Non
entrerò nel merito della questione greca, mi limiterò a considerare
solo un dettaglio che ricorre con insistenza in tutto il gran parlarne, e mi
riferisco al costante richiamo a ciò che la Grecia antica ha dato
all’umanità.
Avevo messo da parte un lungo elenco di citazioni tratte dalla stampa
nazionale e da quella estera che pensavo offrissero un esauriente campionario dei modi coi quali a tale richiamo è stata fin qui
conferita, più
o meno esplicitamente,
la pretesa
di avere forza di un vero e proprio argomento, che peraltro si vorrebbe incontestabile, in favore delle ragioni della Grecia odierna.
L’intenzione – l’avrete intuito – era quella di aprire il
post con la lista di debiti che l’Europa avrebbe nei confronti
della Grecia antica e che in qualche modo pareggerebbero il conto con
quelli che la Grecia odierna ha nei confronti dei suoi creditori
europei, o almeno dovrebbero alleggerirlo di molto. Non sono riuscito
più a trovare questa miscellanea, ma fa lo stesso, suppongo abbiate
capito di cosa stia parlando: Socrate, Platone, Pericle, tutte le
parole che hanno un etimo greco, lo stesso nome di Europa, tratto
dalla mitologia ellenica.
Bene, vorrei dire che a mio modesto avviso
questo argomento vale meno di una dracma bucata: i greci d’oggi non
hanno nulla a che vedere coi greci di venti o di venticinque secoli
fa, sicché è risibile pretendere che Omero, Aristotele o Euclide
tornino a saldo di ciò che Atene deve al Fondo monetario
internazionale o, peggio, che chi ha liberamente sottoscritto degli impegni al momento di entrare nella Comunità Europea abbia il diritto di
chiedere e trovare deroghe ad essi in forza dell’assunto che, se la Grecia
non ne facesse parte, l’Europa sarebbe costretta a non potersi dire
depositaria, come d’altronde lo è tutto il mondo, del patrimonio
di arte, cultura e pensiero che trovarono luce nell’Ellade di
Sofocle, Prassitele e Platone. A me pare – e mi scuso con chi
dovesse sentirsene offeso – che tentare di dar forza di argomento a
questa peroratio
comporti l’assunzione dei tratti sciovinisti coi quali è stato
costruito il personaggio di Kostas Portokalos in My
Big Fat Greek Wedding
(Joel Zwick,
2002) o, peggio, di chi fra le rovine di un glorioso passato non
trova niente di meglio da ribattere a chi gli rimprovera di limitarsi
a parassitarlo che, «quando
i tuoi antenati vivevano aggrappati agli alberi, i nostri erano già
froci».
Rilevante, tuttavia, che a tale assunto si faccia ormai ricorso assai meno in Grecia che fuori, come se un paese riuscisse a pretendere che il proprio passato remoto abbia un valore corrente solo fino a quando la durezza di una crisi economica non ne riveli l’irrilevanza sul piano pratico. Sarà per questo che a battere con più insistenza il tasto dell’importanza di mantenere la Grecia in Europa siano l’Italia e la Spagna, quasi che a fronte di un rischio analogo volessero poter contare su una rendita da capitale, la loro.
Sia
chiaro che dell’Unione Europea ho sempre avuto un’idea di come dovrebb’essere
che è sempre stata assai diversa da quella che fin qui è stata e attualmente è: nata male, direi, e cresciuta peggio, tutto nell’illusione che certi processi possano essere interamente controllati dall’alto. Sia chiaro, inoltre, che riconosco al
governo Tsipras alcune buone ragioni nell’opporre resistenza alle
richieste della troika: non moltissime, in verità, ma alcune sì, anche se in buona misura depotenziate dall’ostinazione a credere che il default faccia più male a tutti che ai greci. Più in generale, ritengo che da entrambe le
parti sia venuto il peggio di quanto fosse nelle loro possibilità, quasi fosse nelle loro intenzioni arrivare proprio all’attuale situazione, che sembra non
avere soluzioni, se non dilatorie. Ma – dicevo – preferisco non
entrare nel merito della questione.