Una seria analisi sulla natura e ancor più sulla reale efficacia dell’istituto referendario porta inevitabilmente ad esserne assai scettici. Questo, però, è impossibile in Italia, perché la pubblicistica relativa al referendum sul divorzio e a quello sull’aborto hanno creato il mito di una democrazia diretta in grado di essere un più che valido correttivo di quella rappresentativa, quasi che la possibilità di divorziare e quella di abortire siano uscite dalle urne refendarie del 1974 e del 1981 piuttosto che da due leggi ordinariamente licenziate dal Parlamento nel 1970 e nel 1978, che in realtà i promotori dei due referendum si proponevano di abrogare.
Spiegando come ero giunto a maturare il mio scetticismo sull’istituto referendario, sette o otto anni fa su queste pagine citai ampi stralci tratti da tre articoli a firma di Arturo Labriola apparsi su Critica Sociale tra il 1897 e l’anno successivo, dai quali avevo mosso i miei passi. Oggi vorrei riproporne un brano per invitare il mio lettore all’ascolto di un convegno che per titolo aveva Dopo il referendum: legislazione elettorale, bicameralismo, regolamenti parlamentari, tenutosi lo scorso 28 settembre presso l’Università La Sapienza, a Roma: «Nei sistemi in cui accanto alla legislazione diretta sta il Parlamento – scriveva Labriola – la forza militare dello Stato, il potere esecutivo e la burocrazia dipendono soltanto dalle Camere dei rappresentanti. Senza dubbio queste, se vogliono, possono accettare il voto popolare, ma, se non vogliono, possono vittoriosamente resistervi».
A sostegno di questa tesi, si pensi al referendum sull’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti politici che si tenne nel 1993 e dove il sì ottenne il 90,1%: sotto forma di rimborso elettorale e di finanziamento pubblico ai rispettivi organi di stampa, dall’erario continuò ad affluire denaro alle casse dei partiti politici. Un altro esempio? Quello del referendum sulla responsabilità civile dei magistrati, tenutosi nel 1987: l’80,2% degli aventi diritto al voto si pronunciò a favore, ma il risarcimento dovuto a chi è stato vittima di un errore giudiziario continua ad essere pagato dallo Stato, non dal giudice che lo ha condannato. Perché porgere orecchio, allora, alle voci di chi è intervenuto al suddetto convegno? Perché credo che illustri a dovere in qual modo si possa pretendere di voler «vittoriosamente resistere» agli esiti di un referendum, che, in questo caso, è quello costituzionale dello scorso 20-21 settembre, relativo alla riduzione del numero dei parlamentari, dove il sì ha prevalso con il 69,9% dei voti. Non si prenda in considerazione, dunque, la tattica studiata per «resistere», ma le ragioni che giustificherebbero la «resistenza», in tutto e per tutto simili a quelle di chi sosteneva il no, segno evidente di quanto non possa essere bastato l’esito referendario a chiudere la questione: la maggioranza degli italiani le ha rigettate, certo, ma esse sono considerate ancora valide nel motivare un tentativo di vanificare il risultato del voto. Con una ragione in più, però, perché in due o tre degli interventi è fatto esplicito riferimento al quasi 30% dei voti andati al no come a un partito in grado di sostenere la «resistenza».
Il risultato del voto del 20-21 settembre, insomma, avrebbe una validità solo transitoria, in attesa di vanificarne – sostanzialmente, se non formalmente – gli esiti. Paradossalmente, poi, è la natura stessa del quesito referendario ad essere considerata motivo valido a mettere in discussione il risultato: paradossalmente, perché il quesito è stato posto agli aventi diritto al voto con la formulazione voluta proprio dai promotori del referendum che per finalità avevano l’abrogazione di una riforma costituzionale varata dal Parlamento a stragrande maggioranza. In tutta evidenza, siamo dinanzi a un gruppo di individui – parlamentari e docenti universitari, per lo più – che senza dubbio «non vogliono accettare il voto popolare», e studiano il modo di «vittoriosamente resistervi».
Aggiungerei "vittoriosamente resistere attraverso leggi truffa" come negli esempi portati. A questi signori direi: "testine, volete farvi una ragione del fatto che avete perso"? O ci mettiamo a mettere in discussione ogni risultato elettorale"?
RispondiEliminaCadute le ultime ideologie del '900 il processo decisionale della maggioranza degli elettori che esercitano il diritto di voto (che stanno diventando sempre più minoranza) è la seguente:
RispondiElimina1) Sceglie la persona che più gli sta simpatica (non la più competente)
2) Associa al suo nome il simbolo del partito di cui è solitamente il "leader"
3) Croce sul simbolo infischiandosene bellamente sia dei programmi che della classe dirigente che sta dietro al bellimbusto di turno
Questo sistema è talmente oleato che ogni nuovo partito ne viene prima sedotto per poi subirne le spietate regole che ne determinano in breve tempo la morte prematura dopo qualche anno di vana gloria comiziale.
Con questo sistema di scelta della classe politica è lampante che il patto di fiducia tra gli eletti e gli elettori non può esistere sostituito dalla contrapposizione di interessi. I primi, una volta raggiunto il parlamento se ne "impossessano", fanno comunella nei corridoio del transatlantico, trasformano il mandato legislativo in lavoro a vita. I secondi, invece, si pentono prestissimo della scelta fatta, ne contestano ogni atto concreto e molto spesso rispolverano la vecchia arma del referendum quando la disperazione ha superato l'ottimismo del futuro.
In questo clima di totale sfiducia come può avere una minima speranza di riuscita uno strumento di democrazia diretta?