lunedì 1 giugno 2015

Chi vince vince, non c’è dubbio

Chi vince vince, non c’è dubbio, e chi perde perde, è ovvio. Non si discute, dunque: le regioni erano sette, cinque vanno al Pd di Renzi, Renzi e i renziani possono dire di aver vinto cinque a due. Poi, volendo, cè da guardarla più da vicino, questa vittoria.
Ha votato solo un avente diritto al voto su due, con una media di quasi il 10% in più di astensionismo rispetto alle Europee, che già battevano un record. Sulla vittoria non incide, perché si sa che chi non vota conta zero, ma esiste e, pur stando zitto, qualcosa dice: dice che non fa alcuna differenza tra chi vince e chi perde, perché luno vale laltro, e il giudizio di valore quasi mai è lusinghiero. La vittoria, dunque, è oggettiva, senza dubbio, ma solo per chi crede nella partita, e a credere che abbia un senso è solo la metà del paese.
L’altra metà non ci crede, delegittimando in questo modo il senso della competizione elettorale, ma senza avere alcun diritto di delegittimarne il risultato, tanto meno di invalidarlo o di depotenziarne gli effetti, il che può lasciare indifferente solo chi considera le elezioni un mero espediente per avere uno che governi. Con lo sbilanciamento del rapporto tra rappresentatività e governabilità, e con l’ormai consolidata opinione che la prima debba sempre essere sacrificata alla seconda, che è il segno più macroscopico della crisi in cui versa la democrazia, non mette in alcun conto considerare un così alto astensionismo: se ne parlerà un pochino, ma solo fino a quando non si avranno i risultati definitivi, e sarà l’omaggio che il vizio tributa alla virtù.
E dunque accantoniamo senza alcuno scrupolo questi milioni di aventi diritto al voto che hanno ritenuto inutile votare, d’altra parte non è detto che in futuro cambino idea e tornino alle urne, ma, per il modo in cui si va consolidando l’idea che la democrazia possa restar tale anche conservando solo la forma per poter perdere ogni sostanza, è più probabile che si asterranno ancora, e che il loro numero sia destinato a crescere. Poco male: se il fine ultimo è svuotarla del tutto, saremmo in democrazia anche quando l’elettorato attivo dovesse pienamente coincidere con quello passivo e una oligarchia procedesse per cooptazione a darsi un quadro organico riassettandolo di volta in volta in funzione dei flussi di potere al suo interno. Basta parlare di astensionismo, dunque. Non è un problema.
Se dobbiamo concentrarci esclusivamente sull’oggettivo peso dei risultati, rimane il cinque a due che Renzi e i suoi possono vantare come vittoria. Possono vantarla, ma è vera vittoria? In Campania vince De Luca, in Puglia vince Emiliano: due che possiamo considerare renziani? De Luca ha avuto l’appoggio di Renzi solo nelle ultime due settimane, dopo mesi e mesi passati a cercare invano un’altra candidatura: sembrava che potesse andar bene chiunque al posto di De Luca, perfino un vendoliano riverniciato all’ultimo minuto da chiachiello. Neanche il tempo di vincere, anzi di stravincere, ed ecco che Emiliano apre al M5S, dice che gradirebbe la sua collaborazione al governo della regione. Poco importa cosa se ne farà, di fatto non ha aperto né a Schittulli, né a Poli Bortone, e questa è una rottura con la linea che il Pd persegue a livello nazionale, peraltro in bilico tra la voglia di un nuovo patto del Nazareno e la tentazione all’azzardo di provare al più presto l’Italicum per vedere se la destra si svuota in favore del tanto vagheggiato Partito della NazioneIn Campania e in Puglia, quindi, non è affatto esagerato dire che si tratti di una vittoria di Pirro: Renzi può solo attendersi delle rogne da De Luca ed Emiliano, e solo in cambio di poter esibire, oggi, le loro vittorie – vittorie esclusivamente loro – come sue. Un prezzo enorme per quasi niente. 
Lì dove erano in corsa candidati genuinamente renziani – Paita in Liguria e Moretti in Veneto – la batosta è stata anche più sonora di quanto fosse ragionevole attendersi, rivelando ancor di più, se fosse necessario, che Renzi è un uomo solo, che può contare, è vero, su un partito che in Parlamento e in Direzione nazionale lo asseconda con la dovuta soggezione, e quasi certamente continuerà a farlo, ma solo fino a quando riuscirà a reggere, e con personalità buone solo a fargli da contorno: comparse, qualche caratterista di assai opinabile talento, anonimi sgherri per presidiare il punti sensibili del web, ma poi che altro? Chi poi è diventato renziano dalla sera alla mattina – si pensi ad un Orfini o ad una Serracchiani – quanto potrà metterci a non esserlo più, quando fosse necessario?
Vince, Renzi, e in modo relativamente agevole, in Toscana e in Umbria, da sempre feudi del Pci, dove l’elettorato è abituato da oltre mezzo secolo a votare il candidato deciso dal partito, chiunque sia: riflesso pavloviano che prima scattava per ideologia o per sentimento identitario, e oggi scatta per quanto ne residua dopo la morte delle ideologie ed un assai problematico ragguaglio circa l’identità. Fa fede di quest’ultimo dato – emblematicamente, se gli si vuol dar peso – il fatto che in Umbria gli exit poll davano perdente il candidato del Pd e tutti sanno che gli exit poll falliscono le previsioni quando c’è un congruo numero di intervistati che si vergogna di dire per chi abbia realmente votato. A parte, se non avessimo già detto che chi non vota conta zero, ci sarebbe da segnalare che in queste due regioni l’astensionismo è sempre stato assai ridotto e oggi arriva a superare di parecchio il 40%. Segno che certa puzza si sente pure con le narici turate e turarsele non basta a preferire l’Italia di Renzi a quella di Berlusconi.
Ora, per gli elementi di natura narcisistica e paranoidea che sempre caratterizzano le dinamiche interne a gruppi che si danno una leadership come quella di Renzi, non è difficile prevedere come sarà letto il voto del 31 maggio, d’altronde già le prime reazioni rivelano i tratti che caratterizzeranno il mantra da far salmodiare a quelle patetiche decalcomanie del leader che da qualche tempo infestano i talk show televisivi. Dove si è perso – si dirà – era largamente previsto: contro Zaia, in Veneto, era impossibile vincere; in Liguria, si sa, c’è stato il sabotaggio dei fuoriusciti che, pur di far perdere il Pd, hanno fatto vincere Toti. Altrove? Conferma che l’Italia vuole Renzi. S’era detto – è vero – che quello delle Regionali non fosse un test su di lui e sul suo governo, ma il risultato, volendo, può ancora tornar buono come indicatore che il sogno ad occhi aperti ancora regge. Dio ne abbia pietà, quando, ad eccezione di chi sarà stato in grado di riciclarsi per tempo, li vedremo penzolare a testa in giù accanto al loro rais.   

I Gufi - Il gallo è morto - 1965

domenica 31 maggio 2015

Rap

Di solito non ne azzecco mai una, è che la realtà si rivela sempre peggiore delle mie più pessimistiche previsioni, sarà che non sono mai abbastanza pessimista, o che vedo nero quel che è rosa, perché si sa che questo è il migliore dei mondi possibili, e sono io che non apprezzo l’eccezionalità italiana, insomma, provo a immaginare come andrà stavolta, sapendo bene che sarò comunque smentito. Lastensionismo sarà altissimo, poi invece non lo sarà affatto, perché venti euro tornano utili a un sacco di poveracci, ma pure questa è una previsione, e allora è probabile che sarò smentito, e lastensionismo sarà altissimo. De Luca vincerà, poi invece stravincerà, anzi no, ci sarà la sorpresa di un Cinquestelle alle stelle, ma avendolo previsto non sarà così, e vincerà Caldoro, anche se solo per due voti. Sarà un 6 a 1, anzi, un 5 a 2, però non è detto, perché i veneti non sono migliori dei liguri, e allora il 7 a 0 ha le stesse probabilità del 3 a 4, e insomma, delle due una, Renzi ne esce come Eliogabalo, tuttè vedere se come lEliogabalo portato sugli scudi o quello fatto a pezzi gettati nella Cloaca Maxima. Previsioni estreme, dunque è più verosimile che perderà un pochino, ma terrà, però anche questa è una previsione, dunque è destinata ad essere smentita. Daltronde corrono voci, anzi bisbigli, anzi sondaggi, che la base del Pd prepara un ribaltone, e che quella forzista si rivelerà più in forze di quanto si possa immaginare, per non parlare della Lega che sfonderà perfino in Puglia, dove non so neppure se si presenta. Gli impresentabili? Tutti eletti, anzi no, non ne sarà eletto neanche uno, cioè qualcuno sì, qualcuno no. In ogni caso è certo che lunedì ci sarà un terremoto, o un lento e quasi impercettibile bradisismo, sennò tutto tranquillo, e passeremo al calcio e alla cronaca nera, che risaputamente danno più soddisfazioni. Esiti improbabili, perciò possibili, ma, avendoli previsti, chissà, tutti impossibili.

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«Ieri visita a Napoli del sottosegretario all’Economia Paola De Micheli per dare forza alla battaglia elettorale di Vincenzo De Luca. Dice di lui: “Il candidato governatore del centrosinistra è un politico e un amministratore di lungo corso, porta a sostegno della sua candidatura il bilancio positivo della sua città e l’intenzione di promuovere una nuova classe dirigente pronta a sostenere una battaglia di sburocratizzazione di tutta la pubblica amministrazione”»
ilsudonline.it, 28.5.2015

sabato 30 maggio 2015

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«Io credo che questo non sia un voto che riguardi il governo, ma riguardi lEuropa... Non è un referendum sul governo», così la Boschi, il 20 maggio dell’anno scorso (*). Il mese dopo, allAssemblea nazionale del Pd, con alle spalle un fondale sul quale cera un enorme 40,8%, Renzi diceva che in quel risultato non ci fosse solo il buon risultato di un gruppo dirigente e del governo, ma il rinnovo di un mandato cui allegava lhashtag #italiariparte (*).
Il voto per il Quirinale? «Non è un referendum su di me o sul governo» (*), ma questo lo scorso 26 gennaio. Poi, quando Mattarella non ha avuto neanche il tempo di prestare il giuramento, ecco che la sua elezione deve leggersi come segno che il Parlamento abbia i numeri per approvare le riforme volute dal governo e il risultato ne rilanci l’azione (*).
Oggi, alla vigilia delle Regionali, «le elezioni locali hanno valenza locale» «il voto non è un test su di me» (*). Rammentarlo a futura memoria? Ma non diciamo sciocchezze. A un paese di merda, prima di tutto, manca la memoria. Quella a lungo termine, ma anche quella a breve. 

venerdì 29 maggio 2015

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Cominciamo col dire che sono stato condannato per un «reato lessicale»: sopra c’era un cartello con su scritto «in offerta», ci fosse stato scritto «prezzo scontato» non l’avrei certo portato via senza pagare. E questo vogliamo chiamarlo furto? Ma via, parliamo di una cosetta da due soldi. Ne girano, di ladri, e voi volete farmi pesare una sciocchezza del genere? Diciamocela tutta: la condanna è stata un assurdità. D’altronde mi sono candidato, e certamente sarò eletto, e l’elezione equivarrà ad una assoluzione. Come si dice? Vox populi... Certo, nemmeno mi sarei potuto candidare perché fino a due anni fa il partito di cui sono il capolista faceva vanto di un codice etico che vietava la candidatura pure a chi era semplicemente indagato, ma per fortuna il clima interno è cambiato, ora c’è un segretario che l’ha detto chiaro e tondo: «Chi vince governa». La legge Severino? È uno scandalo, è una legge che non sta in piedi. Andava bene per Berlusconi, che è sempre stato scostumato con la magistratura, ma io sono per la piena autonomia dei magistrati. 

giovedì 28 maggio 2015

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Cè modo e modo per appellarsi alla tradizione come argomento decisivo, ma quello più fessacchiotto sta nella pretesa che letimo dia immutabile natura a un termine. È il caso di Claudio Cerasa: «Se le parole hanno un senso, il matrimonio è quello che viene celebrato tra un uomo e una donna che si sposano sapendo bene che sull’etimologia delle parole non si può equivocare: matrimonio viene da matrimonium, è l’unione tra due parole latine, mater, madre, e munus, dovere, compito, ed è un’unione che esiste per sancire l’amore tra due persone che si amano e che desiderano rendere legittimi e tutelati i figli nati dall’amore tra due persone di sesso diverso. Il matrimonio è questo, con le parole non ci si può sbagliare» (Il Foglio, 27.5.2015).
Questo implicherebbe che il possesso di beni materiali non sia lecito a una donna, perché il patrimonium è prerogativa di un pater, e che un ciao sia attestato di soggezione, perché viene dal veneto sciao, che a sua volta viene dal latino sclavus, che vuol dire schiavo (vostro). In tutta evidenza siamo dinanzi alluso più infelice della logica che assegna un senso alle parole, ma sarà che Cerasa viene da cè rasa, e sottintende tabula

mercoledì 27 maggio 2015

Voi dovete avere comprensione per il povero Parolin

Voi dovete avere comprensione per il povero Parolin, perché, col definire «una sconfitta per lumanità» il risultato del referendum che consente il matrimonio tra due irlandesi dello stesso sesso, si è preso lingrato compito di dire a nome di Bergoglio quello che Bergoglio ha pensato bene di non dire di persona, per non guastarsi licona che finora è riuscito a rifilare ai cretini. Pensateci: quando mai si è visto intervenire un Segretario di Stato a stigmatizzare che in Cile fosse legalizzato il divorzio o in Uruguay laborto? Roba che spetta alla Conferenza episcopale del paese in cui lumanità ha accusato la «sconfitta», ai responsabili delle Congregazioni e dei Pontifici Consigli di pertinenza, e poi a qualsiasi tonaca abbia voglia di dar aria alla dentiera, come daltronde sta accadendo anche in questa occasione, ma in casi come questi, solitamente, il Segretario di Stato lascia dire, e tace, perché i suoi compiti sono altri, e cioè quelli che trovate elencati nella Costituzione Apostolica «Pastor Bonus» (39-47), e che in sostanza ne fanno la cinghia di trasmissione tra il Pontefice e la Curia, verso linterno, e il plenipotenziario nel disbrigo delle relazioni internazionali, verso lesterno. Nel decidere che proprio a Parolin spettasse esprimere lopinione più severa su quello che è accaduto in Irlanda, con quanto di irritante potesse provocare in quanti hanno giudicato positivamente lesito del referendum, e di consolatorio in quanti lhanno giudicato negativamente, cera il chiaro intento di dare a intendere a questi ultimi che «una sconfitta per lumanità» fosse il giudizio di Bergoglio, risparmiando nel contempo una delusione ai primi, se così cretini da essersi fin qui illusi che questo papa è un libertario che con la copertina del Malleus maleficarum ci fa i filtri per le canne.

martedì 26 maggio 2015

Sull’abolizione della schiavitù (Peter Cited, 26 giugno 1865)

Provo a parafrasare ciò che Pietro Citati scrive sul Corriere della Sera di oggi a commento del referendum irlandese. Lascio pressoché intatto il suo testo (sulla sinistra) apportando solo le opportune modifiche (sulla destra). 


A me pare che non sia necessario alcun commento. 




lunedì 25 maggio 2015

[...]



Solitamente è raro che un tentativo di persuasione si serva di più di due o tre fallacie, perciò vale la pena segnalare larticolo siglato con un elefantino rosso oggi su Il Foglio, che ne contiene ben otto, per giunta potenziate da un registro di mestissima ironia che le mimetizza nella rassegnata posa del saggio dinanzi allennesima vittoria che la follia ha riportato sulla ragione: parlo delle fallacie cui la scuola di logica formale di tradizione anglosassone ha dato i nomi di appeal to authority, appeal to belief, appeal to consequences of belief, appeal to common practice, appeal to emotions, appeal to fear, misleading vividness e slippery slope. Sembra, tuttavia, che lautore dellarticolo non abbia alcuna certezza che tutti questi mezzucci possano ottenere leffetto desiderato, perché per lultima delle fallacie alle quali fa ricorso, quella del piano inclinato lungo il quale il mondo occidentale è destinato a scivolare consentendo il matrimonio a due individui dello stesso sesso, sente lurgenza di piazzare alla fine del pendio unimmagine che verosimilmente ritiene dovrebbe risultare decisiva al fine di persuadere il lettore: «cè solo da sperare – dice – che a correggere noi sterilizzatori della tradizione non arrivino i ripopolatori islamici del mondo [che] lo farebbero con scarsa grazia»Siamo autorizzati a leggere questa frase in modo diverso da quello che recita il testo? Dopo essere stati fatti oggetto di così larga utensileria sofistica, direi di sì.
È genuina la speranza che non sia lislam a rimettere ordine laddove l’occidente secolarizzato ha fatto disordine, perché avverrebbe senza dubbio in modo violento, o non è piuttosto giusto ritenere che quella violenza ci venga prospettata come il giusto prezzo da pagare per aver osato tanto? Da lettori abituali de Il Foglio, ci è lecito supporre che valga la seconda ipotesi, qui avvalorata dall’ennesimo rimando a quel «nichilismo» sotto il quale il giornale ha sempre rubricato tutto ciò che era oggetto delle sue «battaglie culturali» a difesa dei «principi non negoziabili». Qui allora vale la pena di segnalare il curioso cortocircuito logico che ci è offerto da quest’articolo, al quale forse abbiamo dedicato pure troppa attenzione se rapportata allo scarsissimo rispetto che esso mostra verso il lettore: in sostanza, chi è a favore del matrimonio tra due individui dello stesso sesso agevola l’ampliarsi di quel vuoto di valori giudaico-cristiani che giocoforza sarà destinato ad attrarre – non si argomenta il perché e il percome, ma siamo tenuti a darlo per scontato – i barbari dell’islam, i quali – toh, combinazione! – restaureranno l’eterno ordine del matrimonio tra maschio e femmina sgozzando a destra e a manca. Come a dire: dove non siamo stati capaci noi a convincervi con le buone maniere, vi meritate arrivino loro a convincervi con quelle cattive.
Rozza nel fondo e ipocrita in superficie, la ratio di questa maledictio ci dà ulteriore prova di quanto lo «scontro di civiltà» così spesso evocato da una pubblicistica strabica e ansiogena altro non sia, in realtà, che un patto non siglato tra due inciviltà contro un comune nemico: la libertà che si va affrancando da antiche regole, le quali non reggono più da tempo alle pressanti istanze rappresentate dai bisogni degli individui. E qui, in quest’articolo scritto all’arrivo della notizia che in Irlanda il matrimonio gay è legge dello stato, l’unica differenza che è dato cogliere tra la tradizione difesa da Giuliano Ferrara e quella difesa dal Califfo è che la prima non ha nemmeno più gli strumenti per imporsi con degli argomenti convincenti, sicché è costretta a vagheggiare le scimitarre di cui si serve la seconda. Senza nemmeno potersi permettere di farlo in modo esplicito, ma dissimulandolo in una profezia di sventura. Siamo davvero messi male, direi.

domenica 24 maggio 2015

Bergo’, non mi fraintendere

Bergo’, non mi fraintendere, lungi da me la presunzione di impancarmi a esperto di pastorizia, e poi per far la lezioncina a te, che sei pastore per antonomasia, però, che cazzo, hai il gregge che sta a vomitare bile pure dalle orecchie, non puoi star lì, patulae recubans sub tegmine fagi silvestrem tenui Musam meditaris avena, e far finta di niente. Non dico scomunicare lIrlanda in blocco, ma puoi far finta che non sia accaduto niente?
Oggi belavano da far pena, e tu? Un pensierino sulla Grande Guerra, tanta apprensione per chi soffre nel Golfo di Bengala e mezza pippa sul beato Romero. Questo allAngelus, ma vogliamo parlare dellomelia? Ennesima tirata contro la corruzione, ok, non guasta mai, fa tanta simpatia, ma almeno un avverbiuccio che lasciasse intendere che tra i corrotti tu ci metti pure chi corrompe un istituto come il matrimonio – dico – che ti costava? Una cosuccia ambigua – dico – che si capisse e non si capisse, e invece? Col massimo rispetto, eh, un cazzo di niente.
Idem coll’ennesimo promo dell’enciclica ecologica, che sarà sempre troppo tardi quando ti deciderai a pubblicarla: che ti costava parlare del buco dell’ozono buttando lì distrattamente un’allusione...? Ok, vabbè, come non detto, questo sarebbe stato troppo pure per Siani e per Mammucari, però suppongo avrai capito: far finta che in Irlanda non sia accaduto niente è stato peggio, molto peggio di un «cazzo in culo non fa figlio, solo salsa di coniglio», che poi ci avrebbero pensato Vian, Tarquinio e gli altri a rimediare dicendo che proprio questa sembra essere la più attendibile versione di un papiro di Qumram.
Insomma, fa qualcosa, ché, come a Clarice Starling straziava il cuore, tutto ’sto belare a noi laicisti strazia i coglioni. 

Il default antropologico non ci preoccupa

Il default antropologico non ci preoccupa, anzi, riusciamo a farne motivo di vanto, come di uno specifico che dia destino ad un carattere, che ormai solo per comodità chiamiamo cattolico. In realtà, il cattolicesimo – come blocco di potere, come corpo dottrinario, come sistema culturale, come universo psicologico, come cazzo vi pare – centra, sì, ma solo fino a un certo punto: quando diciamo cattolico intendiamo dire italiano, avendone l’idea di una felice, irripetibile e mai abbastanza apprezzata sintesi di due sudditanze che ci consentono di sentirci liberi nella permanente fluttuazione dalluna allaltra.
Se non è chiaro, guardate le reazioni alla notizia che arriva dallIrlanda. Lasciate perdere chi dellessere nominalmente italiano – in questa occasione, ma non solo – si vergogna in modo più o meno esplicito, più o meno cosciente, perché a rigor di logica neanche può dirsi italiano se non va fiero della merda che gli sta attorno e dentro: guardate gli altri, gli italiani veri, quelli compresi nello spettro che va dal ritenere che lomosessualità sia un peccato, una disgenesia o una perversione, sennò un mix, al concedere che non sia niente di tutto questo, ma che comunque il matrimonio non le si attagli, tuttal più possa andar bene un surrogatuccio, e per piacere non parliamo di adozioni, ché invece di due babbi o di due mamme è meglio un babbo frocio e una mamma lesbica, e «questa mica è omofobia, i gay li trovo assai carini, ho pure un amico che è gay, nel guardaroba ho pure una giacca di Dolce & Gabbana e riconosco il genio di Leonardo da Vinci».
Sembra variegato, il blocco, e al punto da far venire pure qualche scrupolo nel metterci dentro chi alla notizia che arriva dallIrlanda reagisce con un «vabbè, si sa che il mondo va in malora, ma qui – da noi – mai» e chi, vabbè, forse sarebbe è venuto il momento di pensare a «una legge giusta ed equilibrata che garantisca pari diritti alle coppie omosessuali [ma] non c’è bisogno [di usare il] termine “matrimonio”» (il primo virgolettato riassume alla meglio i tweet di Roberto Formigoni, il secondo è testuale, di Pierluigi Battista): via ogni scrupolo, sono solo diverse sfumature dellessere italiano nel modo che sul “matrimonio” non ammette sia messo in discussione chi ne abbia diritto e chi no. Ormai, per come girano le cose, non ha più senso far distinzione tra un Formigoni e un Battista più di quanto ne abbia farla tra chi neghi il pane a chi lo chiede e chi proietti dal balcone un ologramma a forma di brioche.  

sabato 23 maggio 2015

«Gomblotto!»

La Consulta sul taglio dell’indicizzazione delle pensioni, Bruxelles sul reverse charge dell’Iva alla grande distribuzione, ora manca solo un avvisetto di garanzia e un cazziatone di Avvenire, poi la paranoia che è tipica d’ogni Ghepensimì potrà finalmente uscire dalla tana. Ne avremo preavviso al primo dei suoi claqueur che urlerà: «Si tratta di un gomblotto!».

Crunch!



«Mi piacerebbe che si arrivasse a un sindacato unico»
Matteo Renzi (Bersaglio mobile – La7, 22.5.2015)



«Sa di nuovo, no? Tanto chi lo ricorda più, il sindacato unico del 1926? Dammi retta, Meb, il paese ci vedrà un’altra semplificazione. In fondo è bastato cambiarle nome e chi si è accorto che abbiamo reintrodotto la legge Acerbo?» 

«Ok, capo, però evitiamo di offrire il fianco ai rompiballe. Facciamo come col partito unico, che a chiamarlo partito della nazione fa tutto un altro effetto. Invece di sindacato unico, sindacato della nazione, buonsindacato, chessò, sbloccacontrattazione...»

«Uhm, sboccacontrattazione non è niente male... Tu intanto avverti i ragazzi che, quando avremo un partito unico e un sindacato unico, a nessuno scappi di chiamarlo corporativismo. Rubrichiamo tutto sotto l’hashtag #cambiaverso, così il verso continua a rimanere nel vago»

«Lo dico a Luca...»

«Bene. Passami le patatine...»

E così il cerchio si chiude


Neanche candidarli, quelli condannati. Via dalle liste, a ogni tipo di elezione. Anche se condannati solo in primo grado? Sì, anche quella era condizione ostativa. Valeva solo per le liste del Pd? No, il Pd lo pretendeva anche per le liste dei partiti della coalizione che guidava.
Era ieri, si tratta di quanto recitava il Codice etico in allegato al programma che il Pd sbandierava alla vigilia delle elezioni politiche del febbraio 2013. Potevano chiamarlo in altro modo – chessò, Galateo elettorale – e invece no, quelle disposizioni volevano avere la cogenza del codice, vantando di trarre ispirazione da un imperativo morale.
E allora suppongo mi sia lecito affermare che nel Pd, nel giro di due anni, dev’esserci stata una profonda revisione critica di quanto prima era etico e oggi, palesemente, non lo è più. Palesemente, perché sostenere nel 2013 la candidatura di De Luca a governatore della Campania avrebbe sollevato un impedimento di natura morale, non ha importanza se solo nella forma dello scrupolo, mentre oggi, a quanto pare, non lo solleva più, neppure declassando lo scrupolo a dubbio, a tatto, a ultima premura.
Oggi il Pd sostiene la candidatura di uno che due anni fa sarebbe stato incandidabile, e il sostegno è espresso nel modo più qualificato, dal segretario del partito. Il quale pare non abbia lesinato qualche scrupolo nel tentativo di evitare la candidatura che oggi appoggia senza porsi alcuno scrupolo. E così il cerchio si chiude.

venerdì 22 maggio 2015

[...]

Senza dubbio attraente, per gli amanti del genere, lipotesi di Sandro Veronesi sul Vangelo di Marco (la LetturaCorriere della Sera, 17.5.2015): sostiene che la raccolta di detti di Gesù nota come fonte «Q», trasfusa nei Vangeli di Matteo e di Luca, non fosse ignota a Marco, come si è sempre creduto, ma che da questi sia stata deliberatamente espunta, perché poco adatta al pubblico romano, cui il suo Vangelo sarebbe stato espressamente indirizzato. «Hai davanti – scrive – il più grande impero della storia, gente ricca, evoluta, che ha già l’acqua calda in casa e schiavi a volontà, non puoi dire loro di porgere l’altra guancia, o convincerli con le altre parole contenute nel Discorso della Montagna. [...] Marco ha tagliato delle parti per una questione di composizione: aveva chiaro che doveva dialogare con l’immaginario epico dei romani. Il Vangelo di Marco è il Vangelo dell’azione: è lungo la metà delle pagine degli altri, e che cosa manca? Le parole, non le azioni. Ma i romani non avevano alcun interesse nelle parole di un popolo che non significava niente per loro. Le azioni, le guarigioni, i miracoli, gli esorcismi invece erano entusiasmanti». Brillante, ma non del tutto convincente, perché il Vangelo di Marco non è affatto privo di affermazioni che potessero suonare estremamente fastidiose alle orecchie dei romani, comè nel caso di Mc 10, 23 («Quanto difficilmente coloro che hanno ricchezze entreranno nel Regno di Dio!»). Basti pensare al modo col quale la società romana di quei tempi reagisse a discorsi simili, comè nel caso di Seneca, che godé sempre di ottima reputazione, anche nei momenti bui sotto Claudio, prima, e sotto Nerone, dopo, fatta eccezione per le critiche, anche abbastanza acide, che gli piovvero addosso quando osò svilire lattaccamento ai beni materiali, e che lo costrinsero subito a precisare che essere ricchi non fosse comunque ostacolo alla saggezza (De vita beata, 21). Se il suo Vangelo mirava eminentemente a un dialogo con i romani, Marco avrebbe lasciato quel paragrafetto? 

[...]

«Lamore è un’invenzione del XII secolo» (Charles Seignobos), già questo basterebbe a scoraggiarci dal porci la questione di come si possa più appropriatamente immaginare, ai nostri giorni, un matrimonio plasmato sul modello di amore coniugale che Paolo illustra nella Lettera agli Efesini, per giunta liquidandolo in mezza dozzina di versetti. Si pensi, dunque, quanto insostenibile avrebbe da essere la fatica di chi volesse farsi anche soltanto uno straccio di idea sullarmoniosa corrispondenza di affetti che, in unintervista concessa a Lettera 43, la moglie di Mario Adinolfi ci assicura sia perfetta proprio grazie allosservanza del dettato paolino. Perciò mi scuso con quanti mi hanno chiesto di commentare questintervista, confessando che non posseggo tutta sta forza. Mi limiterei ad una sola annotazione, a margine del passaggio in cui si legge che, «nella esegesi dellAdinolfi pensiero, i mariti hanno il dovere di amare le mogli come il proprio corpo»: chiamate la polizia! 

giovedì 21 maggio 2015

[...]


Un po stupisce che Vilfredo Pareto, sempre acutissimo, qui incorra in un incidente argomentativo tanto increscioso. Il brano è tratto dal IV capitolo di Trasformazione della democrazia (1921) e a rivelarne il difetto logico non è neanche il fatto che dia la democrazia in ottima salute praticamente alla vigilia della Marcia su Roma, per giunta in una stagione in cui è messa in discussione innanzitutto sul piano teorico, quanto invece la confusione tra fede e religione, e quindi, mutatis mutandis, tra sostanza e forma della democrazia, che altrove sa peraltro tenere ben distinte, seppur critico verso entrambe. Riprendendo il suo esempio dalla novella del Boccaccio, cosa persiste alle male opere dei prelati romani, la fede o la religione? E cioè: quale prova di sostanza democratica è data dalla mera forma democratica? Si finge ciò che a molti è ben accetto, è vero, ma questo non dà alcuna ragione del perché lo sia, né rende conto di cosa esattamente sia ben accetto. Sempre per tenerci sullesempio proposto, Boccaccio può dare una spiegazione della conversione dellisraelita prendendo per buono il motivo che da quello gli è offerto (o attribuendoglielo nella finzione narrativa), ma questo non scioglie il dilemma se le male opere dei prelati romani indeboliscano e al contrario rafforzino quella che di fatto non è la reale potenza della fede, ma la sua mera rappresentazione (υποκρισιη). 

martedì 19 maggio 2015

Di quanti avete riso?

Non ho alcuna intenzione di unirmi ai tanti che pare non riescano a trovare altro che una ridicola macchietta in Gerardo Bevilacqua, anzi, vorrei invitare il mio lettore ad una riflessione seria, pregandolo di astenersi da ogni commento anche solo delicatamente beffardo. Il video che qui sotto allego, quindi, valga esclusivamente come materiale dal quale traggo le ragioni della mia riflessione, non come bersaglio che intendo offrire allirrisione o, peggio, allinsulto, che in ogni caso provvederò a censurare.
Ciò detto, comincio col dire che devo la scoperta di Gerardo Bevilacqua a un tweet di @makkox e che questo post è concepito come risposta ai commenti che ha sollecitato. Bene, visto che chi ha qualche dimestichezza con queste pagine non dovrebbe essere del tutto alloscuro di cosa io pensi della politica che si fa vanto di aver perso la dimensione ideologica in favore della narrazione di una vicenda personale, quella del leader carismatico, che è offerta a militanti, simpatizzanti ed elettori come un genere di consumo, qui potrò tagliar corto limitandomi a porre solo tre domande.
La prima: a quanto assomma in percentuale il bacino di consensi che va a quei leader che offrono questo tipo di prodotto? Non meno dell80%, forse addirittura il 90%: Renzi (35-37%), Grillo (20-24%), Berlusconi (12-17%), Salvini (12-14%), Pannella (0,2-0,4%). Dovrebbe esser chiaro che, se il mercato del consenso politico è contraddistinto da un certo tipo di domanda, lofferta di chi scende in campo non potrà che andarle incontro, e occorre avere due spesse fettine di salame sugli occhi per non riuscire a cogliere che i prodotti commerciali sopra citati sono tutti presi a modello nei dieci minuti di comizio di Bevilacqua. Con risultati scadenti, mi si dirà, e qui concordo, ma solo per porre la seconda domanda.
La piazza di Cerignola era stracolma come mai sarebbe riuscito ad ottenere chi vi avesse portato un altro genere di offerta, e a quanto pare, per ciò su cui un po tutti ormai convengono, limportante in democrazia è quanta gente hai sotto il palco. E dunque: che c’è da ridere?
Concordo anche sul fatto che una cosa sia riempire le piazze e unaltra le urne, ma allora conviene sospendere ogni giudizio su Bevilacqua, soprattutto se sarcasticamente liquidatorio, in attesa del risultato che otterrà. Nel caso sarà buono, non si potrà biasimare chi lo ha votato, ma solo, eventualmente, chi ha fin qui resi vincenti i modelli cui si ispira. E qui chiudo, con l’ultima domanda: di quanti avete riso, perché sembravano patetici buffoni, di cui ora non potete che aver paura?

lunedì 18 maggio 2015

Siamo alle solite

Siamo alle solite, Ferrara crede di potere aver la meglio sugli altrui argomenti distorcendoli a suo piacimento. Vi risulta che fra quanti sono contrari a un preside che possa scegliersi i docenti che vuole (e va a capire dovendone dar ragione a chi) ce ne sia uno solo che sollevi lobiezione che quello possa essere un coglione? No, eh? E infatti. Lobiezione è che di questo potere un preside possa facilmente abusare, creando odiose situazioni in cui capriccio o peculato possano dar vita a discriminazione o a mobbing. E dunque quale funzione assume il controargomentare che coglioni possono essere pure gli studenti, i loro genitori, gli insegnanti, i rappresentanti sindacali della scuola, eccetera? Ma è di piana evidenza: stornare lattenzione dal vero nodo della questione, per ridicolizzare chi la solleva. Certo, chiunque può essere un coglione, di fatto lo è soltanto chi si fa infinocchiare da mistificazioni tanto dozzinali, mentre la differenza che cè tra una gestione monocratica ed una collegiale, soprattutto su punto tanto delicato come il criterio della selezione del corpo docente, resta immutata. Ma coglione di gran lunga più grosso è chi si beva quel «crocianesimo di Togliatti», che non merita nemmeno un commento, ma solo una smorfia che compendi disgusto e compassione.