Di chi eccelle nei vari campi delle scienze naturali e di quelle umane (sospendendo, qui, la questione se queste ultime siano davvero scienze) si potrebbe dire che ha bravura, capacità, perizia, professionalità, ma da qualche tempo si preferisce dire che ha competenza, e la cosa non è tutta italiana, perché anche nella lingua oggi più parlata al mondo si preferisce dire che è competent piuttosto che able, capable, capacious, adept, expert, experienced, qualified o conversant. C’è un motivo che spiega questa scelta lessicale? Probabilmente sta nel fatto che competere ha altre tre accezioni oltre a quella che fa della competenza l’abilità che si può trarre da un idoneo bagaglio cognitivo e da una specifica esperienza: competere, infatti, vuol dire anche misurarsi, concorrere, lottare, contendere; in più, ciò che mi compete è anche ciò che mi spetta in termini di riconoscimento della legittimità del ruolo; ciò che mi spetta, però, è anche spettanza, e cioè compenso, onorario, parcella, provvigione. Chi è competente, insomma, non è soltanto un esperto, ma anche uno che deve misurarsi con altri contendenti per arrivare a conquistare una prerogativa relativa a un merito, da cui consegue di diritto un privilegio.
Chiarito questo, dovrebbe essere evidente il contesto in cui si muove il competent rispetto al semplice capable: è quello del mercato delle esperienze professionali dal quale la società è giocoforza tenuta ad attingere allo scopo di risolvere i problemi che le sono posti dalla necessità di dare risposta ai bisogni individuali e collettivi. Ne risulta che non è possibile alcuna considerazione relativa alla competenza dei competenti astraendosi dalle politiche che la società adotta riguardo a questi bisogni. Ovviamente, qui, società è sineddoche: sono i ceti dirigenti di una società che decidono le politiche relative ai bisogni individuali e collettivi, e che dunque dettano le norme che regolano il mercato delle competenze e, in ultima analisi, a decidere chi è competente e chi no.
Non c’è da stupirsi, allora, che a una messa in discussione del ruolo svolto dai ceti dirigenti di una società, che è un dato pressoché costante ogni qual volta la risposta ai bisogni individuali e collettivi non sia adeguata, si accompagni una messa in discussione dei competenti che sono sul loro libro paga. È altrettanto evidente perché non sia solo il loro ruolo ad essere messo in discussione, ma la loro stessa competenza, che per quanto si è fin qui detto, non può essere considerata avulsa dalle logiche che hanno favorito un esperto rispetto a un altro, promuovendo a competente l’uno, e l’altro no.
È una imperdonabile ingenuità, infatti, quando non è sfacciata malafede, sostenere che il sapere possa essere politicamente neutro. Ne abbiamo già parlato su queste pagine qualche anno fa, in occasione della ristampa de Il tradimento dei chierici di Julien Benda (Einaudi, 2012). In questo libro, uno dei tanti che sono più citati che letti, si denuncia la recente compromissione dell’intellettuale col potere politico (il testo è del 1927 e Benda scrive che la cosa ha preso piede «da cinquant’anni a questa parte»), che sarebbe da considerare come una vera e propria trahison, perché, quando è comme il faut, l’intellettuale «non persegue fini pratici, ma, cercando soddisfazione nell’esercizio dell’arte o della scienza o della speculazione metafisica, in breve nel possesso di un bene non temporale, dice in qualche modo: “Il mio regno non è di questo mondo”». L’intellettuale comme il faut, qui, non è competente: sta fuori da ogni competizione indetta dal regno di questo mondo, ciò che gli spetta è la sola soddisfazione personale. Assumendo che buono, vero e bello trovino assoluto nel trascendente, filosofo, scienziato e artista hanno funzione ieratica, attendono al sacro ufficio di pontefices che letteralmente costruiscono ponti tra trascendenza e immanenza.
In realtà, sappiamo, il sapere nasce già compromesso col potere, e questo vale per tutte le accezioni dei due termini. In quale epoca della storia umana il sapere non si è fatto strumento del potere? E come potrebbe essere altrimenti, visto che l’intellettuale, al pari di ogni altro individuo, è un prodotto sociale anche quando assume assume connotati antisociali? Pare evidente, allora, che stupirsi – e, ancor più, indignarsi – perché le competenze dei competenti sono messe in discussione nei momenti di crisi riveli una fede nella trascendenza di buono, vero e bello, nel filone che da Platone arriva a Hegel, e purtroppo non s’arresta lì: solo immaginando che filosofo, scienziato e artista ne siano i sacerdoti diventa scandaloso che essi siano messi in discussione, e con essi le loro competenze. Noi sappiamo, invece, che buono, vero e bello (morale, dati scientifici e canoni estetici) sono prodotti sociali, legati indissolubilmente alla storia di una società, e non sono superiori o antecedenti all’uomo, né in lui connaturati come universali ed eterni: sono sempre dimostrabilmente relativi, transitori, funzionali alla difesa di un interesse che da particolare è riuscito a imporsi come generale in un determinato luogo, in un determinato arco di tempo, per un determinato numero di individui. Questo ci consente di non considerare scandaloso che la competenza sia messa in discussione: quando accade, non sentiamo venir meno il reverenziale rispetto che si deve a un dio, ma la capacità di controllo sulla società da parte dei suoi ceti dirigenti.
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