giovedì 25 luglio 2013

Perdenti, dunque vincitori



Vent’anni fa veniva dato alle stampe The Culture of Complaint, che l’anno dopo arrivava in Italia, per i tipi di Adelphi, con un titolo che già dava un’idea del tipo di fortuna che cercava qui da noi, e che in sostanza prefigurava la differenza di stile tra la polemica mossa al «politicamente corretto» di qua e di là dall’Atlantico. Non che «piagnisteo» tradisse il senso di «compliant», infatti, ma dava una connotazione caricaturale a «lamentela», cercando – per trovarla con facilità – una legittimità alla «scorrettezza» come arma polemica.
I risultati sono nei fatti: mentre negli Stati Uniti la critica al «politicamente corretto» ha prodotto una riflessione seria anche laddove si limitasse a usare i mezzi della satira di costume, qui da noi è diventato un esercizio coatto, spesso becero, anche quando ad applicarvisi erano nomi d’un qualche peso. In tal senso potremmo dire che con la morte di Giorgio Gaber, che d’altronde aveva anticipato di almeno due o tre lustri le riflessioni di Robert Hughes, peraltro con intuizioni che restano folgoranti anche a così lunga distanza, l’Italia ha perso il solo critico del «politicamente corretto» che abbia mai avuto, per lasciare il campo a incursioni squalliducce, velleitariamente provocatorie, quasi sempre volgari, che si sono pressoché esaurite nel dare del «frocio» a un omosessuale, nel mugugnare per l’odore di kebab nei nostri centri storici e nel dichiararsi felicemente incompetenti dinanzi all’arte contemporanea.
Se la critica al «politicamente corretto», insomma, era una buona occasione per il pensiero conservatore, in Italia è stata sprecata riducendola ad una forma intrattenimento che tradiva perfino il movente liberatorio per insterilirsi in tic nevrotico. Questo, quando si trattava de Il Foglio, per buttare un occhio alla stampa, perché con il Giornale o con Libero, si riusciva a scendere anche più in basso. D’altra parte accade sempre così con quello che arriva dall’altra sponda dell’oceano: si copia, ma male. E basta rileggere La cultura del piagnisteo vent’anni dopo per fare una scoperta che tutto sommato è sconvolgente: se «la nuova sensibilità decreta che i nostri eroi saranno solo le vittime» (pag. 23), il ruolo spetta di diritto agli eroicomici disadattati alla modernità, che dopo aver tentato invano la via del politically uncorrect come momento di resistenza e di ribellione, possono dichiararsi perdenti, dunque vincitori.       

1 commento:

  1. Papao Meravigliaogiovedì, 25 luglio, 2013

    Ma pure Bergoglio: ' "L'ipocrisia è il linguaggio proprio della corruzione". I cristiani non debbono usare "un linguaggio socialmente educato", incline "all'ipocrisia", ma farsi portavoce della "verità del Vangelo con la stessa trasparenza dei bambini". '

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