Siamo
onesti, via, quello che si è tenuto oggi era un referendum fallito
in partenza. A gente come quella che intasa la canna fecale che da
Aosta scende fino ad Enna non si pongono quesiti così astrusi, ma
domande semplici e su questioni che tocchino davvero la viva realtà
del suo quotidiano.
domenica 17 aprile 2016
Karma
È
giovane, questo è vero, ma non si può mai dire, la morte è
capricciosa, pesca a caso, e poi ultimamente non mostra un’ottima
cera, è gonfio, chiude la frase con un lieve affanno, appena
percettibile, questo sì, ma non sarei affatto sorpreso se la minima
fosse sui 90/95, la creatininemia sforasse anche di poco, avesse
qualche occasionale disritmia cardiaca... Poi c’è
che i giovani si sentono immortali, sottovalutano i sintomi,
sperperano energie pensando siano inesauribili... Se poi sono drogati
di vitalismo e di autostima, perennemente su di giri, convinti di
avere il mondo in pugno, basta un nonnulla, chessò, un piccolo
aneurisma cerebrale, e il karma non perde l’occasione
di dar prova di quanto sappia essere stronzo. Insomma, non c’è
da disperare, occorre solo esser pazienti.
«Nessuno strumentalizzi il voto», dice. Ti verrebbe da sparargli in bocca, ma perché scomodarsi? Lasciamo fare al fato, che in ogni vita è piantato come una trivella, e succhia e succhia e succhia, senza rinnovo della concessione, fino a esaurimento.
«Nessuno strumentalizzi il voto», dice. Ti verrebbe da sparargli in bocca, ma perché scomodarsi? Lasciamo fare al fato, che in ogni vita è piantato come una trivella, e succhia e succhia e succhia, senza rinnovo della concessione, fino a esaurimento.
sabato 16 aprile 2016
venerdì 15 aprile 2016
Napolitano 2005
Mai
avrei immaginato che Napolitano avesse fan tanto agguerriti.
Ammiratori, sì, sapevo che ne avesse, ma non immaginavo che fossero
capaci di esprimere la loro ammirazione per Re Giorgio con insulti
così violenti all’indirizzo
di chi azzardasse a sollevargli critica. La regola, qui, è di cestinare ingiurie e minacce, ma a questi corazzieri di complemento in pensione devo una risposta, e mi pare non ce ne
sia una migliore che proporre un Napolitano d’annata.
Non così lontano nel tempo, poi: si tratta dell’intervista
concessa ad Alessio Falconio, per Radio Radicale, l’8
giugno del 2005. Concetti chiari, e chiaramente espressi, peraltro
ribaditi nel 2011, anche lì in occasione di una chiamata
referendaria. Ascoltatelo, l’emerito,
poi andate a fare in culo assieme a lui.
[Commenti di tenore analogo a
quelli riservati al post qui sotto saranno allegati a documento di
querela contro ignoti.]
Un emerito
Quando
si trattò di discutere su quale valore attribuire al voto, la
Costituente si spaccò in due: c’era
chi voleva
che la Costituzione ne affermasse l’obbligatorietà
giuridica e chi invece riteneva fosse un pochino esagerato schiaffare
in galera chi disertasse le urne. Si arrivò al compromesso e il voto
fu dichiarato «dovere
civico».
In quanto «dovere»,
era implicito dovesse stabilirsi una sanzione per chi se ne sottraeva. Avendo rinunciato a trattarla come un reato, l’astensione
fu punita con l’iscrizione
in un apposito albo, che per un mese restava esposto al pubblico
nella bacheca delle ordinanze comunali, e con l’annotazione
«non
ha votato»
sul certificato di buona condotta per i cinque anni successivi, a
norma dell’art.
115 del testo unico della legge elettorale del 30.3.1957, che
definiva il voto come «obbligo
al quale nessun cittadino può sottrarsi».
Sarà solo un caso, ma tutto questo ha termine solo quando le leggi
elettorali virano al maggioritario, quasi a concedere un vero e
proprio diritto di astensione dal voto proprio quando la cosiddetta
governabilità comincia ad essere sentita prioritaria rispetto alla
rappresentatività. Come a dire: togliamo al tuo voto il suo
effettivo peso, ma in cambio ti concediamo la libertà di non votare,
lasciando al biasimo la mera maniera.
La Costituzione continua a
recitare che il voto è un «dovere
civico»,
ma al rispetto del principio sembrerebbe sia tenuta solo la figura
istituzionale, visto che continua ad essere vigente, per esempio, la
legge
352 del 25.5.1970 (Norme
sui referendum previsti dalla Costituzione e sulla iniziativa
legislativa del popolo)
che punisce con la reclusione da sei mesi a tre anni «chiunque
investito di un pubblico potere [...] si adopera [...] ad indurli
[gli
elettori] all’astensione».
Vigente per modo di dire, visto che il Presidente del Consiglio continua ad invitare a disertare il referendum che si terrà
dopodomani senza che una Procura della Repubblica senta il bisogno di
intervenire.
Poi c’è
l’emerito,
e a emerito non aggiungo Presidente della Repubblica perché alludo ad altro. Dalle pagine de
la
Repubblica,
ieri, l’emerito
diceva che «l’astensione
è un modo di esprimere la convinzione dell’inconsistenza e della
pretestuosità di questa iniziativa referendaria»,
alla faccia dell’Ufficio
centrale per il referendum presso la Corte suprema di cassazione che
l’ha
dichiarata legittimamente fondata. Il rispetto del principio viene così ad essere dichiarato eludibile anche da chi sia investito di un pubblico potere.
Sarà solo un caso, ma tutto questo accade col degrado della funzione rappresentativa in una delle più plastiche rappresentazioni del cosiddetto «populismo dall’alto»: il pubblico potere trae legittimità dal silenzio-assenso più che dal dichiarato consenso e l’invito all’astensione diventa il modo per poter dichiarare legittima la pretesa della delega in bianco.
Ne è ulteriore conferma la
procedura che l’emerito ritiene
più adeguata a correggere quelli che non ha difficoltà a riconoscere
come punti deboli della riforma costituzionale per la cui
approvazione così com’è da
parte del parlamento non ha risparmiato impegno: «Bisogna
soprattutto farla, una riforma come quella appena approvata, eppoi
impegnarsi per la sua migliore attuazione. A questo compito
dovrebbero partecipare, una volta confermata la legge con il
referendum, anche i gruppi politici che oggi la osteggiano». Scriverla come viene, approvarla anche se ha dei difetti, chiedere al popolo bue di dare il non obstat, e poi procedere a migliorarla per quanto possibile coinvolgendo chi avrebbe voluto emendarla prima che fosse approvata, ovviamente se disposto al supino assumere la ratio di un tombale neoconsociativismo. Che vi dicevo? Un emerito.
mercoledì 13 aprile 2016
[...]
Si
è soliti attribuire a Chilone il precetto di non
dir dei morti altro che bene,
ma in realtà Diogene Laerzio gli mette in bocca semplicemente il
divieto di dirne male (Vite
dei filosofi,
I, III, 70), che però ha antecedenti in Omero (Odissea,
XXII), in Archiloco (fr. 134 West) e in Eschilo (fr. 151 Radt).
Non
è del tutto irrilevante la differenza tra il τον
τεθνηκοτα μη κακολογειν
di Chilone e il
de
mortuis nihil nisi bonum
che diventa quando Ambrogio Traversari lo traduce dal greco al latino
(Laertii
Diogenis vitae et sententiae eorum qui in philosophia probati
fuerunt,
1433). Nel primo caso, se voglio dir male di un morto, il precetto
non mi dà alternative: devo tacere. Nel secondo caso, è un po’
diverso: mi è offerto il modo di parlarne, ma solo per dirne bene,
il che non mi impedisce l’uso
di strumenti retorici che possono rivelare quel che davvero penso,
almeno a chi sia in grado di cogliere cosa ci sia sotto (υπο)
il mio parlare (κρινειν).
In sostanza, il de
mortuis nihil nisi bonum mi
consente un’ipocrisia
(υποκρισιη)
che il τον
τεθνηκοτα μη κακολογειν mi
nega.
Probabilmente è questo che spiega perché si sente parlare
tanto bene di chi si sentiva parlare tanto male in vita, appena
muore. Si tratta, tuttavia, di un’ipocrisia
che solo in pochi casi rivela l’insopprimibile
bisogno di ribadire, pur ricorrendo all’unico
espediente consentito, il giudizio negativo che si aveva del morto,
quand’era
vivo, perché, più in generale, accade che al tacere si preferisca
parlare, per coprire l’eco
del giudizio negativo che nel silenzio sarebbe ancora ben udibile: il
tanto dirne male quand’era
vivo è così persistente che rischia di offenderlo anche da morto, e
allora occorre esagerare col dirne bene, non di rado arrivando al
grottesco.
Pessimi difetti diventano, così, virtù che prima non
erano neppure sospettate, e al disprezzo fa posto la lode,
all’insulto
l’incensamento: il pazzo fottuto è diventato un appassionato visionario, il losco burattinaio ora è un leader buono e saggio, dove prima c’era l’avido affarista ecco l’idealista che ci rimetteva di tasca sua... Il moralista ne resta nauseato, lo studioso di scienze umane sa trovarlo affascinante.
martedì 12 aprile 2016
lunedì 11 aprile 2016
Nessuno è perfetto
Bravo,
’sto
Grossi, ma proprio bravo, bravo, bravo: «Al
referendum
– dice – si
deve votare: la partecipazione al voto –
spiega – fa
parte della carta d’identità del buon cittadino».
Che peccato non averlo avuto alla presidenza della Corte
Costituzionale ai tempi del referendum sulla legge 40, quando il
cardinal Ruini invitava all’astensione.
E vabbè che una parolina avrebbe potuto spenderla anche allora, ché
già ci aveva un curriculum prestigiosissimo, ma non risulta. Chissà
’ndov’era,
magari era docente all’estero...
Andiamo a controllare, va’, può
darsi che su Wikipedia... Ah, ecco, nel 2004 era giudice
di un tribunale ecclesiastico. Su nomina della Cei, naturalmente.
Alla cui presidenza c’era
il cardinal Ruini. Chiudiamo, via, nessuno è perfetto.
Tutto deve essere semplice
Nel
caso in cui Giulio Regeni fosse stato ucciso da una cellula deviata
dei corpi di sicurezza egiziani – poco importa se infiltrata da
agenti stranieri che si fossero posti il fine di creare tensione tra
Italia ed Egitto o se espressione di uno di quei settori
dell’esercito che, per unanime
parere degli analisti delle cose
egiziane, da tempo tramano per rovesciare al-Sisi – potremmo
dire che la sua operazione stia dando ottimi risultati: il caso è
all’attenzione dell’opinione
pubblica internazionale come emblematico di un regime sanguinario e
gli attriti tra le autorità italiane e quelle egiziane sono arrivati
al punto da mettere in discussione, seppure a mero scopo
intimidatorio, i solidi accordi di partnership economica che fin qui
avevano lasciato a bocca asciutta Francia e Regno Unito.
Potremmo
dire sia stata scelta la vittima giusta, la si sia macellata nel modo
migliore, nel momento più opportuno, con un accorto calcolo della
reazione che l’assassinio
avrebbe provocato in Italia (soprattutto in relazione a chi dovesse
necessariamente esserne il responsabile), dei passi diplomatici che
questa avrebbe reso necessari (salvo ricadute su un governo che non
poteva, e ancor più non può, permettersele), della necessitata
risposta del regime egiziano (nell’impossibilità
di ammettere di non avere il pieno controllo dei corpi di sicurezza),
dell’escalation che tali elementi
avrebbero innescato.
Potremmo, ma quest’ipotesi è liquidabile
come «complottista», e quella di «complottismo», oggi, è imputazione che rovina la reputazione in società: l’uomo di mondo, oggi, ama radersi col
rasoio di Occam, per porgere dal suo viso perfettamente sbarbato un
sorriso beffardo a chiunque azzardi che i complotti sono il pane
quotidiano di ogni servizio segreto. Come non detto, era giusto per non dare per scontato quel che è scontato. Giulio Cesare? Si decise di ammazzarlo lì per lì, smettiamola con le malate insinuazioni che dietro ci fosse una congiura, sennò finiamo nel mucchio di quelli che negano lo sbarco sulla Luna? Tutto non può che essere
estremamente semplice, deve esserlo, sennò cadiamo nella paranoia: ergo al-Sisi è fesso e feroce, e i suoi hanno ucciso
Giulio Regeni, e non ne hanno fatto sparire il corpo perché avevano finito l’acido, oppure no, perché c’era una partita alla tv, oppure perché – via, che importa il perché? Tutto è così semplice: di qua il ragazzo che stringe a sé il gattino, di là il tipaccio col grugno da faraone. Urge che al-Sisi ammetta la sua colpa, sennò prima
ritiriamo l’ambasciatore dal Cairo, e poi l’Eni. Perché noi abbiamo una
dignità da difendere, e vale più dei 25 miliardi di dollari di
interscambio con l’Egitto. Ci facesse affari la Francia, con quel criminale.
sabato 9 aprile 2016
Amoris laetitia
«Diremo
forse che colui che dà
maggiormente perde nello scambio
sul valore
di ciò che possedeva?
Niente affatto, dal momento
che tale superfluo
è per lui senza utilità,
o che comunque, egli ha accettato di farne
lo scambio
proprio perché accorda maggior valore
a ciò che riceve
che a ciò che abbandona»
Michel
Foucault, Le parole e le cose (1966)
All’apertura
della sessione sinodale dello scorso ottobre, in favore di chi
potesse averlo dimenticato, Bergoglio avvertiva che «il
sinodo non è un parlamento»,
non è un luogo «dove
ci si mette d’accordo».
Ancora più esplicito, alcuni mesi prima, era stato quando,
all’accendersi
di imbarazzanti tensioni tra gli opposti schieramenti in seno
all’assise
che doveva licenziare l’Instrumentum
laboris
a partire dalla Relatio
synodis,
aveva rammentato che, a norma del Codice
di Diritto Canonico,
«il
sinodo dei vescovi è direttamente sottoposto all’autorità
del Romano Pontefice»
(Can. 344). Come a dire: parresia à gogo, ma poi decido io, quindi
moderiamo i toni. Che poi poteva intendersi pure a questo modo: ho
già deciso il da farsi, mi servite solo a dargli la parvenza di una
decisione collegiale, quindi cercate di non rompermi il cazzo.
Cosa
avesse deciso era già chiaramente intuibile nella stessa decisione
di convocare un sinodo straordinario, e proprio sulla famiglia: i
margini entro i quali la pastorale poteva azzardare qualche novità
consentivano di rinforzare all’esterno
l’immagine
di un pontificato che più di un fesso già aveva definito
«rivoluzionario»,
senza per questo dover mettere a soqquadro la dottrina. In sostanza,
si era riprodotta la situazione che ha già dato altre volte in
passato alla Chiesa di Roma l’opportunità
di mostrarsi in grado di adattarsi ai tempi, ma senza svendere il suo
deposito di fede, e Bergoglio non intendeva lasciarsene scappare
l’occasione.
Con l’esortazione
apostolica postsinodale Amoris
laetizia
diremmo che l’operazione
sia andata a buon fine, ne sono prova le reazioni di chi vuol
leggerla come una «rivoluzione».
In realtà, basta attenersi al testo per constatare che le sue
accorte ambiguità possono accontentare anche i cattolici più
intransigenti, che senza dubbio non rinunceranno a qualche lamentela,
ma più per onorare il ruolo assegnato loro in commedia che per
sincera preoccupazione. Nei loro confronti, d’altronde,
Bergoglio ha mostrato grande delicatezza con l’annuncio
di una ripresa delle trattative coi lefebvriani, diffuso, seppur con
la dovuta discrezione, appena una settimana prima che fosse
pubblicata l’Amoris
laetizia.
«La
gioia dell’amore che si vive nelle famiglie è anche il giubilo
della Chiesa» (1).
Sarà superfluo chiarire che parliamo delle «famiglie»
che la Chiesa ritiene propriamente tali, perché, tanto per
fare un esempio, «non
esiste fondamento alcuno per assimilare o stabilire analogie, neppure
remote, tra le unioni omosessuali e il disegno di Dio sul matrimonio
e la famiglia»
(251). D’altra
parte, la Chiesa può considerare moralmente legittimo un amore che
non
sia fecondo dandosi in «immagine
per scoprire e descrivere il mistero di Dio» (11)?
E allora tutto vien da sé: cinque capitoli (198 dei 325 paragrafi
che compongono l’Amoris
laetitia)
che scorrono anodini a riproporci il modello di famiglia cristiana,
quello strano oggetto che dalla testa del prete è proiettato sulla
famiglia reale che occupa il banco in prima fila e pare segua con
attenzione la sua omelia. Famiglia che non esiste neppure al netto
delle assoluzioni per tutte le disattenzioni, ma al prete piace tanto
da considerarla l’unica
possibile, anche se ha imparato a prendere atto che deve
accontentarsi del poco che la proiezione gli restituisce: «non
tutte le discussioni dottrinali, morali o pastorali devono essere
risolte con interventi del magistero»
(3), anche perché non possono, puttana Eva, e allora conviene
«essere
umili e realisti, per riconoscere che a volte il nostro modo di
presentare le convinzioni cristiane e il modo di trattare le persone
hanno aiutato a provocare ciò di cui oggi ci lamentiamo»
(36). «Per
molto tempo abbiamo creduto che solamente insistendo su questioni
dottrinali, bioetiche e morali, senza motivare l’apertura alla
grazia, avessimo già sostenuto a sufficienza le famiglie,
consolidato il vincolo degli sposi e riempito di significato la loro
vita insieme»
(37), e che ci abbiamo ricavato? «Dobbiamo
ringraziare per il fatto che la maggior parte della gente stima le
relazioni familiari che vogliono durare nel tempo e che assicurano il
rispetto all’altro»
(38), approfittiamone e cerchiamo di cavarne quel che può tornarci
utile.
Sia chiaro, «in
nessun modo la Chiesa deve rinunciare a proporre l’ideale pieno del
matrimonio»
(307), ma cerchiamo di chiudere un occhio tutte le volte che nella
realtà dobbiamo constatarlo più mezzo vuoto che mezzo pieno. Parola
d’ordine:
indorare la pillola. Per meglio dire: sull’amo
della dottrina ci vada un bel verme grasso di misericordia, e buona
pesca. Viga il principio, ma la regola si adatti al caso. Perché il
peccato resti peccato, siate di manica larga col perdono. Divorzio, aborto, eutanasia, fecondazione assistita, matrimonio gay – non cambia niente, è ovvio, ma cerchiamo di non urlarlo a squarciagola, ché ne ricaviamo solo emorroidi. Eucaristia ai divorziati risposati? No, ma sì, cioè, così così.
Ok, potrà
«costa[rci]
molto dare spazio nella pastorale all’amore incondizionato di Dio»,
saremo portati a «esig[ere]
dai
penitenti un proposito di pentimento senza ombra alcuna»,
ma
convincetevi che «la
prevedibilità di una nuova caduta non pregiudica l’autenticità
del proposito»
(311).
Buon viso a cattivo gioco, ché a fare la faccia cattiva non si ha
buon gioco.
venerdì 8 aprile 2016
[...]
Arrivato
alla 246ª
delle 1294 pagine de La scuola cattolica
di Edoardo Albinati (Rizzoli, 2016), sento l’irresistibile
bisogno di espiare la colpa di averlo acquistato.
Non
devo più farmi fottere dagli unanimi elogi della critica.
Non
devo più farmi fottere dagli unanimi elogi della critica.
Non
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Non
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giovedì 7 aprile 2016
[...]
Quando
ho saputo che Mario Calabresi passava dalla direzione de La Stampa
a quella de la Repubblica, ho
pensato a quella volta che Graziano Delrio fu pizzicato mentre usciva
dalla residenza romana di Carlo De Benedetti. Silvio Berlusconi era
ormai un uomo finito e il giornale che lo aveva combattuto per
vent’anni
non aveva più senso, doveva tornare di altra utilità, e con Matteo
Renzi al governo la sua conduzione doveva cambiare mano. Chi era il
più renziano dei direttori sulla piazza? Mario Calabresi. Del tutto
irrilevante che lo fosse perché stregato dalle strabilianti virtù
del Rottamatore o perché è così che voleva Sergio Marchionne: ora
che la Repubblica
doveva cambiare linea, Mario Calabresi era l’uomo
giusto a Largo Fochetti.
Scelta che può dirsi più che azzeccata,
basta prendere in mano il numero mandato oggi in edicola: la notizia
che tutti gli altri quotidiani mettono in prima pagina – la pessima
accoglienza che Napoli ha riservato al Presidente del Consiglio – scivola dopo
il caso Vespa-Riina. Al primo colpo di vanga col quale Matteo Renzi
comincia a scavare la sua fossa corrisponde l’ultimo col quale può
dirsi definitivamente seppellito il giornale-partito di Eugenio
Scalfari: intatta resta solo la testata, e tanto basta a Enrico
Porro, che da anni cura il blog Pazzo per Repubblica,
per continuare a esserne un fan, senza neppure riuscire a cogliere la
strana gerarchia che oggi è data alle notizie.
È proprio vero: la
lettura dei giornali è la preghiera del laico, ma a forza di
recitare il rosario tutte le mattine si finisce per perdere il senso
delle parole che fanno l’Ave
Maria. Più sei fedele ad un quotidiano, meno riesci a coglierne gli
scarti, neppure più t’accorgi
delle inversioni a U.
[...]
Cominciamo
col dire che le colpe dei padri non devono mai ricadere sui figli.
Poi però aggiungiamo subito che non si può pretendere che a un
figlio riesca facile riconoscere le colpe che vengono addebitate al
padre, e che è del tutto naturale che in lui continui a vedere il
brav’uomo che non smetterà mai d’essere, a fronte di qualunque
evidenza. Non dimentichiamo, infine, che anche il peggior fetente può
essere un padre passabilmente amabile. E quindi lasciate in pace la
povera Maria Elena Boschi: suo padre è davvero una brava persona.
mercoledì 6 aprile 2016
Sul referendum del 17 aprile
Una
rapida occhiata ai numeri basta a
chiarirci cosa davvero sia stato, in Italia, l’istituto
referendario: i quesiti che si è tentato di sottoporre al parere
degli italiani sono stati 191, ma, tra mancato raggiungimento del
numero di firme necessarie e bocciature al vaglio di legittimità, il
tentativo è andato in porto solo 67 volte, con 27 casi nei quali
non si è raggiunto il quorum, 9 nei quali la proposta abrogativa è
stata respinta e almeno la metà dei rimanenti 30 nei quali l’esito
delle urne è stato sostanzialmente disatteso, vanificandone ogni
effetto.
Com’è che allora il referendum continua a illudere tante
anime belle? Quasi certamente lo si deve a tutta la retorica che si è
spesa su quelli che furono indetti per abrogare le leggi che
consentivano divorzio e aborto, e che non ci riuscirono: leggi che dobbiamo al Parlamento, ma
che si continua ad avere la sensazione siano uscite dalle urne.
Non
starò ad annoiare oltre il mio lettore: mi sono già intrattenuto a
lungo, due o tre anni fa, sull’inutilità dell’istituto
referendario, addirittura sulla sua pericolosità per quanto gli è
conferito dall’essere uno strumento di democrazia diretta, dove il
pericolo che sta a monte dell’illusione non è meno serio di quello
che gli sta a valle. Qui, stringendo, non ho fatto altro che ripetere
ciò che ho già detto allora, a indispensabile premessa di quanto
segue, che poi è la risposta a chi mi ha chiesto se andrò a votare
il 17 aprile e, se sì, come voterò.
Premessa che sembrerebbe voler
dar senso a un’astensione. E invece andrò a votare. All’esclusivo
scopo di dare il mio contributo al raggiungimento del quorum, che
peraltro do per scontato sarà difficilissimo raggiungere. Meno
difficile di quanto sarebbe stato se non fosse scoppiato lo scandalo
che ha portato alle dimissioni di Federica Guidi, ma comunque assai
difficile. Superfluo dire che questa decisione nasce dal significato
che Matteo Renzi ha voluto dare a questo referendum, dunque potrebbe
anche essere irrilevante cosa voterò: potrei anche annullare la
scheda o lasciarla bianca, la ragione che mi porterà al seggio
elettorale troverebbe comunque piena soddisfazione, anzi, in entrambi
i casi la troverebbe in coerenza a ciò che penso dell’istituto
referendario. Il fatto è che ritengo intellettualmente disonesto
usare strumentalmente un voto al quale si è voluto strumentalmente
attribuire un significato diverso da quello che dovrebbe avere, e
dunque, senza perdere neppure per un istante la certezza
dell’inutilità del mio voto, non ritengo sia corretto sottrargli il valore che
gli è attribuito e che dunque, almeno formalmente, sono costretto a riconoscere: non annullerò la scheda, non la lascerò bianca.
Voterò sì e ritengo sia doveroso spiegare il perché. Anzi, giacché
al sì sono arrivato grazie ai tre minuti che Michele Governatori ha
dedicato al referendum del 17 aprile in una delle puntate della sua
rubrica del martedì su Radio Radicale, mi limito a riproporli qui.
Il punto che ritengo dirimente è quello relativo alla concessione a privati di un bene pubblico per un tempo illimitato, che d’altronde è in franca violazione delle direttive comunitarie cui Governatori fa cenno, e che dunque rende sanzionabile in sede europea il comma 239 dell’art. 1 della legge n. 208 del 28 dicembe 2015 anche laddove vincesse il no o il quorum non fosse raggiunto. Ennesima dimostrazione, laddove ce ne fosse stato bisogno, che a questo governo manca ogni misura del diritto.
martedì 5 aprile 2016
[...]
Pensare
che l’arguzia faccia attestato
di libero intelletto, e che il gusto di dissacrare riveli un’indole
insofferente ad ogni genere di pregiudizio, riserva delusioni solo
all’ingenuo. Dall’autore
de La secchia rapita, strepitosa satira delle miserie umane
ipocritamente agghindate di nobili ideali, è strano arrivi una
difesa del geocentrismo che
rigetta le tesi di Niccolò Copernico in forza del più gretto senso
comune e della più polverosa tradizione? Per niente. Il sarcasmo
trova sempre carne più tenera nel nuovo e, risparmiandoci citazioni,
la satira nasce reazionaria, per consolare i servi, per dare ad essi, nello
spazio che sa rubare al padrone, il carnascialesco del mondo
sottosopra. Seccata la penna che gli è servita a scrivere le
lapidarie ottave con cui ha bersagliato di sberleffi Modena e
Bologna, ecco Alessandro Tassoni reintingerla nel suo calamaio per scrivere che la terra non può girare attorno al sole, perché «ciò s’oppone alla Scrittura sacra»: scherza coi fanti, ma lascia stare i santi.
lunedì 4 aprile 2016
[...]
Sul
metodo piovano i rimproveri, ma il risultato resta convincente,
d’altronde, e fin dal
sottotitolo (Saggio di storia parziale), Gli oligarchi
di Jules Isaac (Sellerio, 2016) non fa mistero di essere una
peroratio. Bel libro, davvero.
Non solo ladri di polli
Francamente
non si capisce perché la telefonata di Federica Guidi sia stata «inopportuna»: «opportuno» viene da «ob-portus», detto del vento che
favorevolmente spinge la nave in porto, e la telefonata annunciava
che il vento favorevolmente la spingeva. Di poi, venendo al suo
significato estensivo, per ciò che convenga o sia adeguato alla
circostanza, è di chiara evidenza che la telefonata fosse al
contrario pienamente «opportuna»: conveniva che l’emendamento
passasse, e la circostanza giustificava che ne fosse messo a
conoscenza chi ne avrebbe tratto convenienza, giacché stava
passando. A mio modesto avviso, e non sarebbe la prima volta, anche
in questa occasione ’sti
quattro mariuoli di provincia dimostrano di avere mano lesta, ma
lingua che fa batacchio in campana fessa.
Poi dicono che so’
democristiani... Ma non scherziamo: un democristiano dei bei tempi
andati non l’avrebbe
mai definita «inopportuna», la telefonata, avrebbe detto che forse poteva dar adito a eccepire, ma solo se capziosamente, e unicamente al fine di
insinuare che dimostrasse una condotta poco cristallina. E poi, fra
mille e mille esortazioni a non soccombere all’onda
calunniosa, il partito avrebbe fatto quadrato attorno al suo
ministro, e quello non si sarebbe mai dimesso. Questi, al confronto,
sono ladri di polli, e al telefono sono pure scarsi a perifrasi per
evitare che la torcia elettrica ce li mostri tutti inzaccherati di
merda di gallina.
Dico: è quello il modo di avvisare il tuo
sventrapapere che sei riuscita a fargli il regalino cui quello teneva
tanto perché ultimamente era a corto di liquido? Ma vola alto, caspiterina, dagli un appuntamento su una banchina del porto
di Taranto che ancora non è in costruzione, parla di Potenza come se
stessi inanellando lodi attorno alla sua nerchia, ma non essere così
esplicita, pensa alle camicie che dovrà sudare il suo avvocato. Una
cosa è delocalizzare la produzione in Croazia mettendo la cassa
integrazione a spese dello Stato, un’altra
è fare il ministro: un minimo di stile, cazzo.
Ma è chieder troppo: si tratta di maneggioni ai quali i babbi hanno insegnato prima la faccia tosta e poi lo scilinguagnolo, prima il mestiere di fottere i fessi e poi l’arte di metterli a tacere con un’alzata di spalle. È la razza dei villanzoni che illustrano al meglio il manifesto ideologico del familismo amorale: capofamiglia esperto di paccotti, mamma finta bionda in pelliccia e con caviglie gonfie, fratello un po’ coglione ché la natura s’è voluta concentrare sul rampollo da spendere per la scalata sociale e la domenica tutti a messa, pregando il Padreterno che arrivi l’occasione di poter usare il vestito della festa anche nei giorni feriali.
E il cucuzzaro?
Vogliamo parlare del cucuzzaro? Dice: l’emendamento
è mio, l’ho
scritto di mio pugno, so’
stato io a volerlo. A parte il fatto che pare già saltino fuori le mail di
quelli della Total e della Shell che dettano allo staff della Pupona
come volessero fosse limato perché non lo trovavano abbastanza liscio, se il ministro non ha fatto altro che
annunciare al fidanzato che stava per essere varato un provvedimento
bello, buono e giusto, dove sarebbe l’inopportunità della
telefonata? Era l’emendamento a favorirlo, non il sapere in
anticipo che sarebbe stato approvato. E poi per quell’emendamento
si sarebbe messo il voto di fiducia: essere certa che sarebbe passato
non era segno che a volerlo fosse tutto il governo e che così
avrebbe voluto il parlamento? Dov’è che s’è violato il galateo?
Dice: l’emendamento sbloccava una situazione in stallo da troppo
tempo, e in questo l’azione di governo è stata coerente con il più
generale intento di sbloccarne altre, come Pompei, come Bagnoli, come
la Salerno-Reggio Calabria. Ma in questi casi si tratta di opere
pubbliche, qui si sbloccava solo ciò che impediva di fare utili a imprese private, per giunta estere, di cui una, sulla situazione da sbloccare, avevano investito due milioni e mezzo di appalto in favore del fidanzato di
Federica Guidi. Di fatto, poi, Pompei, Bagnoli e la Salerno-Reggio
Calabria restano ancora bloccati, e guarda tu cosa si va sbloccare per sollecito interessamento di mezzo governo:
l’affarone privato.
Dice: fa lo stesso, ci sono di mezzo dei posti
di lavoro. Che andrebbero persi se non si cedesse alle pretese che le
società petrolifere avanzano su Taranto, certo, ma che non
andrebbero persi rinunciando a quei due soldi di royalties che fanno
di quanto si estrae dalla Basilicata un prodotto da esportazione. Per
poi venirci a spacciare l’emendamento come pilastro di un progetto
di autonomia energetica e a prometterci un occhio di riguardo alla pompa di benzina se ci beviamo lo sbirignaccolo della versione ufficiale. Non solo ladri di polli, ma pure miserabili
bugiardi.
E a cappello? «Possono dirmi
che non sono capace, ma, se mi dicono che sono disonesto, mi partono i
cinque minuti». E fatteli
partire, buffone.
Ah, ’sta polis!
Non
basta capire, occorre sapersi spiegare, argomentare in modo
ineccepibile, possibilmente persuasivo, in forza del solo buonsenso,
chessò, tanto per dire, cominciando con l’evitare
il ricorso ad autorità che sono indiscutibili solo nel proprio
hortus conclusus: tanto per dire, evitare Tucidide in esergo. Ma poi
nemmeno questo basta, perché senza una genuina premura per il bene
comune diventa vano ogni acume, peggio ancora poi pensando sia
legittimo trarne un pur minimo vantaggio personale: aver ben chiaro
che l’amore per la polis è
tutto a perdere, anzi è pericoloso, ineluttabilmente nefasto. E
allora rinunciarci: innaffiare le piantine di basilico e di menta,
darsi allo zen stirando una camicia...
È
stata una bellissima settimana: volume delle news a zero, i volti
noti scorrevano in tv come pesci in un acquario, nessuna voglia di
sapere che avessero da dire. Poi devo dire che mi è tornata la mania
per Cranach e ho rimesso mano al materiale che tempo fa avevo messo
da parte per uno studiolo sulla sua Flagellazione. Insomma, il blog
ne ha sofferto. Pazienza, via, ché ora vediamo di riaccendere ’sta
passione civile addormentatasi a bocc’aperta davanti all’ennesima
rissa tra opposte bande. Senza dimenticare, naturalmente che ό τε
γάρ γνούς καί μή σαφώς διδάξας έν ίςω
καί... Ah, ’sta polis!
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