La desinenza in -ismo suggerisce che il pauperismo sia categorizzazione ideologica della pauperitas come modello di vita moralmente superiore. Così è, ma solo in parte, perché l’-ismo qui categorizza innanzitutto una condizione di stato: prima di essere «ideale di povertà professato da alcune comunità cristiane», infatti, il pauperismo è «fenomeno economico e sociale per cui in determinati periodi larghi strati della popolazione sono colpiti dalla miseria in conseguenza di un complesso di fattori di varia natura (penuria di risorse naturali e di capitali, scarso spirito di intraprendenza, cattiva distribuzione della ricchezza, ecc.) o anche di fatti eccezionali (guerra, carestia, crisi economica, inflazione acuta, ecc.)» (Treccani). In questa accezione, ovviamente, il pauperismo non implica alcuna tensione ideale verso un modello: alla miseria, qui, non si arriva nel perseguimento di una virtù.
E tuttavia l’esperienza insegna che anche nei casi in cui sia sollevata a ideale – da un singolo, da un ordine religioso, da un movimento politico – la pauperitas è sempre un fare de necessitate virtutem, dove la necessitas è posta da un’irrinunciabile istanza penitenziale, dall’esigenza di affermare una priorità spirituale su ogni bene materiale che sia di ostacolo al suo raggiungimento, da una dottrina economica che rigetta il fine della crescita come insostenibile. In pratica, la necessitas è posta da condizioni in cui la ricerca del benessere materiale oltre una certa misura viene ad essere sentita ingiusta nel senso etimologico del termine, cioè contraria alla legge che stabilisce quella misura come sostenibile in relazione a un fine.
E tuttavia l’esperienza insegna che anche nei casi in cui sia sollevata a ideale – da un singolo, da un ordine religioso, da un movimento politico – la pauperitas è sempre un fare de necessitate virtutem, dove la necessitas è posta da un’irrinunciabile istanza penitenziale, dall’esigenza di affermare una priorità spirituale su ogni bene materiale che sia di ostacolo al suo raggiungimento, da una dottrina economica che rigetta il fine della crescita come insostenibile. In pratica, la necessitas è posta da condizioni in cui la ricerca del benessere materiale oltre una certa misura viene ad essere sentita ingiusta nel senso etimologico del termine, cioè contraria alla legge che stabilisce quella misura come sostenibile in relazione a un fine.
Non si tratta, però, di una misura fissa, perché il fine varia al variare della necessitas.
Così, nell’istanza penitenziale del singolo la misura è estremamente bassa, nella regola dell’ordine religioso che fa della povertà un ideale di vita è invariabilmente più alta, e ancor di più lo è nella dottrina economica che mette in discussione il principio della crescita. Anche quando si professa tale, dunque, la pauperitas non è mai un valore che trae senso da se stessa: la legge che ne esprime la necessitas risponde ad esigenze che variano all’interno dello stesso contesto storico, e in funzione del fine posto in ciascuno dei differenti modelli di virtus da perseguire. Potremmo concludere che la pauperitas non è mai fine a se stessa, ma è sempre un mezzo, che nell’accezione del pauperismo come modello di vita moralmente superiore trova il migliore occultamento di una condizione di stato. Non è un caso, infatti, che i movimenti pauperistici nascano sempre in momenti di profonda crisi, quando all’accumulo di grandi ricchezze nelle mani di pochi corrisponde la miseria di molti.
Se saggiamo queste considerazioni d’ordine generale sulle esperienze dell’ideale pauperistico che abbiamo incontrato lungo la storia, sembra costante il richiamo a una pauperitas che troverebbe fondamento nelle Scritture della tradizione giudaico-cristiana. Bene, occorre dire che tale fondamento è assai malcerto per ciò che attiene al Vecchio Testamento. Qui, Dio ricompensa chi gli è caro proprio con l’abbondanza di beni materiali (per esempio, in Gen 17, 6-8, in 2 Sam 7, 9-16, in 1 Re 3, 13, in Gb 42, 10-12, ecc.), e solo relativamente tardi inizia a farsi strada l’idea di una misura oltre la quale i beni materiali possano diventare un ostacolo al rispetto della Legge: «Non darmi né povertà né ricchezza; ma fammi avere il cibo necessario, perché, una volta sazio, io non ti rinneghi e dica: “Chi è il Signore?”, oppure, ridotto all’indigenza, non rubi e profani il nome del mio Dio» (Pr 30, 7-9). Tardiva, infine, la condanna della ricchezza come fonte di rovina spirituale, che compare per la prima volta solo nel Libro di Isaia (Is 1, 16-17 e Is 58, 6-7). Dobbiamo aspettare il Nuovo Testamento, quando l’avvento regno di Dio si dà come imminente, perché la povertà diventi una virtù fine a se stessa, almeno in apparenza. Più che in Mt 5, 3 (dove i poveri sono «poveri in spirito»), è in Lc 6, 20 («Beati voi, poveri, perché vostro è il regno di Dio») e in Lc 6, 24 («Guai a voi, ricchi, perché avete già la vostra consolazione») che ne troviamo la più esplicita enunciazione, ma qui è proprio l’antitesi beatitudine/condanna a rivelare la traccia di una necessitas: nell’accumulo delle ricchezze è implicito il rigetto dell’annuncio che l’avvento regno di Dio è imminente. È sull’imminenza del regno di Dio, d’altronde, che si consuma in ambito cristiano la questione della pauperitas.
«Al tempo dei martiri la Chiesa primitiva fiorì presso Dio e non presso gli uomini. Ma quando i re, gli imperatori romani e i principi si convertirono alla fede, essi, come buoni figi, vollero onorare la loro madre, la Chiesa, conferendole terre e proprietà, onori e dignità secolari, diritti e insegne regali, come fecero Costantino ed altri fedeli. E così la Chiesa cominciò a fiorire tanto presso gli uomini che presso Dio. Possieda dunque la Chiesa, nostra madre e signora, le cose che le sono state date dai re e dai principi. Le distribuisca e le dia ai suoi figli come sa e come vuole»: è papa Pasquale II, al Concilio Lateranense del 1116, quando è chiaro che la fine dei tempi attesa per l’Anno Mille è dilazionata ad altra data. Ma non bisogna aspettare tanto. Siamo nel I secolo, infatti, e già l’incetta trova modo di trovare necessitas nella pauperitas: «Un uomo di nome Anania con la moglie Saffira vendette un suo podere e, tenuta per sé una parte dell’importo d’accordo con la moglie, consegnò l’altra parte deponendola ai piedi degli apostoli. Ma Pietro gli disse: “Anania, perché mai Satana si è così impossessato del tuo cuore che tu hai mentito allo Spirito Santo e ti sei trattenuto parte del prezzo del terreno? Prima di venderlo, non era forse tua proprietà e, anche venduto, il ricavato non era sempre a tua disposizione? Perché hai pensato in cuor tuo a quest’azione? Tu non hai mentito agli uomini, ma a Dio”. All’udire queste parole, Anania cadde a terra e spirò. E un timore grande prese tutti quelli che ascoltavano» (At 5, 1-5).
[continua]
Se saggiamo queste considerazioni d’ordine generale sulle esperienze dell’ideale pauperistico che abbiamo incontrato lungo la storia, sembra costante il richiamo a una pauperitas che troverebbe fondamento nelle Scritture della tradizione giudaico-cristiana. Bene, occorre dire che tale fondamento è assai malcerto per ciò che attiene al Vecchio Testamento. Qui, Dio ricompensa chi gli è caro proprio con l’abbondanza di beni materiali (per esempio, in Gen 17, 6-8, in 2 Sam 7, 9-16, in 1 Re 3, 13, in Gb 42, 10-12, ecc.), e solo relativamente tardi inizia a farsi strada l’idea di una misura oltre la quale i beni materiali possano diventare un ostacolo al rispetto della Legge: «Non darmi né povertà né ricchezza; ma fammi avere il cibo necessario, perché, una volta sazio, io non ti rinneghi e dica: “Chi è il Signore?”, oppure, ridotto all’indigenza, non rubi e profani il nome del mio Dio» (Pr 30, 7-9). Tardiva, infine, la condanna della ricchezza come fonte di rovina spirituale, che compare per la prima volta solo nel Libro di Isaia (Is 1, 16-17 e Is 58, 6-7). Dobbiamo aspettare il Nuovo Testamento, quando l’avvento regno di Dio si dà come imminente, perché la povertà diventi una virtù fine a se stessa, almeno in apparenza. Più che in Mt 5, 3 (dove i poveri sono «poveri in spirito»), è in Lc 6, 20 («Beati voi, poveri, perché vostro è il regno di Dio») e in Lc 6, 24 («Guai a voi, ricchi, perché avete già la vostra consolazione») che ne troviamo la più esplicita enunciazione, ma qui è proprio l’antitesi beatitudine/condanna a rivelare la traccia di una necessitas: nell’accumulo delle ricchezze è implicito il rigetto dell’annuncio che l’avvento regno di Dio è imminente. È sull’imminenza del regno di Dio, d’altronde, che si consuma in ambito cristiano la questione della pauperitas.
«Al tempo dei martiri la Chiesa primitiva fiorì presso Dio e non presso gli uomini. Ma quando i re, gli imperatori romani e i principi si convertirono alla fede, essi, come buoni figi, vollero onorare la loro madre, la Chiesa, conferendole terre e proprietà, onori e dignità secolari, diritti e insegne regali, come fecero Costantino ed altri fedeli. E così la Chiesa cominciò a fiorire tanto presso gli uomini che presso Dio. Possieda dunque la Chiesa, nostra madre e signora, le cose che le sono state date dai re e dai principi. Le distribuisca e le dia ai suoi figli come sa e come vuole»: è papa Pasquale II, al Concilio Lateranense del 1116, quando è chiaro che la fine dei tempi attesa per l’Anno Mille è dilazionata ad altra data. Ma non bisogna aspettare tanto. Siamo nel I secolo, infatti, e già l’incetta trova modo di trovare necessitas nella pauperitas: «Un uomo di nome Anania con la moglie Saffira vendette un suo podere e, tenuta per sé una parte dell’importo d’accordo con la moglie, consegnò l’altra parte deponendola ai piedi degli apostoli. Ma Pietro gli disse: “Anania, perché mai Satana si è così impossessato del tuo cuore che tu hai mentito allo Spirito Santo e ti sei trattenuto parte del prezzo del terreno? Prima di venderlo, non era forse tua proprietà e, anche venduto, il ricavato non era sempre a tua disposizione? Perché hai pensato in cuor tuo a quest’azione? Tu non hai mentito agli uomini, ma a Dio”. All’udire queste parole, Anania cadde a terra e spirò. E un timore grande prese tutti quelli che ascoltavano» (At 5, 1-5).
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un post così merita cornice e passepartout; eppure nessun commento, fosse pure di critica o di biasimo
RispondiEliminaL'argomento è complesso e per questo, forse, è difficile fare un commento sensato.
EliminaSe si presume che nella storia umana la penuria dei molti e la ricchezza dei pochi sia stata la condizione più diffusa, viene da pensare che il premere testamentario sul pauperismo sia una manovra pretesca, per così dire.
Nello stesso tempo la questione della povertà, quella reale, rimane tuttora irrisolta. Le risposte sono varie, dalla predestinazione, allo sfruttamento dell'uomo sull'uomo, alla sconfitta nella struggle for life.
La povertà è ripugnante. Risolvere la questione con un elogio della povertà, come fanno i preti, è ripugnante.
La povertà non dovrebbe esistere, punto.
Cosa dovrebbe esistere, però, non è mai stato molto chiaro.
Attendo la seconda parte del post.
Malvino fornisce sempre chiavi di lettura come minimo stimolanti, ogni volta.
Mi piacerebbe sentire un parere spassionato, su questo professore, che sta demolendo la bibbia, che a me sembrava già che si demolisse da sola...
RispondiEliminahttp://www.youtube.com/watch?v=2w-ueOLC7rI
mescalito
In effetti, Olympe, il post merita; eppure incute qualche timore, indefinibile. Alla pauperitas io ho, per esempio, associato il termine di "Austerità" nella nobile accezione berlingueriana. La riflessione di Malvino mi convinceva vieppiù all'approfondimento di quella che ancor oggi considero un'occasione persa per una prassi della politica rifondante e generosa nelle aspettative. Gli eredi della politica dell'austerità li considero sciuponi e scialacquoni di tanto intento rifondatore delle nostre vite. Austerità che si univa egregiamente al concetto di necessità e per questo diveniva propulsione di agiatezza da vecchio testamento, come da Malvino riportato.
RispondiEliminaSalve Dottore,
RispondiEliminaproprio su questa cosa della povertà e del nuovo papa ho scritto un sonetto in romanesco. Non dovrebbe essere troppo difficile da capire. Spero l'apprezzi. Saluti, Marcello.
Er papa novo
"Sora Ferna', hai visto sí che Papa?!
Stavorta l'hanno scerto propio bono,
se vede che nun cià quell'aria sciapa
- Iddio m'hai da scusà, chiedo perdono -
de quello lì de prima... Benedetto,
che sarò io... ma nun m'é mai piaciuto!
E questo novo 'nvece già l'ha detto:
'Vorei 'na chiesa povera e in aiuto
de li porelli', e 'nfatti poi è pè questo
che s'é voluto da chiamà Francesco".
"Sarà, Sirvana mia, ma qua l'impresa
nun è convince a noi: lì se fa presto;
Qua de 'sta povertà - ma ce 'sta fresco -
ha da convince 'n primise la Chiesa..."