lunedì 12 maggio 2014

Un quarantennale festeggiato con quattro anni di ritardo


Quando in Italia non era ancora possibile divorziare, si poteva già farlo in Inghilterra, dal 1871, in Svizzera, dal 1874, in Germania, dal 1875, in Francia, dal 1884, in Portogallo, dal 1910, in Norvegia e Unione Sovietica, dal 1918, in Svezia e in Grecia, dal 1920, in Islanda, dal 1921, in Danimarca, dal 1922, in Turchia, dal 1926, in Finlandia, dal 1929, in Austria, dal 1938, almeno da vent’anni anche in Belgio, in Olanda, in Lussemburgo, negli Stati Uniti e in Messico, almeno da dieci anche in Giappone, in Australia, nella quasi totalità dei paesi del Sudamerica e dell’Est europeo. Quanto era ineluttabile che prima o poi anche in Italia dovesse diventare possibile?
Superfluo rilevare che l’ineluttabile sia tale solo a posteriori, mentre a priori è solo una previsione fatta in base a un certo calcolo. Possiamo, allora, riformulare la domanda in altri termini: quanto era azzeccato il calcolo di chi pensava fosse ineluttabile che prima o poi anche in Italia sarebbe stato possibile divorziare? Favorevole o contrario che fosse, diremmo avesse visto giusto, e tuttavia la sua non era che una previsione.

Nel caso non si abbiano obiezioni a quanto fin qui detto, ci è lecito porre un’altra domanda: quali elementi concorrevano alla base di quel calcolo? Senza dubbio, e in primo luogo, direi vi fosse il constatare che in gran parte del mondo qualcosa avesse irrevocabilmente messo in discussione il principio dell’indissolubilità del vincolo matrimoniale. In secondo luogo, che quel qualcosa avesse forza destinata, prima o poi, a rimuovere quel principio anche dalle legislazioni che ancora lo facevano proprio, tra le quali quella italiana. Ciò che il calcolo dava come ineluttabile, dunque, era la presa d’atto della raggiunta insostenibilità di un principio fin lì ritenuto sostenibile: calcolo che dava ineluttabile l’introduzione del divorzio anche in Italia nella presa d’atto che, anche se in ritardo rispetto a tanti altri paesi, anche qui era entrato in crisi quel sistema di valori in cui l’indissolubilità del matrimonio era un pilastro.

Un ulteriore passo nel tentativo di comprendere quanto potesse essere evidente questa crisi, almeno a chi, favorevole o contrario all’introduzione del divorzio anche in Italia, azzeccava il calcolo che sarebbe stato ineluttabile, può essere fatto col constatare che al fondo delle opposte argomentazioni tra i favorevoli e i contrari v’era una questione già risolta a vantaggio dei primi: con l’introduzione del matrimonio civile il vincolo tra i coniugi era destinato a perdere il carattere sacramentale per assumere quello contrattuale, con tutto ciò che era implicito per le immancabili clausole di scioglimento.
In pratica, si verificava quel che per altri versi sarebbe accaduto, prima, con l’abrogazione della norma che dichiarava il cattolicesimo «Religione di Stato» e poi, con la revisione del Concordato del 1984, con l’assunzione del principio, in molto ancora inapplicato, che tutte le confessioni religiose godono di eguale considerazione dallo Stato laico. In ciò diremmo che il calcolo che dava come ineluttabile l’introduzione del divorzio nell’ordinamento legislativo italiano era basato sull’assunto di un inevitabile processo di secolarizzazione della società.

Ciò detto, occorre aver presente che l’umano ha a disposizione una ridotta gamma di reazioni a ciò che sente ineluttabile ma indesiderato, le più comuni delle quali sono (1) l’opporvisi, anche se sa che è vano, o (2) il lasciar che accada, cercando di farsene una ragione: reazioni opposte, ma che prendono le mosse da un eguale risultato del calcolo d’ineluttabilità. Altre due hanno segno diverso, ma manifestano lo stesso stato d’animo verso quel che solo a posteriori si rivelerà ineluttabile nei sensi e nei modi previsti da un opposto risultato del calcolo, e sono (3) l’opporvisi, ritenendo che l’ineluttabile sia evitabile, e che dunque ineluttabile non abbia ad essere, o (4) lasciar che accada, tentando di dare all’ineluttabile senso e modo diversi da quelli prospettati dal più pessimistico dei calcoli.
Tutte queste reazioni sono rintracciabili alla vigilia del varo della legge n. 898 del 1° dicembre 1970. Quando quattro anni dopo si andrà al referendum che ne propone l’abrogazione sono già tutte fuori gioco.

Fu la sensazione dell’ineluttabilità della secolarizzazione della società italiana a sospingere verso l’approvazione del disegno di legge presentato in parlamento dal socialista Fortuna e dal liberale Baslini: il referendum che sarebbe seguito di lì a quattro anni si sarebbe limitato a rendere evidente che era trasversale ai partiti politici e maggioritaria.
Per il clima culturale dell’epoca era sensazione che si esprimeva in termini sociologici: «L’indissolubilità del matrimonio – scriveva Alberto Carocci su un numero di Nuovi Argomenti del 1968 – e il conseguente rifiuto dell’idea del divorzio furono il frutto di una particolare società quale fu quella basata su una economia interamente contadina. È del tutto evidente che le società che per prime si sono trasformate in società industriali non potevano che voltare le spalle a una simile concezione della vita matrimoniale; ed è altrettanto ovvio che le società, come quella italiana e quella spagnola, che hanno conservato il carattere di società fondamentalmente contadine, abbiano conservato a lungo e ancor oggi conservino le norma legali anti-divorzio che furono loro proprie. Ma oggi, con la trasformazione che è in atto, quelle vecchie norma si rilevano inadeguate e in definitiva immorali». In altri termini: ogni società regge su un sistema di valori morali e quella odierna è giocoforza costretta a cambiarlo. E a ben vedere la secolarizzazione era già esplicita nell’assumere i valori morali a prodotto della società, invece che a norme eterne.

Ma era esplicita anche in chi assumeva che, nel varare una legge in contraddizione con valori morali equivalenti a norme eterne, la società venisse a scardinarsi: «Istituire il divorzio in Italia – scriveva, per esempio, Carlo Sirtori – significa capovolgere un mondo che ha le sue tradizioni, i suoi difetti, ma anche i suoi dati positivi. Significa accettare supinamente ciò che altri hanno motivatamente deprecato. Significa prepararsi il peggio aspettando il meglio». Il che dà ampio margine a considerare che «difetti» e «dati positivi» di «un mondo» possano mutar di peso al punto da indurre, seppure in base a un calcolo ritenuto errato, a cercare norme che li riequilibrino: è l’ammissione che i valori morali sono meri fattori di equilibrio in difesa delle «tradizioni», e con ciò la norma morale è anche qui immanentizzata. 

[segue]    

1 commento:

  1. In Italia la legge sul divorzio fu varata solamente nel 1970 perché 57anni prima i liberali giolittiani e i cattolici che obbedivano alla linea politica del Presidente pro tempore dell'UCI (acronimo per Unione Cattolica Italiana) presieduta dal Conte Ottorino Gentiloni, strinsero un patto politico elettorale antisocialista, per mezzo del quale i cattolici avrebbero votato nei collegi elettorali i candidati liberali giolittiani, purché il parlamento non presentasse alla Camera disegni di legge che colpissero gli interessi dei cattolici: tra questi, vi era anche un disegno di legge sul divorzio proposto già nel 1901 da Giuseppe Zanardelli.
    La proposta Zanardelli non fu mai approvata in Parlamento e i cattolici gentiloniani riuscirono nell'impresa di affossarla definitivamente, grazie al patto elettorale stipulato con Giolitti che impedì di fatto all'Italia di avere una moderna legge sul divorzio.
    Il patto Gentiloni fu il primo caso d'ingerenza cattolica nella vita civile del nostro paese, che segnò di fatto la fine del non expedit e che determinò come conseguenza politica, l'inizio della fine dell'egemonia politico-culturale dei liberali nel nostro paese e dell' anticlericalismo di tradizione crispina. Non a caso i massoni appartenenti all'area radicale che appoggiavano la politica giolittiana, ne presero le distanze e contribuirono alla caduta del quarto ministero presieduto da Giolitti.

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