un’altra è l’omicidio di Stato giuridicamente configurato», ecc.), al confusing cause and effect («In tutti i paesi dove l’eutanasia è legale il numero di persone che vi ricorrono è in costante aumento») e alle varie forme, isolate o più spesso combinate, di reductio ad hominem, guilt by association e straw man argument (esempio più emblematico: «Dice niente che fra quanti sono in favore dell’eutanasia siano in tanti ad essere anche a favore dell’aborto, del matrimonio gay, dell’utero in affitto e della droga libera?»), sicché si potrà avere un occhio di riguardo per chi frapponga indugio a entrare nel merito della questione, chiedendosi se abbia senso scendere in un dibattito pubblico avvelenato da tante fallacie. Dj Fabo è riuscito a sottrarsi anche a questo.

domenica 26 febbraio 2017

«L’esercito di medici assenteisti»


Prendo in considerazione solo il Corriere della Sera per il rilievo della testata, ma, al momento in cui mi appresto a scrivere quanto segue, Google news indicizza almeno altre due dozzine di siti che trattano la notizia allo stesso modo, in oltre la metà dei casi proponendo lo stesso titolo scelto dal quotidiano di Via Solferino («Lesercito di medici assenteisti»).
In realtà, fra i 55 dipendenti dellOspedale «Loreto Mare» per i quali la Procura di Napoli ha disposto larresto, i medici sono solo 2 – gli altri sono infermieri professionali (18), operatori sociosanitari (11), tecnici di radiologia (9), addetti alla manutenzione (9) e amministrativi (6) – ma di questo non cè alcuna traccia nel testo dellarticolo cui rimanda il tweet del @Corriere, nel quale si arriva addirittura a «55 medici assenteisti».
Premetto: non ho parenti o amici fra gli arrestati; nutro sommo disprezzo per gli assenteisti, in generale, e per quelli della sanità pubblica, in particolare; giacché son medico anchio, sfido chiunque a trovare nelle tredici annate di questo blog un solo rigo speso in difesa della categoria. Ciò detto, mi pare evidente che quello del Corriere della Sera sia un pessimo modo di fare informazione. Altrettanto evidente mi pare ciò che lo produce, poco importa se intenzionalmente, e dunque in malafede, o involontariamente, per miserrima compulsione al sensazionalismo: è il sentirsi al di sopra della realtà, quindi in diritto di piegarla a unattenzione tutta pre-indirizzata, né più né meno di come accade nel creare un bisogno che si traduca in domanda motivata solo dallofferta.
Viene il sospetto che le tutte tirate del Corriere della Sera contro gli spacciatori fake news che infestano il web intendessero solo riaffermarne il monopolio. 

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Da un moto appena percettibile del capo, in cui vera tuttavia già un franco annuire di piena approvazione, la riflessione di Luca Sofri sullobiezione di coscienza (Coscienze a gratisWittgenstein, 24.2.2017) è arrivata a strapparmi un «bravo!» a metà del post, un «bravissimo!» a tre quarti e al penultimo periodo un «dopo averne detto peste e corna tante volte, stavolta mi è dobbligo complimentarmi pubblicamente». Al penultimo periodo, per lappunto, perché lultimo, peraltro fatalmente superfluo (immaginate lultimo colpetto di scalpello sotto il quale a Michelangelo va in frantumi la Pietà), era il seguente: «Le coscienze gratis, son coscienze vuote» (soggetto-virgola-verbo, che di Luca Sofri è praticamente la firma). Impossibile darvi altrimenti, qui, lesatta espressione del mio sconcerto: