Vent’anni
fa veniva dato alle stampe The Culture of Complaint, che l’anno dopo arrivava
in Italia, per i tipi di Adelphi, con un titolo che già dava un’idea del tipo
di fortuna che cercava qui da noi, e che in sostanza prefigurava la differenza
di stile tra la polemica mossa al «politicamente corretto» di qua e di là dall’Atlantico.
Non che «piagnisteo» tradisse il senso di «compliant», infatti, ma dava una
connotazione caricaturale a «lamentela», cercando – per trovarla con facilità –
una legittimità alla «scorrettezza» come arma polemica.
I risultati sono nei
fatti: mentre negli Stati Uniti la critica al «politicamente corretto» ha
prodotto una riflessione seria anche laddove si limitasse a usare i mezzi della satira di
costume, qui da noi è diventato un esercizio coatto, spesso becero, anche
quando ad applicarvisi erano nomi d’un qualche peso. In tal senso potremmo dire
che con la morte di Giorgio Gaber, che d’altronde aveva anticipato di almeno
due o tre lustri le riflessioni di Robert Hughes, peraltro con intuizioni che
restano folgoranti anche a così lunga distanza, l’Italia ha perso il solo
critico del «politicamente corretto» che abbia mai avuto, per lasciare il campo
a incursioni squalliducce, velleitariamente
provocatorie, quasi sempre volgari, che si sono pressoché esaurite nel dare del
«frocio» a un omosessuale, nel mugugnare per l’odore di kebab nei nostri centri
storici e nel dichiararsi felicemente incompetenti dinanzi all’arte
contemporanea.
Se la critica al «politicamente corretto», insomma, era una
buona occasione per il pensiero conservatore, in Italia è stata sprecata
riducendola ad una forma intrattenimento che tradiva perfino il movente
liberatorio per insterilirsi in tic nevrotico. Questo, quando si trattava de Il
Foglio, per buttare un occhio alla stampa, perché con il Giornale o con Libero, si riusciva a scendere anche più
in basso. D’altra parte accade sempre così con quello che arriva dall’altra
sponda dell’oceano: si copia, ma male. E basta rileggere La cultura del
piagnisteo vent’anni dopo per fare una scoperta che tutto sommato è sconvolgente:
se «la nuova sensibilità decreta che i nostri eroi saranno solo le vittime»
(pag. 23), il ruolo spetta di diritto agli eroicomici disadattati alla
modernità, che dopo aver tentato invano la via del politically uncorrect come
momento di resistenza e di ribellione, possono dichiararsi perdenti, dunque
vincitori.
Ma pure Bergoglio: ' "L'ipocrisia è il linguaggio proprio della corruzione". I cristiani non debbono usare "un linguaggio socialmente educato", incline "all'ipocrisia", ma farsi portavoce della "verità del Vangelo con la stessa trasparenza dei bambini". '
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