Chi
vince vince, non c’è dubbio, e
chi perde perde, è ovvio. Non si discute, dunque: le regioni erano
sette, cinque vanno al Pd di Renzi, Renzi e i renziani possono dire
di aver vinto cinque a due. Poi, volendo, c’è
da guardarla più da vicino, questa vittoria.
Ha votato solo un
avente diritto al voto su due, con una media di quasi il 10% in più
di astensionismo rispetto alle Europee, che già battevano un record. Sulla vittoria non incide, perché si sa che chi
non vota conta zero, ma esiste e, pur stando zitto, qualcosa dice:
dice che non fa alcuna differenza tra chi vince e chi perde, perché
l’uno vale l’altro,
e il giudizio di valore quasi mai è lusinghiero. La vittoria,
dunque, è oggettiva, senza dubbio, ma solo per chi crede nella
partita, e a credere che abbia un senso è solo la metà del paese.
L’altra metà non ci crede,
delegittimando in questo modo il senso della competizione elettorale,
ma senza avere alcun diritto di delegittimarne il risultato, tanto
meno di invalidarlo o di depotenziarne gli effetti, il che può
lasciare indifferente solo chi considera le elezioni un mero
espediente per avere uno che governi. Con lo sbilanciamento del
rapporto tra rappresentatività e governabilità, e con l’ormai
consolidata opinione che la prima debba sempre essere sacrificata
alla seconda, che è il segno più macroscopico della crisi in cui
versa la democrazia, non mette in alcun conto considerare un così
alto astensionismo: se ne parlerà un pochino, ma solo fino a quando
non si avranno i risultati definitivi, e sarà l’omaggio che il
vizio tributa alla virtù.
E dunque accantoniamo senza alcuno
scrupolo questi milioni di aventi diritto al voto che hanno ritenuto
inutile votare, d’altra parte non è detto che in futuro cambino
idea e tornino alle urne, ma, per il modo in cui si va consolidando
l’idea che la democrazia possa restar tale anche conservando solo
la forma per poter perdere ogni sostanza, è più probabile che si
asterranno ancora, e che il loro numero sia destinato a crescere.
Poco male: se il fine ultimo è svuotarla del tutto, saremmo in
democrazia anche quando l’elettorato attivo dovesse pienamente
coincidere con quello passivo e una oligarchia procedesse per
cooptazione a darsi un quadro organico riassettandolo di volta in
volta in funzione dei flussi di potere al suo interno. Basta parlare
di astensionismo, dunque. Non è un problema.
Se dobbiamo
concentrarci esclusivamente sull’oggettivo peso dei risultati,
rimane il cinque a due che Renzi e i suoi possono vantare come
vittoria. Possono vantarla, ma è vera vittoria? In Campania vince De
Luca, in Puglia vince Emiliano: due che possiamo considerare
renziani? De Luca ha avuto l’appoggio di Renzi solo nelle ultime
due settimane, dopo mesi e mesi passati a cercare invano un’altra
candidatura: sembrava che potesse andar bene chiunque al posto di De Luca, perfino un vendoliano riverniciato all’ultimo minuto da chiachiello. Neanche il tempo di vincere, anzi di stravincere, ed
ecco che Emiliano apre al M5S, dice che gradirebbe la sua
collaborazione al governo della regione. Poco importa cosa se ne
farà, di fatto non ha aperto né a Schittulli, né a Poli Bortone, e
questa è una rottura con la linea che il Pd persegue a livello
nazionale, peraltro in bilico tra la voglia di un nuovo patto del Nazareno e la tentazione all’azzardo di provare al più presto l’Italicum per vedere se la destra si svuota in favore del tanto vagheggiato Partito della Nazione. In Campania e in Puglia, quindi, non è affatto esagerato dire che si
tratti di una vittoria di Pirro: Renzi può solo attendersi delle
rogne da De Luca ed Emiliano, e solo in cambio di poter esibire,
oggi, le loro vittorie – vittorie esclusivamente loro – come sue. Un prezzo enorme per quasi niente.
Lì dove erano in corsa candidati genuinamente renziani – Paita in
Liguria e Moretti in Veneto – la batosta è stata anche più sonora di quanto fosse ragionevole attendersi, rivelando
ancor di più, se fosse necessario, che Renzi è un uomo solo, che può
contare, è vero, su un partito che in Parlamento e in Direzione
nazionale lo asseconda con la dovuta soggezione, e quasi certamente
continuerà a farlo, ma solo fino a quando riuscirà a reggere, e con personalità buone solo a fargli da contorno: comparse, qualche caratterista di assai opinabile talento, anonimi sgherri per presidiare il punti sensibili del web, ma poi che altro? Chi poi è
diventato renziano dalla sera alla mattina – si pensi ad un Orfini
o ad una Serracchiani – quanto potrà metterci a non esserlo più, quando fosse necessario?
Vince,
Renzi, e in modo relativamente agevole, in Toscana e in Umbria, da sempre feudi del Pci, dove
l’elettorato è abituato da oltre mezzo secolo a votare il
candidato deciso dal partito, chiunque sia: riflesso pavloviano che
prima scattava per ideologia o per sentimento identitario, e oggi
scatta per quanto ne residua dopo la morte delle ideologie ed un
assai problematico ragguaglio circa l’identità. Fa fede di
quest’ultimo dato – emblematicamente, se gli si vuol dar peso –
il fatto che in Umbria gli exit poll davano perdente il candidato del
Pd e tutti sanno che gli exit poll falliscono le previsioni quando
c’è un congruo numero di intervistati che si vergogna di dire per
chi abbia realmente votato. A parte, se non avessimo già detto che chi non vota conta zero, ci sarebbe da segnalare che in queste due regioni l’astensionismo è sempre stato assai ridotto e oggi arriva a superare di parecchio il 40%. Segno che certa puzza si sente pure con le narici turate e turarsele non basta a preferire l’Italia di Renzi a quella di Berlusconi.
Ora, per gli elementi di natura
narcisistica e paranoidea che sempre caratterizzano le dinamiche
interne a gruppi che si danno una leadership come quella di Renzi,
non è difficile prevedere come sarà letto il voto del 31 maggio,
d’altronde già le prime reazioni rivelano i tratti che
caratterizzeranno il mantra da far salmodiare a quelle patetiche
decalcomanie del leader che da qualche tempo infestano i talk show
televisivi. Dove si è perso – si dirà – era largamente
previsto: contro Zaia, in Veneto, era impossibile vincere; in
Liguria, si sa, c’è stato il sabotaggio dei fuoriusciti che, pur
di far perdere il Pd, hanno fatto vincere Toti. Altrove? Conferma che
l’Italia vuole Renzi. S’era detto – è vero – che quello
delle Regionali non fosse un test su di lui e sul suo governo, ma il
risultato, volendo, può ancora tornar buono come indicatore che il
sogno ad occhi aperti ancora regge. Dio ne abbia pietà, quando, ad eccezione di chi sarà stato in grado di riciclarsi per tempo, li vedremo penzolare a testa in giù accanto al loro rais.