Oltre a quelli già presi in considerazione (1, 2), Arturo Labriola ha un ultimo
argomento contro l’istituto referendario, che, se sul piano teorico è assai
meno forte rispetto agli altri, ha un’indubbia efficacia su quello pratico,
traendola dall’evidenza piana, sulla quale d’altronde ci siamo già soffermati,
che nella singola consultazione referendaria «ogni
giudizio di insieme sfugge», e non può che sfuggire, perché
l’elettore «non esamina i motivi che hanno determinato la
proposta»
o, per meglio dire, su essi non può esprimere un parere che connoti il valore
della scelta nell’ambito in cui essa è agita, ma neanche – abbiamo visto –
nell’ambito in cui essa è agente: di là dal quesito posto e dall’esito
della consultazione, sostiene Labriola, un referendum trascende sempre il
contesto generale entro il quale la questione che solleva si è venuta a porre,
quindi non si fa carico delle questioni di opportunità che sono implicitate dal
quadro politico generale, e che ne connotano i tratti.
In altri termini – e qui
mi auguro di non complicare troppo le cose nel tentativo di semplificarle – la questione sollevata dal
referendum ha sempre, almeno in potenza, i caratteri di un segmento
disarticolato rispetto al progetto che si presume lo includa: di là dal
quesito posto e dall’esito della consultazione, gli effetti generati da una
consultazione referendaria, talvolta ben prima che sia dato il risultato, sfuggono ai fini posti. Non solo, si badi bene, perché Labriola ritiene «inutile o dannoso» quanto è prodotto da un qualsivoglia strumento di democrazia diretta, ma anche perché sostiene che, quando «la mozione presentata si giudica per ciò che appare», l’eterogenesi dei fini è la regola.
Se anche così le ragioni di Labriola
rimangono poco chiare o comunque poco convincenti, non resta che ricorrere a un esempio. Suppongo sappiate che
i radicali stanno raccogliendo le firme per dodici referendum. Si tratta di due
pacchetti tematici (Cambiamo noi e Giustizia giusta) di sei quesiti ciascuno. Abrogazione del reato di clandestinità,
divorzio breve, libertà di scelta nella destinazione dell’8xmille, abolizione
della carcerazione per fatti di lieve entità relativi alla normativa sugli
stupefacenti e abolizione del finanziamento pubblico ai partiti politici sono i
sei quesiti del primo pacchetto, promosso da un comitato che ha
trovato impulso dall’iniziativa politica di Radicali italiani, uno dei
soggetti della cosiddetta «galassia». Il percorso che ha portato alla
decisione di indire questi sei referendum è estremamente complicato, come d’altronde
lo è tutto ciò che riguarda i radicali. Possiamo risparmiarci i dettagli, ma è
importante rimarcare un dato: Marco Pannella non li voleva, e per molteplici
ragioni.
In primo luogo, perché desiderava che le già esigue forze dell’area
non fossero disperse per altri fini che la battaglia per l’amnistia: in
pratica, temeva – e a ragione, come al momento dimostrano i risultati parziali
della raccolta delle firme – che l’impresa corresse il rischio di andare
incontro a un fallimento, con ovvie ripercussioni negative in termini di
immagine del movimento, già ampiamente logorata dalle scelte ambigue e
contraddittorie che ne hanno segnato il percorso negli ultimi vent’anni.
In
secondo luogo, le questioni sollevate da questi sei referendum «guardano a sinistra», e Pannella sa bene che una
qualsiasi intesa dell’area radicale con la sinistra, di cui la campagna
referendaria Cambiamo noi possa essere occasione, non può realizzarsi senza un
drastico ridimensionamento della sua leadership, per lasciar spazio – anche
solo un po’ di spazio – a chi da anni, contro la sua volontà, lavora in questo
senso.
Visto che i sei
referendum prendevano la loro via, la sua contromossa è stata la presentazione
degli altri sei quesiti referendari (separazione delle carriere in magistratura,
abolizione dell’ergastolo, limiti all’istituto della custodia cautelare,
responsabilità civile dei magistrati e rientro di quelli fuori ruolo nelle loro
funzioni). Temi che «guardano a destra»,
bilanciando gli altri sei, e dunque neutralizzandone i potenziali «effetti
indesiderati» sul piano della costruzione di eventuali alleanze politiche a sinistra. Di fatto, l’appoggio che poteva venire dalla sinistra al primo
pacchetto referendario è andato riducendosi via via che a destra andava
maturando, anche se in modo surrettizio e con evidenti fini strumentali,
l’appoggio al secondo. È così che per un osservatore neutro come il Financial Times i referendum «initially sponsored by Radical party» sono diventati i punti di una «reform of the Italian justice system» voluta dal Pdl.
È che, nel loro insieme, i dodici quesiti sono coerenti solo al di fuori di ogni logica di opportunità che sinistra e destra sono tenute a osservare nella corrente serie di contingenze che caratterizzano l’attuale quadro politico: se mai si riuscisse a raccogliere per tutti e dodici le firme necessarie, se tutti e dodici superassero il vaglio della Corte Costituzionale, se per tutti e dodici si avesse un responso positivo dalle urne e se quanto abrogano delle vigenti normative non trovasse modo di rientrare dalla finestra dopo essere uscito dalla porta – ipotesi del tutto aleatorie, anche senza voler recepire gli argomenti di Labriola, che peraltro trovano rispondenza in ciò che è accaduto per tanti esiti referendari in Italia – ci troveremmo dinanzi a dodici segmenti di un programma liberale. Continuerebbero a non avere l’articolazione che è propria di un programma, ma non perderebbero coerenza. Di fatto, sono nati per opportunità incoerenti tra di loro e ne pagano le conseguenze sul piano delle opposte opportunità che incontrano nell’odierno quadro politico italiano.
Conviene firmarli? Se si è ingenui, sì, tutti. Se si è cinici, solo alcuni. In entrambi i casi, si sarà data ragione a Labriola. Anche senza averne coscienza.