martedì 27 ottobre 2020

Cose così

 

Qualche anno fa, su queste pagine, ho scritto che «grattarsi il culo è operazione che implica il movimento combinato di almeno tre dozzine di muscoli, dal cingolo scapolare alle punte delle dita, e l’attivazione di almeno sette aree neuronali, tra corteccia motoria, cervelletto e gangli della base», ma che, «per grattarselo, non c’è bisogno di conoscere tutto il complesso meccanismo che coordina le fasi dell’operazione, né che a conoscerlo ce lo si gratta meglio», e che lo stesso accade «con certi mezzucci retorici, che, volgari quanto grattarsi il culo, non hanno minore complessità, di cui tuttavia non c’è bisogno di aver piena comprensione per farne uso, perché quasi sempre vengono impiegati come risposta immediata ad uno stimolo cogente, d’impulso, con lo stesso automatismo che porta la mano al culo, quando prude» (Grattarsi il culoMalvino, 19.11.2014).

Introducevo a questo modo il commento a un post col quale Mario Adinolfi lamentava l’intolleranza di cui era stato fatto oggetto nel corso di un talk show andato in onda il giorno prima su La7: in sostanza, il pubblico in studio aveva sollevato vivaci obiezioni a certe sue affermazioni di schietta impronta omofoba, e la cosa lo aveva indignato. Avrei potuto introdurre il commento in altro modo, non c’è dubbio, ma ricorrere a Karl Popper per il concetto di «paradosso della tolleranza», a Chaïm Perelman per quello di «dissociazione delle nozioni» e a Otto Kernberg per quello di «vittimismo aggressivo», per Mario Adinolfi, francamente, mi sembrava uno spreco. Confesso, tuttavia, di essermi pentito più di una volta per aver liquidato in modo così superficiale una questione che invece avrebbe meritato una ben più seria riflessione.

L’uso istintivo di certi mezzucci retorici, infatti, solleva una serie di problemi assai più rilevanti di quelli sollevati da un loro uso consapevole e intenzionale, primo fra tutti proprio quello di dover stabilire, caso per caso, se esso sia istintivo o no. Caso per caso, dico, perché un mezzuccio retorico può scappare a chiunque, anche a chi in buona fede si dichiari acerrimo nemico di ogni fallacia argomentativa. D’altronde capita possa scappare perfino a chi si impanca a maestro di retorica come il Gianrico Carofiglio, che, nel corso di una puntata di Ottoemezzo andata in onda qualche settimana fa, giustappunto a un mezzuccio retorico è ricorso per difendersi dall’accusa di «cattivo gusto», mossagli da Alessandro Sallusti, per un tweet in cui aveva scritto che vedeva «una giustizia poetica» nel fatto che Donald Trump si fosse ammalato di Covid-19: «Quando io sento il direttore Sallusti parlare di cattivo gusto – ha detto – mi arrendo, perché so che è un esperto», ricorrendo così a una fallacia del tipo ad hominem tu quoque che poteva ardire a presentarsi come risposta decente solo per il piatto di presunzione di superiorità morale sul quale era servita. Ma di questa presunzione di superiorità morale, che ormai sembra essere il solo tratto distintivo certo della sinistra italiana, ho già detto l’essenziale nel precedente post, qui basti solo ribadire che è sentita – direi vissuta – come un privilegio che risparmia dal dover essere giudicati con lo stesso metro che si ritiene sia adeguato a condannare chiunque non faccia parte della eletta casta dei più buoni e dei più onesti per definizione, e cioè – ça va sans dire – loro. Se la cosa è appariscente soprattutto per i suoi tratti comici, messi in evidenza già oltre vent’anni fa dalla penetrante arguzia del Giorgio Gaber de Il potere dei più buoni (Un’idiozia conquistata a fatica, 1998), non vanno trascurati quelli tragici, lucidamente analizzati, qualche anno dopo, dal Luca Ricolfi del Perché siamo antipatici (Longanesi, 2005): «io sì che la so lunga», «tu non devi parlare come vuoi», «tu non puoi capire», «noi parliamo alla parte migliore del paese».

Ecco perché il problema di stabilire quanto sia istintivo o meno l’uso di un mezzuccio retorico ne pone subito uno anche più grosso, che è quello di definire cosa, in quest’ambito, debba intendersi per «istinto», data l’estrema ambiguità del termine quando non è specificato in quale contesto cada: senza dubbio, come si può dire dell’«istinto» in generale, si tratta di un impulso che sfugge alla ragione e alla volontà. Questo, d’altronde, l’avevamo già dato come implicito con l’affermare che un mezzuccio retorico «può scappare a chiunque». Se, tuttavia, questo sgombra il campo dal pregiudizio morale che fa di ogni colpa un dolo, di ogni errore un peccato, di ogni ignoranza una nequizia, non resta comunque da chiedersi cosa sia a renderlo tanto più frequentemente sfuggevole proprio alla ragione e alla volontà che nella presunzione di superiorità morale si fanno certe di essere impeccabili? Ponendo la questione in termini assai più prosaici: con quale faccia di culo si può pretendere di essere moralmente superiori a chiunque non faccia parte della suddetta casta dei più buoni e dei più onesti, quando i soli argomenti portati a prova si rivelano infarciti di mezzucci retorici, e nemmeno dei più fini?

Vorrete un esempio, suppongo. Bene, prendete il Mantellini, che della presunzione di superiorità morale della sinistra italiana è un campioncino. Scrive che «uno degli aspetti maggiormente deprimenti di una situazione [quella della «crisi legata al coronavirus»] che già nasce difficilissima e che ha visto sgretolarsi ogni solidarietà e spirito di comunità di fronte agli interessi contrapposti» è «la ridicola, deontologicamente grave e per molti versi patetica, quotidiana contrapposizione sui media fra la pattuglia dei medici che sottolineano la gravità della pandemia e quelli che invece la minimizzano». A una lettura disattenta, sulla quale sarebbe malizioso credere che egli abbia voluto contare, la sensazione è quella di trovarci dinanzi a persona mite ed assennata, seria ed equilibrata, tanto-tanto-tanto responsabile e, soprattutto, con un altissimo senso del bene comune. Lo si legge, insomma, e in sottofondo si sente il Gaber che canta: «La mia vita di tutti i giorni / è preoccuparmi di ciò che ho intorno: / sono sensibile e umano, / probabilmente sono il più buono. / … / Ogni tragedia nazionale / è il mio terreno naturale, / perché dovunque cè sofferenza / sento la voce della mia coscienza...», eccetera. Continuando a metterci la dovuta disattenzione, il testo sembra peraltro vibrare di una intensissima passione civile, che arriva addirittura a commuoverci nel punto in cui si prende atto con dolente amarezza che la beluina «contrapposizione politica» ha dato il più emblematico «segno della corruzione dei tempi» nellessere riuscita a «coinvolg[ere] così direttamente la categoria medica». Così, giacché è anche medico (quando tutto il resto glielo consente), il Mantellini sembra offrirsi a noi doppiamente ferito, e dunque doppiamente bisognoso del balsamo della nostra calda simpatia: da cittadino al di fuori (se non addirittura al di sopra) della contrapposizione politica e da medico che rispetta quanto detta il Codice di Deontologia Professionale riguardo al «reciproco rispetto» tra colleghi (art. 58). Se alla lettura disattenta di questo post aggiungessimo non laver mai letto un tweet di Mantellini, saremmo sinceramente toccati. Questo, purtroppo, non ci è possibile, perché, finché non ci è costato troppo, i tweet di @mante li abbiamo letti e fin troppo spesso erano tuttaltro che al di fuori (tantomeno al di sopra) delle contrapposizioni tra le opposte fazioni politiche e le avverse opinioni cliniche. Insomma, robe del tipo «Salvini fa schifo», «perché continuano ad intervistare Zangrillo?», «governo di pericolosi incapaci». A dar fastidio, tuttavia, sia chiaro, non è tanto il fatto che il Mantellini sia un fazioso come se ne incontrano ad ogni angolo del web, perché a suo tempo Gaetano Salvemini ci convinse: «Noi non possiamo essere imparziali. Possiamo essere soltanto intellettualmente onesti: cioè renderci conto delle nostre passioni, tenerci in guardia contro di esse e mettere in guardia i nostri lettori contro i pericoli della nostra parzialità. Limparzialità è un sogno, la probità è un dovere». Quello che dà fastidio nel Mantellini – e qui torno all’incipit – è lostinazione a volerci fare una carezza con la stessa mano con la quale si è grattato il culo.

Quanto si è fuori (o al di sopra) della contrapposizione «fra la pattuglia dei medici che sottolineano la gravità della pandemia e quelli che invece la minimizzano»? Basta chiedersi se «minimizzare» non faccia più congrua dicotomia con «esagerare», «pompare», «drammatizzare», «esasperare». No, qui fa dicotomia con un «sottolineare» che, alla faccia del salveminiano «mettere in guardia i nostri lettori contro i pericoli della nostra parzialità», è un «segnalare», un «rilevare», un «evidenziare». Benedetta, allora, «la ridicola, deontologicamente grave e per molti versi patetica, quotidiana contrapposizione sui media» dei medici di opposta opinione sul Covid-19, che almeno prendono una posizione e se ne assumono per intera la responsabilità. Il Mantellini, no. Il suo mezzuccio retorico rivela che sta ben dentro la contrapposizione, ma, chissà perché (si fa per dire), ci tiene a dirsene fuori. Però rivendica il diritto di poter dir la sua, pretendendo abbia maggior autorevolezza di quella altrui «per via di una ormai trentennale frequentazione con la categoria», che impasta eufemismo e reticenza per porgerci, con quello che probabilmente ritiene sia garbo, il suo «io sono medico, sapete?, voi no». Questa è la chiave che dovrebbe aprirci la porta ai misteri della professione medica cui il Mantellini ci introduce: «Non fatevi ingannare dai titoli. Essere primario o professore, avere un lungo elenco di pubblicazioni su prestigiose riviste o essere il medico personale di famosi miliardari, non significa granché. Soprattutto in Italia, dove la carriera del medico esattamente come tutte le altre professioni intellettuali, è sottoposta a un percorso di selezione nel quale influiscono stabilmente variabili non esattamente edificanti. Non dico che chiunque raggiunga i piani alti della gerarchia medica sia arrivato da quelle parti attraverso percorsi – diciamo così – discutibili, ma ecco, capita molto più spesso di quanto non si pensi. Talvolta in cima alla piramide gerarchica in Italia c’è semplicemente il peggiore, il più cinico e senza scrupoli. Molto spesso no. Essere in cima alla piramide, insomma, non definisce niente». In parte è vero, ma in parte no. Diciamo che il discorso vale solo per la sanità pubblica: nel privato la selezione è affidata esclusivamente al mercato. Comunque è chiaro il senso che il Mantellini vuol dare al colpo al cerchio e al colpo alla botte: il fatto che il professor Zangrillo sia un primario non dice niente della sua preparazione, perché a quei livelli sia arriva «talvolta» anche se sei il peggiore, ma questa, però, non è la regola, come dimostra il fatto che anche il professor Galli è un primario. Certo, dire esplicitamente che Galli è persona degna e Zangrillo è una merda suonava male, e non sia mai, meglio insinuarlo, al resto pensi il lettore.

Tutta malafede? No, saremmo ingiusti nel liquidare il post del Mantellini a questo modo. Diciamo che accanto a una discreta dose di malafede ce nè una altrettanto grossa di superficialità, che deriva da un difetto assai più comune di quanto si creda nelle ultime infornate di maître à penser, che è il deficit dei fondamentali: la loro cultura è piena di buchi e le lacune più vistose sono proprio quelle che spiegano gli abissi di superficialità in cui spesso sprofondano le loro riflessioni. Nel caso del Mantellini che soffre a vedere in campo le opposte pattuglie di medici darsele di santa ragione, il deficit sta nel non riuscire a comprendere che in gioco non ci sono solo vanità e ripicche. Per meglio dire, la contrapposizione non è tra persone, ma tra ruoli, perché in campo, in realtà, non ci sono due pattuglie di medici, ma una pattuglia di ricercatori ed una di clinici: lo scontro non è tra cauti e temerari, ma tra le ragioni che da sempre oppongono ricerca scientifica e pratica clinica. Ragioni che sono antichissime. Al Mantellini basterebbe aprire lEtica Nicomachea al settimo capitolo del primo libro per trovarle in nuce: «Un costruttore e un matematico indagano in maniera diversa langolo retto, cioè luno studia langolo retto solo per quanto è utile alla sua opera, laltro indaga cosa esso sia o quali siano le sue determinazioni» (1098a, 50). Ovviamente non si può pretendere che il Mantellini legga Aristotele, non ha tempo: twitta, fotografa nuvole e tramonti, trolla la Ferragni... Cose così.

12 commenti:

  1. Mi ha ricordato i tempi del Metitieri, tanti anni fa. Era bellissimo leggere le risposte di Fabio ai post del Mantellini, trollandolo in maniera superba.

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  2. scusa il mezzuccio retorico: mecojoni!

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  3. Se lei prendesse l'impegno di scrivere un post al mese su Mantellini, io credo che in molti saremmo lieti di tassarci per compensare lo sforzo.

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  4. ˜È di una banalità Mantellini, solo che fintanto che la banalità paga ci si sente gratificati e comodissimi nel proprio conformismo, fino a ritenerlo appropriato stile di vita.

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  5. Sempre un piacere leggerti, anche dopo tanti anni.
    Ugolino Stramini

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  6. The fool or the scholar?mercoledì, 28 ottobre, 2020

    Un po' cattivello l'inciso "quando tutto il resto glielo consente", soprattutto se il medico in questione esercita presso struttura AUSL.

    Non sono particolarmente d'accordo sulla sua dicotomia tra clinici e ricercatori. Zangrillo e Bassetti rientrano nella prima categoria, giusto? Ma da una ricerca superficiale su motore di ricerca specializzato, risultano avere entrambi un H-index superiore sia a Galli che a Burioni. Bassetti (come Burioni) ha pure un dottorato. E Galli è direttore di struttura ospedaliera.

    Da profano ed esterno al campo medico, mi pare più in generale di capire che i confini tra le due categorie del "practitioner" e dello "scholar" siano più sfumate che in altre discipline.

    Trovo più corretta la ricostruzione di un account twitter che adesso non ricordo: è in corso uno scontro di idee tra personalità che credono di avere in tasca la verità. Ed è un problema molto moderno, esacerbato dalla struttura delle discussioni online, che andrà prima o poi affrontato.

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  7. Il quinto capoverso mi ricorda il commento rilasciato anni fa sui social da una militante di sinistra residente in un comune, che qui chiamerò Cutrezzola, quando apprese che il di lei favorito alle primarie del suo partito per la candidatura a Sindaco era stato fragorosamente battuto: "Ha vinto la Cutrezzola peggiore".
    Stia bene, sempre utile passar di qua.
    Ghino La Ganga

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  8. Ma al di là dell'Etica Nicomachea e dei diversi approci non trova irritante che parlando di un fenomeno così complesso e poco conosciuto quelli che dovrebbero essere uomini di scienza invece di esporre opinioni ed ipotesi enuncino degli assiomi, spesso trattando chi ha una opinione differente con lo stesso spregio con cui un astronomo tratterebbe un terrapiattista?

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    1. Perfettamente d'accordo con lei, ma democrazia e divulgazione scientifica vanno a braccetto, e non si può negare agli uomini di scienza di essere innanzitutto uomini. Ora, quando si fa divulgazione, i dati di rilievo scientifico sono giocoforza metaforizzati, così soggiacendo alle leggi della rappresentazione e la rappresentazione è teatro, vive di dialettica, e quindi di opposti che possono darsi solo in dramma. In altri termini, nella divulgazione l'interezza della complessità del dato scientifico dà vita a dramatis personae che ne interpretano i vari aspetti. Le faccio un esempio attinente alla teologia. Come spiegare ai villici la Trinità? Con un affresco in cui Padre, Figlio e Spirito Santo sono giocoforza rappresentazioni distinte e per certi versi insussumibili, perché un vegliardo barbuto, un trentatreenne con mani e piedi bucati e una colomba bianca sono altre cose che "una sola complessa cosa". Così, la sola complessa cosa del Covid-19 è - insieme - il virus Sars-CoV-2, ma anche il suo diverso comportamento da soggetto a soggetto: è virologia, ma è anche clinica; è problema molecolare, ma anche epidemiologico; è questione da risolvere sul piano clinico, ma anche su quello sociale. Un altro esempio: pensi al trapianto d'organo. Lei deve un luogo in cui l'immunologo e il chirurgo convergano, e non è escluso che lì, nel caso in cui i pazienti bisogni di un rene siano 5 e il rene a disposizione sia 1, deve chiamare anche il politico e il filosofo morale, aspettandosi che a dire la propria vogliano essere anche i 5 pazienti e i loro parenti. Come pretendere che tutto sia lineare e univoco?

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    2. Ho capito che forse sono io che idealizzo l'uomo di scienza.
      Probabilmente in casi come questo, molto controverso, multidisciplinare e giocoforza fin troppo esposto dal punto di vista mediatico è quasi inevitabile che l'uomo prenda il sopravvento sullo scienziato.

      Ma per quanto prenda il sopravvento continuo a stupirmi di toni e atteggiamenti esagerati.
      A scandalizzarmi della totale incapacità di autocritica rispetto alle opinioni espresse (anzi agli assiomi enunciati) poche settimane se non giorni se non ore prima.

      La diatriba assume più il profilo di un confronto religioso che scientifico, con l'aggravante che quello che ieri era il più feroce iconoclasta domani dichiarerà di essere sempre stato il più fedele iconodulo e viceversa.

      Non le faccio i nomi, ma nelle posizioni di una buona parte dei cosiddetti o sedicenti "luminari" abbiamo trovato orzate e strambate quasi quotidiane, sempre con il massimo dell'entusiasmo e dello zelo e con una faccia tosta esemplare.

      Il danno è che chi non è addentro alle mille materie finisce per farsi l'opinione che quello che dicono "gli scienziati" valga tanto come l'opinione della signora che è diventata famosa strillando "non ce n'è coviddi!" o di quello che dice che "con il vaccino ti iniettano sostanze che attiveranno con il 5G" o la signora che afferma sicura di se che quando ti fanno il tampone "ti rompono la membrana" e poi muori.

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  9. È utile fare chiarezza su un punto: il compito dello scienziato è quello di trasmettere e accrescere il sapere scientifico non quello di dare indicazioni su come usare tale sapere. Per esempio un oncologo non ha maggiori titoli dell'uomo della strada nello stabilire se e in quali circostanze vietare il fumo, né un ingegnere meccanico ha titoli particolari nello stabilire i limiti di velocità stradali. Dunque Galli, Zangrillo ed altri quando parlano del covid non lo fanno come scienziati ma come influenzer. È una cosa che personalmente ho sempre dato per scontata.

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