sabato 13 luglio 2013

La cosuccia («Strumento di democrazia diretta» / 2)

In uno dei miei ultimi post («Strumento di democrazia diretta» - Malvino, 2.7.2013) ho illustrato l’opinione decisamente scettica del socialista Arturo Labriola (1873-1959) sul referendum, strumento di democrazia diretta – sosteneva – che vuol essere un «correttivo» della democrazia rappresentativa, ma che in pratica si rileva sempre «inutile» o «impotente». In parte ho fatto miei i suoi argomenti, che mi sono parsi convincenti, e ho invitato il lettore a esaminare i risultati dei referendum tenutisi in Italia negli ultimi quattro o cinque decenni liberandoli dalla retorica celebrativa: quello sul divorzio e quello sull’aborto, solitamente citati per rappresentare l’istituto referendario come il più alto momento di partecipazione del cittadino alla gestione della cosa pubblica, si limitarono a ratificare due leggi varate dal Parlamento, mentre la volontà espressa nell’esito di molti altri – due per tutti, quello sull’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti e quello sulla responsabilità civile dei magistrati – fu tradita senza troppa difficoltà.
Mi è stato fatto notare che l’esempio italiano non è il migliore per saggiare potenzialità e limiti dell’istituto referendario, invitandomi a considerare quello svizzero. È obiezione che fu sollevata anche alla tesi espressa da Arturo Labriola, che la rigettò portando a esempio i risultati dei 128 referendum tenutisi nel cantone di Zurigo tra il 1874 e il 1893, e concludendo – sennatamente, a mio modesto avviso – che si era votato su questioni sostanzialmente irrilevanti. E tuttavia il modello svizzero veniva da lui contestato nellimpianto: «Il corpo elettorale deve deliberare intorno a questi punti e deve adottare una decisione. Ogni giudizio di insieme sfugge e deve evitarsi. La mozione presentata si giudica per ciò che appare. Essa è quella che è. L’elettore, deponendo nell’urna il suo bollettino, afferma soltanto che intorno a quel punto determinato la sua volontà è questa o quest’altra. Non esamina i motivi che hanno determinato la proposta, non questiona intorno al modo pratico come verrà eseguita, non giudica degli uomini chiamati all’ufficio delicato di applicare e, meglio ancora, di interpretare la legge: dà un avviso intorno alla “cosa” e nulla più. Questa è ritenuta una manifestazione di radicale democrazia, eppure è soltanto una pericolosa illusione […] Carezzando la vanità popolare col pregiudizio che gli uomini in fondo contino nulla in regime apparentemente democratico, cioè soggetto alla volontà popolare, e che a nulla riducasi il potere dei governanti dove essi siano semplici ministri e strumenti di altrui volere, si sollevano effettivamente questi uomini al di sopra del comune livello e si dà loro una strana supremazia».
Quand’anche sia di solo impiego «correttivo» della democrazia rappresentativa, per Arturo Labriola, il referendum ha in sé il pericolo che sta nella democrazia diretta: parcellizzare la gestione della cosa pubblica in istanze disarticolate da un progetto di società, che con ciò non è smarrito nelle contraddizioni del plebiscitarismo, ma trasferito in modo più o meno occulto nelle mani del demagogo di turno. «Vi furono forse democrazie più dirette e radicali di quella di Atene? Quale corruzione vi si esercitasse è roba che si apprende nelle prime scuole. E, a dirla come sta, e in modo che non ci si senta troppo, è stato sempre più facile corbellare le masse e corromperle in tutte le forme, che acquistarne i corifei. […] Trasferire la responsabilità di un fatto dagli uomini alle masse è già un modo facile di eliminare ogni responsabilità. […] Il concetto della responsabilità è un concetto esclusivamente personale. Più oblitera questo carattere e più si oblitera esso stesso».

Non si scandalizzi, il lettore, ma questa voleva essere solo la premessa a riflettere su una cosuccia tanto piccina che sotto tutto quanto fin qui detto rischia addirittura di rimanere schiacciata per la sua irrilevanza: qualche giorno fa Beppe Grillo ha espresso il suo favore ai referendum di cui si sono fatti promotori i radicali di Marco Pannella e oggi Silvio Berlusconi ha annunciato il suo appoggio alla raccolta di firme per alcuni dei quesiti. Due cosucce, dunque? No, una sola. Infatti, a sostenere un’iniziativa referendaria chi nel promuoverla, chi nell’appoggiarla in modo generico, chi nella dichiarazione dimpegno attivo (sebbene limitato ad uno solo dei due pacchetti di quesiti, quello sui temi di natura giudiziaria) – troviamo tre leader politici che tra i molti tratti in comune hanno leadership di tipo carismatico, proprietà di fatto del movimento che guidano e gravi disturbi della personalità. Si tratta della triade che Kets De Vries individua nella figura del demagogo (Leaders, fools and impostors, 1993). Ci troviamo, in sostanza, di fronte al paradigma del momento di democrazia diretta che si fa strumento di quella che per Labriola è «una pericolosa illusione»
A scanso di equivoci, però, occorre qualche chiarimento. Quasi tutti i referendum di cui si sono fatti promotori i radicali pongono questioni di rilievo e in buona sostanza propongono l’abrogazione di leggi che a mio modesto avviso sarebbe giusto abrogare. Non entrerò nel merito delle questioni poste dai dodici quesiti, mi limiterò a segnalare che su due – l’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti e la responsabilità civile dei magistrati – abbiamo già votato e con esito che Labriola definirebbe «inutile» o «impotente». Tentar non nuoce, e forse neppure ritentare, ma – dicevamo – qui ci interessa solo la cosuccia, perché sul fatto che gli uomini che hanno in mano le leve dello Stato, «se vogliono, possono accettare il voto popolare, ma, se non vogliono, possono vittoriosamente resistervi», abbiamo già discusso nel post che ho citato all’inizio.
Un altro chiarimento necessario è relativo alle ragioni che portano a questa singolare congiunzione di astri nel firmamento della politica italiana. Ellittiche diverse, naturalmente, quelle di Pannella, di Grillo e di Berlusconi. Il primo è da almeno due decenni alla disperata ricerca di uscire dall’isolamento che peraltro ha ostinatamente cercato. Non è il caso di dilungarci troppo, su queste pagine la «cosa radicale» è stata oggetto di analisi in più occasioni. In breve, qui, possiamo limitarci a dire che lo strumento referendario era stato un po messo da parte dai radicali: costava energie sempre maggiori e dava risultati sempre minori. E tuttavia per Radicali Italiani, il soggetto della cosiddetta «galassia radicale» che negli ultimi anni è venuto a dar segni di sempre più manifesta insofferenza al settarismo di Pannella, il referendum è parso il solo tentativo possibile per rompere l’isolamento, e la scelta di sei temi sui quali i sondaggi danno da tempo il favore di larga parte dellopinione pubblica nazionale è parsa la via più sicura. Non era quello che Pannella voleva. Trovandosi a dover accettare il fatto compiuto, ha aggiunto al pacchetto dei sei referendum promossi da Radicali Italiani quello suo, con altri sei referendum, su temi riguardanti la giustizia. Difficile capire se l’abbia fatto per riprendere il controllo dell’iniziativa politica della «galassia» neutralizzando le velleità di autonomia montanti in seno allarea, di fatto sta che i dodici quesiti referendari per i quali i radicali si stanno spendendo a raccogliere le firme si rivolgono a sensibilità che trovano congruità solo in un liberale: nella realtà italiana, che di liberale ha poco o niente, i primi sei chiamano a raccolta la sinistra e i secondi sei la destra.
Per Grillo il discorso è completamente diverso. Innanzitutto non è affatto certo che sapesse di cosa si trattasse quando il giornalista di Radio Radicale gli ha posto la questione. Attestato da sempre su posizioni giustizialiste, il M5S appoggia il referendum sulla separazione delle carriere dei magistrati o quello che pone maggiori limiti alla custodia cautelare? Bah, può darsi, di certo c’è soltanto che alla dichiarazione molto estemporanea, molto vaga e per nulla impegnativa non è seguito altro, al momento. Forte è il sospetto che Grillo fosse a conoscenza solo del primo pacchetto di quesiti referendari (abolizione del finanziamento pubblico ai partiti, libertà di scelta nella destinazione dell8xmille, introduzione del divorzio breve, abolizione della carcerazione per fatti di lieve entità relativi alle vigenti norme sugli stupefacenti, ecc.).
Diametricamente opposto il discorso per lappoggio attivo, in questo caso – annunciato da Berlusconi: è altamente improbabile che i suoi si impegneranno nella raccolta di firme per toccare i punti sensibili della Bossi-Fini o della Fini-Giovanardi, altamente improbabile che facciano uno sgarbo alla Cei su questioni come il divorzio breve e l8xmille. Inutile sottolineare, inoltre, il senso strumentale che assume il suo appoggio alla campagna referendaria radicale  per la «giustizia giusta» nel frangente che lo vede impegnato come mai prima nella difesa delle sue sorti di indagato e di condannato in attesa di sentenze definitive.

Se il lettore ha avuto la pazienza di arrivare fino a questo punto, potrà essere indulgente con chi ha voluto solo tratteggiare per sommi capi le vie che portano i tre a questo assai malfermo accordo su gambe entrambe zoppe: l’intenzione non era quella di delineare lo scenario politico italiano dinanzi alle variabili poste dai referendum radicali, se mai si terranno, ma di tornare come daltronde era annunciato dal sottotitolo del post alla critica sollevata da Labriola.
«Strumento di democrazia diretta», il referendum. Anche quando si dà come «correttivo» di una democrazia rappresentativa, tuttavia, non perde i caratteri che rendono pericolosa la democrazia diretta fatta sistema.  Strumento, dunque, non solo «inutile» o «impotente», ma anche rischioso. E il rischio se a questo punto non è superfluo aggiungerlo – è tutto a carico dei cittadini che, illudendosi di farsi legislatori in prima persona, non fanno altro che offrirsi, più o meno coscientemente, ai disegni di chi non si fa alcuno scrupolo nel «corbellare le masse».  


Aggiornamento (15.7.2013) «Forte è il sospetto che Grillo...», dicevo. Sospetto ben fondatofa sapere che non sapeva di cosa parlava e ritira il suo appoggio 

mercoledì 3 luglio 2013

«Legge Proust, dice che la politica non è affar suo»

Ho già fatto un breve cenno al discorso che Giorgio Napolitano ha tenuto in occasione del 60° della morte di Benedetto Croce (qui), oggi ne propongo alcuni stralci, premettendo che l’approccio alla figura del filosofo è nel suo insieme (qui) assai parziale: nulla sul suo pensiero, nulla sulla sua opera, e meno male, sennò sarebbe stato inevitabile qualche imbarazzo. No, tutto il discorso è centrato sull’arco temporale che segue alla fuga di Croce da una Napoli martoriata dai bombardamenti per riparare a Sorrento, e l’unica fonte alla quale attinge Napolitano sono i diari vergati in quei mesi, prima che anche Sorrento si rivelasse poco sicura e gli Alleati gli offrissero riparo a Capri. Chi ha letto quelle pagine non ha potuto fare a meno di pensare che fossero scritte per diventare pubbliche, e il malpensante avrà avuto il sospetto che servissero a nutrire ulteriormente l’automitobiografia di uno che fu sempre molto attento a curare la propria immagine, un po’ per vanità, un po’ per lasciarla in eredità alle figlie perché ne lucrassero. Ma forse qui sarà il caso di lasciare la parola a Napolitano per valutare l’efficacia di quelle pagine sul lettore ingenuo o – piacere – sul commemorante che si specchia nel commemorando.


Sarà. A me pare che bastino poche righe del diario di Leo Longanesi a far collassare tutta questa schiuma retorica (Parliamo dell’elefante – Longanesi & C. 1947 – pag. 180).



martedì 2 luglio 2013

«Strumento di democrazia diretta»

1. «Quale estensione intendono dare gli antiparlamentaristi al principio di legislazione diretta ed in che modo intendono intrecciarla al funzionamento degli istituti sociali, posto che l’organizzazione del governo, anche ridotto ad una macchina che applichi le deliberazioni del popolo, non possa abbandonarsi al criterio personale di alcuni uomini, sottratti ad ogni contatto popolare, per non far essi parte di un’assemblea deliberante?». A porsi la domanda è Arturo Labriola nel primo di tre articoli che uscirono su Critica Sociale nel 1897, in polemica con «quanti propongono una organizzazione tale della legislazione diretta, per mezzo della quale ogni traccia di governo parlamentare sia completamente tolta via», al fine di eliminarne i guasti, «i quali, in verità, se si ammettono tanto gravi e così rivoltanti, non possono eliminarsi se non con la più radicale distruzione del sistema che vi dà organicamente origine». Polemica che in generale era rivolta ai fautori della democrazia diretta, ma che nello specifico aveva per oggetto uno dei suoi strumenti, quello della pratica referendaria: Arturo Labriola vede nel referendum, laddove esso diventi uno strumento di legislazione corrente, gli stessi pericoli che nella democrazia diretta sono stati segnalati fin da Tucidide, e che in buona sostanza sono relativi al rischio di imboccare quella che per Kant è «la via che porta al dispotismo». Dopo aver brevemente descritto il modello di democrazia diretta proposto da uno dei suoi più convinti sostenitori, il quale teorizza un sistema legislativo basato su un assemblearismo permanente che proprio nella pratica referendaria trova il suo motore deliberativo, Labriola chiede: «Tralasciando obbiezioni che faremo in seguito ed ammesso ciò che non sarà mai [...], sarebbe questo un modo serio di far funzionare la macchina politica di un grande Stato? [...] Qui occorrerebbe pensare ad una nazione la quale, anziché preoccuparsi della sua vita materiale, stesse tutto il santo giorno nel foro ad ascoltare i novellissimi Ciceroni pronti ad imbrogliarla non diversamente dagli antichi. Ora, se tutto ciò era possibile nelle vecchie democrazie, che erano organizzazioni di liberi divisi in classi fra loro egualmente sfruttanti il lavoro degli schiavi [...], non lo è punto nelle democrazie moderne, fra le quali si suppone che ciascuno abbia da procurarsi da sé stesso il proprio sostentamento».

2. Volessimo portare i motivi della polemica di Labriola ai nostri giorni, segnati da una rimontante infatuazione per la chimera della democrazia diretta, potremmo chiederci: ma uno può stare tutto il santo giorno a studiare ogni più minuto aspetto riguardante ogni più minuta questione relativa ai problemi che esigono in fase deliberativa un parere adeguatamente informato? Conosciamo la risposta di Gianroberto Casaleggio: la Rete darà vita ad una «realtà aumentata» nella quale il «cittadino» sarà trasformato in «istituzione» acquisendo una «conoscenza superiore su qualunque aspetto». Risposta che non convince: anche digitalizzato, il foro pullulerà sempre di Ciceroni. Volessimo, poi, portare la polemica di Labriola ai nostri giorni per ciò che attiene alla pratica referendaria, potremmo servirci di un esempio. Tra i dodici quesiti referendari sui quali i radicali vanno raccogliendo le firme da qualche settimana vi è quello che propone l’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti politici. Il testo del quesito (qui) è lungo 15.922 battute spazi inclusi. Ho provato a dare una rappresentazione grafica alla scheda referendaria relativa a questo quesito e la riproduco qui sotto.


Data  l’esperienza dei radicali in ordine alla presentazione di referendum alla Corte Costituzionale, non vi è alcun dubbio che il quesito sia formulato in modo ineccepibile. Di più: tenuto conto di tutti i referendum proposti dai radicali e rigettati dalla Corte Costituzionale, direi che il quesito non potesse essere formulato diversamente. Ma la questione che esso pone mi pare sia evidente: quanti elettori lo leggeranno prima di sbarrare la casella di preferenza? Meglio ancora: pur leggendolo integralmente, quanti riuscirebbero a comprenderne «qualunque aspetto»? E tuttavia sulla lenzuolata si legge il titolo che riassume il senso del quesito: Abolizione del finanziamento pubblico ai partiti politici, sì o no? Non vi è alcun dubbio che lo riassuma fedelmente, ma perché il dubbio sia fugato senza alcuna possibilità di riproporsi è indispensabile un minimo - anche solo un minimo - di fiducia in chi ha steso il quesito. Fiducia, si badi bene, che non è solo relativa alla sostanziale aderenza del testo al suo titolo, ma anche alla ineccepibilità formale indispensabile a rendere efficace la volontà espressa dal risultato della consultazione referendaria. Fiducia che fu riposta, in situazione del tutto analoga, col referendum sull’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti politici che si tenne nel 1993, dove il sì ottenne il 90,1%. Sappiamo che della volontà popolare non si tenne alcun conto e possiamo imputare questo vero e proprio crimine alla capacità della casta partitocratica di aggirare  l’ostacolo posto dall’esito di quel referendum. Ma il punto è questo: il modo in cui era posto quel quesito non fu in grado di impedirlo. E Labriola ci spiega come e perché: «In qualunque forma di società [...] la legislazione diretta è incapace, per sé sola, di corrispondere ai bisogni dell’amministrazione pubblica. Essa può immaginarsi come un correttivo del sistema parlamentare, non come un eliminatore. Ma qual correttivo è realmente efficace? Pur troppo, no; la legislazione diretta non esclude né la corruzione, né l’imbroglio, né il tradimento, e forse, sotto un certo aspetto, come mostrano le vecchie democrazie classiche, li fomenta. È almeno un mezzo rivoluzionario? Recisamente, no. La legislazione diretta o seconda la politica dominante, ed allora è inutile; o l’avversa, ed allora è impotente. Nei sistemi in cui accanto alla legislazione diretta sta il parlamento, la forza militare dello Stato, il potere esecutivo e la burocrazia dipendono soltanto dalle Camere dei rappresentanti. Senza dubbio queste, se vogliono, possono accettare il voto popolare, ma, se non vogliono, possono vittoriosamente resistervi». Come dargli torto?

3. Con una delle sue felicissime uscite, qualche giorno fa, Massimo Bordin ha detto: «La democrazia diretta si chiama così perché c’è sempre qualcuno che la dirige» (Radio Radicale, 27.6.2013). Ben detto, così riassumendo due o tre scaffali di letteratura scettica, se non avversa, alla democrazia diretta. E tuttavia sarà il caso di rammentare che il referendum altro non è che «strumento di democrazia diretta»: correttivo inutile o impotente, se vogliamo riconoscere come fondate le riflessioni di Labriola. Prevengo la più scontata delle obiezioni, riprendendo la vulgata più comunemente evocata a fronte di questa critica sollevata al più decantato tra gli strumenti di democrazia diretta: ma il divorzio, l’aborto, non li dobbiamo ai referendum? Errore: li dobbiamo alle rispettive leggi licenziate dal parlamento, i referendum si limitarono a confermarle rigettando la proposta di abrogarle.


domenica 30 giugno 2013

«Fai tu»

L’Italia dei Valori è a congresso e domani voterà per scegliere il segretario nazionale tra cinque candidati (Ignazio Messina, Niccolò Rinaldi, Antonio Borghesi, Matteo Castellarin e Nicola Scalera). Sarà eletto Ignazio Messina, Antonio Di Pietro l’ha deciso fin da un mese fa. 

sabato 29 giugno 2013

[...]



Abbandoniamoci all’istinto


D’istinto siamo portati a rigettare affermazioni fatte da individui che consideriamo repellenti. Accade per risparmiarci la fatica di verificare ogni volta se ci sia la stretta associazione tra chi parla e ciò che dice, dopo averla riscontrata in un numero più o meno consistente di occasioni. È umano, ma è sbagliato. Per meglio dire, si tratta di un errore argomentativo: quello detto «ad hominem». Bene, vedo che si commette questo errore con ciò che Mario Adinolfi ha scritto in Perché sono contrario al matrimonio gay (*): nessuno si accolla la fatica di leggere il post, di rilevare le innumerevoli fallacies di cui è infarcito (ricorso allautorità, ricorso alla tradizione, ricorso a una credenza, ricorso alle conseguenze di una credenza, ricorso alla pratica comune, ricorso allemozione, ricorso alla petizione di principio, ricorso alla nitidezza fuorviante, ricorso allanalogia del pendio scivoloso, ecc.), nessuno prova a dimostrare in modo circostanziato perché sia una merda. Niente, lo si dà per scontato: ciò che ha scritto viene rigettato perché è una merda a priori, e questo onestamente è sommamente ingiusto. Ecco perché mi sento in obbligo di mettere da parte per un istante le Noctes Atticae di Aulo Gellio, nelle quali stasera mi ero rifugiato per evitare l’ennesimo Santoro sul caso Ruby, nel tentativo di dimostrare che, nel caso, merda sì, ma solo a posteriori. E dunque...

«Con la sentenza della Corte Suprema Usa (per carità, è solo un primo passo, ma la pallina ormai è su un piano inclinato) il matrimonio gay, già sdoganato in mezza Europa, si appresta a diventare tema di dibattito anche in Italia e prima o poi legge. Mi rendo conto dell’impopolarità della mia posizione, in particolare a sinistra dove comunque ricordo la linea del Pd è contrario al matrimonio omosessuale e a favore delle unioni civili “alla tedesca” (linea su cui concordo in pieno), ma io sono stato sempre e resto contrario alle nozze gay. Provo a riassumere il perché in cinque rapidi motivi».
Sorvoliamo sulla forma sgangherata data al secondo periodo, limitiamoci a considerare quella che in premessa sembra avere la pretesa di chiarire la posizione politico-culturale di chi prende la parola, dandole un valore di coerenza che dovrebbe bastare a renderla qualificata se comparata a quella del Pd, che invece darebbe prova di incoerenza. Si tratta di un tentativo di slittamento dei piani di contesto, col quale Mario Adinolfi prova ad accreditarsi come fedele a posizioni che il Pd avrebbe abbandonato o sarebbe in procinto di abbandonare: fa affidamento sulla capacità di lasciar credere che tra le ragioni per le quali è uscito dal Pd ci sarebbe anche il mutato atteggiamento del partito sul matrimonio gay. In pratica, sarebbe il Pd ad essersi spostato, lasciandolo fuori, saldo sulle sue posizioni, che così acquisterebbero un sovrappiù di valore: primancora di esporle e argomentarle, Mario Adinolfi ci chiede un anticipo di favore, che gli sarebbe dovuto perché resiste al gorgo del mainstream che ha inghiottito il Pd. E qui si ha un ulteriore tentativo di slittamento dei piani contesto: l’opposizione al matrimonio gay è suggerita come posizione anticonformista. Cosa aggiunga o cosa tolga forza ad una affermazione se conforme o no allopinione corrente, non è dato comprenderlo. Cosa aggiunga o cosa tolga solidità agli argomenti coi quali si intende supportarla se la si è sostenuta da sempre mentre altri la abbandonavano, men che meno. Si può solo ipotizzare che con questo post Mario Adinolfi stia provando a rientrare nel Pd grazie all’interessamento di chi nel partito rimane contrario al matrimonio gay. 

«1. Per me il matrimonio è lunione tra un uomo e una donna, questo è stato per millenni. Dal matrimonio derivano diritti e doveri. La battaglia per il matrimonio omosessuale non è una battaglia per una parolina (chiamarla “matrimonio” o “pippo” cosa cambierebbe?) è la battaglia per i diritti che ne conseguono. I tre fondamentali temi di controversia sono il diritto “a formarsi una famiglia”, il diritto di successione e il diritto alla reversibilità della pensione. Sono due diritti che io contesto possano essere riconosciuti fuori dal matrimonio tra un uomo e una donna».
Anche qui sarà il caso di sorvolare sulla forma, che peraltro rende problematica la comprensione di quali siano i «due diritti» contestati sui «tre» indicati, anche se al fine di rilevare la fragilità dellimpianto argomentativo costituisce dato irrilevante (tuttavia da quanto segue si ricava che «due» sia un refuso). Quello che appare ben chiaro, invece, è il ricorso alla tradizione come fonte di autorità dirimente senza appello. Si potrebbe fare altrettanto in difesa della schiavitù, se non fosse stata già abolita in gran parte del mondo. Daltronde, chi si batteva contro la sua abolizione davenorme peso al fatto che «questo è stato per millenni». Ma il cortocircuito logico sta altrove: da un lato, infatti, si afferma che la questione non è meramente nominalistica («non è una battaglia per una parolina») e, dallaltro, come vedremo al punto 2, sembra che essa stia tutta nel nome da dare al «vincolo»  che viene a crearsi in un  «rapporto “stabile”» tra due individui che abbiano lo stesso sesso («Se rompiamo la sacralità del vincolo matrimoniale tra uomo e donna, ogni rapporto “stabile” potrà alla lunga trasformarsi in matrimonio»). È come se per la radice pater- che in patrimonio si sollevasse obiezione al diritto di possedere un bene materiale se esercitato da una donna: si tratta di paradosso, ma, come vedremo, è proprio ciò che Mario Adinolfi ritiene legittimo per la radice mater- che sta in matrimonio.

«2. Se il matrimonio è solo un timbro pubblico sul proprio amore e “davanti all’amore lo Stato non può imporre a nessuno come comportarsi”, al momento dovessimo ammettere la rottura del principio sacro per millenni che il matrimonio è l’unione tra un uomo e una donna, perché limitarci a rendere legale e matrimoniale solo il rapporto tra due donne o due uomini? Perché non accettare che ci si possa amare in tre? O in quattro? Se un bambino riceve amore uguale a quello di una madre e di un padre da due papà, perché non da quattro? O da tre papà e una mamma? O dal papà che ama tanto il proprio cane e vuole che la sua famiglia sia composta dal papà, dal cane e dal bambino ottenuto da una madre surrogata? Il cane dimostra tanto affetto verso il bimbo, quasi gli somiglia. Se rompiamo la sacralità del vincolo matrimoniale tra uomo e donna, ogni rapporto “stabile” potrà alla lunga trasformarsi in matrimonio, sarà un diritto incontestabile. Con conseguenze inimmaginabili».
Qui comincia a venir meno la motivazione allanalisi del testo, perché comincia a farsi forte il sospetto che si voglia sollevare obiezione al matrimonio gay assimilandolo a tutto ciò che non sia matrimonio tra un uomo e una donna. Sul piano logico è operazione legittima solo dopo aver assunto che l’unico vincolo degno di essere considerato matrimoniale sia quello tra due persone di sesso differente. In altri termini, è come se per sollevare obiezione al diritto di sciopero bastasse porre la domanda retorica: «Ti par bello che i ciliegi smettano di fiorire in primavera?». A chi la ponesse, basterebbe di rimando chiedere: «Scusa, ma che cazzo centra?». Poi, avendo tanta pazienza, si potrebbe anche perder tempo a spiegare la differenza tra un lavoratore e un albero da frutta. Così con Mario Adinolfi, spiegandogli la differenza tra genere e numero, e facendogli presente che un cane non ha capacità giuridica.

«3. Se due uomini possono sposarsi ne deriva il pieno diritto a formarsi una famiglia. Senza limitarsi al diritto all’adozione, no, quello è il meno. I precedenti ci dicono che il diritto a figliare forzando la natura sarà pienamente tutelato. Il caso più noto è quello di Elton John e di suo “marito” David. Sono decine di migliaia già i casi similari. Elton e David vogliono un figlio. La natura pone un limite a questo loro bisogno, come è noto. Ma Elton e David vogliono, fortissimamente vogliono. Sono sposati e ora come tutte le coppie vogliono un figlio. Allora affittano (Dio mio, faccio fatica persino a scriverlo) l’utero di una donna, mescolano il loro sperma e con quel mix la ingravidano, nasce il piccolo Zac che appena nato istintivamente viene posato sul ventre della madre e naturalmente cerca il suo seno. Zac viene però immediatamente staccato a forza da quel suo rifugio naturale e consegnato ai “genitori”. Il bimbo per un anno intero non fa altro che piangere, Elton se ne lamenta graziosamente in qualche intervista e racconta che per placarlo faceva “tirare” il latte al seno della madre naturale per allattarlo poi con il biberon. Io l’ho trovata una storia agghiacciante, una violenza terribile fatta al più debole tra gli umani, il neonato. La moda imperante considera tutto questo invece molto glamour».
Qui, francamente, si è fortemente tentati di essere indulgenti con lerrore argomentativo «ad hominem», perché dinanzi a un così palese tentativo di spostare la discussione dal matrimonio gay al diritto di allevare prole da parte di una coppia gay, e dal  diritto di allevare prole da parte di una coppia gay alla possibilità di affittare un utero, e dalla possibilità di affittare un utero al far piangere un bambino, e dal far piangere un bambino allagghiacciare Mario Adinolfi, e dal suo agghiacciarsi a quello di chi dovrebbe agghiacciarsi all’idea che due gay possano sposarsi, cè solo da chiedersi chi possa mai fottersene di sentirsi intellettualmente a posto nel dargli della merda solo se a posteriori. Lasciamo perdere, via, abbandoniamoci allistinto.                    

venerdì 28 giugno 2013

Il mito


Pare che la signora Ferrara, parlando del marito, abbia detto: «Legge Travaglio, lo fa sempre. Quando lo insulta, serve a far crescere il mito di Giuliano» (La Zanzara - Radio24, 28.6.2013). Ora, io non so come immaginate voi la scenetta domestica, io la immagino così. Ferrara seduto sulla tazza del cesso con Il Fatto Quotidiano in mano, tre quarti di natica che strabordano di qua, tre quarti dell’altra natica che strabordano di là, tazzina di caffè appoggiata sul bordo del bidet, pacchetto di sigarette e accendino appoggiate sul lavandino: «Selma, Travaglio m’insulta pure oggi». E Selma: «Bene, tesoro, così ti cresce il mito». Non so voi, a me viene una tristezza, ma una tristezza…

Presto!




S’era diffusa voce che tre francescani fossero stati decapitati in Siria da un gruppo di feroci jihadisti. Non era vero. Peccato, perché bilanciava a meraviglia la notizia dell’arresto di monsignor Scarano, fino a ieri funzionario dello Ior, villone da favola stracolmo di preziose opere d’arte, accusato di truffa, ricettazione e riciclaggio. Fosse stato vero, fossero stati sei invece che tre, si sarebbe pareggiato il conto pure con le rivelazioni di don Poggi sul giro di prostituzione maschile in Vaticano, festini incandescenti con ragazzini rumeni raccattati alla Stazione Termini, marchette da 400-500 euro e cosacce del genere. I tre francescani sono vivi, maledizione. Presto, c’è mica qualche madonnina che pianga sangue o qualche reliquia che risvegli il comatoso?

«Sfogatoi virtuali»


Un box a pag. 33 de la Repubblica di giovedì 27 giugno mi offre l’occasione di intrattenermi su una questione che avrei voluto affrontare già da tempo. Questione rilevante, per un blogger, quella della «fine dei blog», ma, ogni volta che mi accingevo a trattarla, d’un tratto mi appariva frivola o comunque a rischio di scivolare, da un lato, nell’autoreferenzialità e, dall’altro, nel tecnicismo. In buona sostanza, il rischio era quello di affrontare la questione eludendo il suo aspetto più importante, che a mio parere è centrale e ineludibile: quello relativo alle ragioni che spingono a mettere in rete (web) un diario (log). Senza far chiarezza su cosa sia un log, e quale carattere assuma quando dal taccuino privato passa al web, ogni discussione sulla blogosfera diventa un ginepraio di fraintendimenti. Un diario è una raccolta di scritti relativi a cose o fatti che sono in stretta relazione all’autore: non ha importanza quale sia la natura dei temi trattati, quale sia lo stile scelto per trattarli o quale sia la frequenza delle pubblicazioni, l’aspetto peculiare è il carattere personale della scrittura, di là dagli elementi che ne consentono un giudizio di merito.  Cerco di dirlo meglio: ciò che caratterizza un blog rendendolo differente da una qualsiasi altra pagina pubblicata online è un io narrante che, anche quando è dissimulato in un tu o in un noi che sono meri espedienti retorici, fa della scrittura un momento di intermediazione tra pubblico e privato. Ma forse anche così non è abbastanza chiaro, e sarà meglio che ricorra a qualche esempio.
Prendiamo la classifica di BlogBabel e cominciamo a scorrerla. Il blog di Beppe Grillo è un blog? Assolutamente no: è un’agorà telematica. Il Post o Giornalettismo? Certamente no: sono giornali online. La ventisettesima ora o Tvblog? Manco per niente: sono dei magazine. Manteblog e Piovono rane? Sono blog: hanno un io narrante, la periodizzazione della scrittura risponde a un’esigenza personale, l’intermediazione tra pubblico e privato ricorre a un metatesto che ha articolazione diaristica. Arrivo a fine a pagina e tra le prime 100 testate in classifica non conto più di 20 blog. Se gli altri 80 chiudessero le loro pubblicazioni, potremmo dire che la blogosfera ha subìto un collasso? A mio modesto avviso, no.  
Se ne parla da almeno due o tre anni, e il giudizio pressoché unanime è che la crisi della blogosfera sia in larga misura da imputare ai social network, in primo luogo a Facebook e a Twitter, che offrirebbero il vantaggio di una più immediata interattività. Ecco, fin da questo primo dato, d’altronde incontestabile se avulso da ogni considerazione sul tenore di interattività relativa al mezzo, a me pare che si commetta l’errore di ascrivere al volume della blogosfera di qualche anno fa molto di quanto non le appartenesse davvero. In altri termini, io credo che molti di quelli che erano considerati blog, e formalmente lo erano, in realtà non lo fossero: erano embrioni di homepage di Facebook o di Twitter, che aspettavano di venire alla luce. Dirò di più: una discreta quota di «scrittura da social network» era già presente anche nei blog che almeno formalmente erano tali, e questo, a mio parere, spiega perché anche i blogger ancora attivi hanno ridotto più o meno drasticamente la loro produzione, trovando nella parallela attività sui social network il fisiologico drenaggio di quanto prima postavano sui propri blog. Mi pare che una conferma sia nella contrazione del numero dei commenti ai post e dei link che rimandano ad altri post: non sapevo se si trattasse solo di una mia impressione, ma ne ho trovato riscontro in qualche studio ampiamente documentato. È che il chiacchiericcio che prima affollava le pagine dei commenti, non di rado assai sterilmente, si è trasferito nel suo luogo d’elezione, che è la piazza dei social network, mentre il link si trasformato in like o in retweet.
A questa «fine dei blog», insomma, io non credo molto: penso piuttosto che la blogosfera vada scremandosi della superflua schiuma che ne ingrossava il volume da sovranatante. Poi, sì, ci sarà pure chi non ha più niente da dire dopo aver detto tutto quello che aveva da dire, ci sarà chi avrà pensato al blog come alla vetrina nella quale esporsi per trovare un acquirente e deluso ha chiuso bottega, ci sarà chi si è sposato, ha fatto figli, ha cominciato a lavorare e non ha più trovato tempo. E tuttavia è indubbio che ci sia ricambio. Qui la blogosfera si contrae, lì si espande.

A parte Di Angelo Acquaro so poco, e quel poco è quanto ho origliato dagli aficionados de la Repubblica, che di solito sono assai teneri con tutte le firme del giornale, ma con lui vedo sono assai duri: se devo esprimere un parere personale sulla base di ciò che leggo nel suo box, è durezza meritata. Angelo Acquaro è superficiale, ha scrittura sciatta, rimastica luoghi comuni, partorisce espressioni di incredibile volgarità come «sfogatoi virtuali», che sono anche al di sotto del livello di una Soncini prima della ripulitina.          


mercoledì 26 giugno 2013

La filosofia di Terry De Nicolò è ormai un filone di pensiero

Terry De Nicolò è un nome che probabilmente non vi dirà niente, ma quasi certamente, appena farete partire il video qui sotto, rammenterete subito di chi si tratta, perché l’intervista in esclusiva che concesse due anni fa a L’ultima parola (Raidue, 16.9.2011), e dalla quale è tratto lo stralcio che qui ripropongo, rimane una delle pagine indimenticabili nella storia della tv italiana.



La signora fu capace di esporre in poche battute il suo sistema filosofico, risultando incisiva e brillante. Si poteva ritenerlo solido o meno, poteva piacere o no, ma era impossibile negare che fosse illustrato con la massima chiarezza. Anche troppa chiarezza, forse. Ecco, volendo proprio trovarci un difetto, potremmo dire che la filosofia di Terry De Nicolò aveva quello di darsi in modo così asciutto da apparire brutale.
Ogni filone di pensiero, tuttavia, ha i suoi epigoni che, pur fedeli ai caposaldi, hanno varietà di stile. Così, se a suo tempo avete rigettato la tesi per come era illustrata da quella escort, oggi potete provare a riconsiderarla con migliore disposizione danimo per come vi è riproposta da questa puttana.    



Cita Engels, via, non potete liquidarla come una qualsiasi Terry De Nicolò. 

martedì 25 giugno 2013

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La condanna che ieri il Tribunale di Milano ha inflitto a Silvio Berlusconi ci ha dato modo di trovare conferma di quanto abbiamo scritto su queste pagine riguardo agli elementi psicopatologici che caratterizzano la relazione tra un leader carismatico e i suoi gregari. Non che ce ne fosse bisogno, in realtà, ma la nostra attenzione si era fin qui appuntata su due modelli di relazione che trovano corrispettivo nelle due forme di leadership carismatica che Otto Kernberg ha ascritto a due tipologie di disturbo che caratterizza il leader – quello di tipo narcisistico e quello di tipo paranoideo – e alle quali qui abbiamo accostato quelle che ci sono parse concordanze patognomonicamente significative nei quadri clinici offertici da Marco Pannella e da Beppe Grillo. Tuttavia abbiamo detto: «Non di rado l’esperienza ci offre quadri psicopatologici misti, anzi, è assai frequente che in uno stesso leader carismatico siano sensibilmente rappresentati, seppur in varia misura, aspetti narcisistici e aspetti paranoidei, che in ogni caso trovano espressione strettamente conseguente nei moduli relazionali che caratterizzano il legame tra leader e seguaci, e quello tra i membri del gruppo» (Tipologie di leadership carismatica Malvino, 7.4.2013). Se abbiamo messo in guardia dal ritenere che tali tipologie possano trovare forma pura nella realtà, era perché proprio nei due leader che meglio vestivano le due forme paradigmatiche di psicopatologia di gruppo qui prese in considerazione erano riscontrabili elementi di natura paranoidea in un contesto dalla franca impronta narcisistica e, seppur in minor misura, di natura narcisistica in un contesto di chiaro tenore paranoideo.
Se fin qui abbiamo tenuto Silvio Berlusconi fuori dalla nostra discussione, è perché rappresenta un quadro in cui le due tipologie sono rappresentate in misura pressoché equivalente. Si potrebbe parlare di un eccellente esempio di psicopatologia mista narcisistico-paranoidea, se non fosse che nel profilo clinico del leader, e ancor più nella psicopatologia di gruppo che ne costituisce insieme –  referente e relato, appaiono evidenti altri elementi, che Otto Kernberg ha descritto come «aspetti schizoidi» «aspetti ossessivi», oltre a quelli studiati da un altro autore, Manfred Kets de Vries, che qui pure è stato citato in diverse occasioni, descritti come «impostura» e «alessitimia». Tenere fuori Silvio Berlusconi dalla nostra riflessione sulla leadership carismatica è stata una scelta di metodo, motivata dalla particolare struttura dell’oggetto, nel quale gli elementi che pensavamo fosse utile isolare si sono sempre offerti, e non smettono di offrirsi, in articolazioni di estrema complessità, e per giunta variabili da momento a momento. Se limmagine può tornare utile, si potrebbe dire che con Silvio Berlusconi siamo dinanzi al caleidoscopio della psicopatologia della leadership carismatica. E questo spiega, pur nellampio spettro dei quadri clinici, la cifra distintiva del psicopatologia di gruppo che è osservabile a carico dei suoi gregari.
In tal senso, le reazioni alla sentenza del Tribunale di Milano potrebbero costituire un capitolo non particolarmente diverso dagli altri che hanno fatto la storia della corte berlusconiana. Stavolta, tuttavia,  data la natura dei reati di cui il leader è stato dichiarato colpevole, le implicazioni dordine psicologico prima ancora di quelle  dordine politico che la condanna solleva rendono evidenti nelle esternazioni dei gregari, come mai fin qui, gli elementi psicopatologici che interfacciano quelli del leader. Siamo, insomma, dinanzi a quello che nella pratica clinica è considerato un caso peculiarmente didascalico. 

[segue]

lunedì 24 giugno 2013

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Su La7, stasera, dopo Otto e mezzo, era in programmazione Papillon. Lodevole l’idea di cambiare film. 

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La Borsa di Milano chiude con un titolo Mediaset in calo di oltre 5 punti. Come so’ ’gnoranti, ’sti mercati! Ma non lo sanno che dal 2004, grazie alla Legge Frattini, non c’è più alcuna relazione tra Berlusconi e Mediaset?  

«Conoscenza superiore»

«In Rete, come nella realtà, è impossibile essere competenti su tutto, però la Rete consente a gruppi con conoscenze e interessi simili dislocati nel mondo di mettersi in contatto e di formare una conoscenza superiore su qualunque aspetto in tempi molto brevi, condividendo esperienze e fatti». Bene, direi che Wikipedia possa offrirsi come un buon esempio di questa «conoscenza superiore», ma Gianroberto Casaleggio (suo il virgolettato, dall’intervista che ha concesso a Serena Danna, pubblicata sull’ultimo numero de La Lettura) ritiene impropria la definizione che Wikipedia dà di «democrazia digitale», e ne dà un’altra che assicura essere quella giusta. Pazienza, la Rete darà prova della sua «conoscenza superiore» in altra occasione, stavolta si è fatta cogliere in disaccordo con  Gianroberto Casaleggio.
Ordunque, cos’è la «democrazia digitale»? «La forma di democrazia diretta in cui vengono utilizzate le moderne tecnologie dell’informazione e della comunicazione nelle consultazioni popolari», come recita Wikipedia? No, per Gianroberto Casaleggio, «non è relativa soltanto alle consultazioni popolari». E allora sarà il caso di ridefinire il concetto di democrazia diretta. Non è una forma di governo? Nei modi in cui si attua sarà diversa da tutte le altre, ma al pari di ogni forma di governo non ha per fine il governo degli uomini e delle cose? Oltre a quella della consultazione popolare, dunque, quale altra funzione è data alla democrazia digitale? In altri termini: quale altro fine vuole avere di là dal farsi mezzo per superare la democrazia rappresentativa con la diretta e permanente partecipazione popolare al governo della cosa pubblica? Non c’è bisogno di star troppo a spremerci le meningi: «formare una conoscenza superiore su qualunque aspetto». La creazione di un pensiero unico.
«È una rivoluzione prima culturale che tecnologica, per questo, spesso, non viene capita o viene banalizzata»: si tratta di «un progetto politico» che va al di là dalla «sola soluzione di problemi contingenti». Il fine? «Il cittadino deve diventare istituzione». Come? «Web e realtà sono destinati a fondersi» in una «realtà aumentata» che probabilmente solleverà l’individuo dalla seccatura di avere opinioni personali e dunque potenzialmente erronee: un’«aggregazione di intelligenze a livello planetario» lo trasformerà in un neurone che pulsa in un enorme cervellone. Per chi adora le costruzioni paranoiche, non c’è dubbio, può risultare estremamente eccitante. Certo, occorre fare i conti con la realtà diminuita in cui viviamo, ma «si tratta in ogni caso di un periodo transitorio, nel tempo la maggioranza assoluta degli italiani sarà collegata in Rete», «Internet diventerà come l’aria» e sarà impossibile vivere in apnea.
Sarà che siamo degli inguaribili romanticoni affezionati al nostro caro vecchio «legno storto». Sarà che per le esperienze passate ci caghiamo sotto ogni volta che un tizio ci assicura che si può e si deve piallarlo fino a farlo diventare dritto. Insomma, sarà per quel maledetto verme liberale che ci vive dentro, ma ci chiediamo, come d’altronde se lo chiede pure Gianroberto Casaleggio, se si possa «prevederne gli effetti sulla società». La sua risposta è che «possono essere positivi, ma anche negativi», perché «la Rete rende possibili due estremi: la democrazia diretta con la partecipazione collettiva e l’accesso a un’informazione non mediata, oppure una neo-dittatura orwelliana in cui si crede di conoscere la verità e di essere liberi, mentre si ubbidisce inconsapevolmente a regole dettate da un’organizzazione superiore». Però si dichiara «fiducioso». Molto incoraggiante, senza dubbio.



A parte  È in questa intervista che per la prima volta viene chiesto a Gianroberto Casaleggio quale relazione ci sia tra la sua data di nascita, il 14 agosto 1954, e quella che nel suo video Gaia indica come quella della nascita del governo mondiale, immaginata il 14 agosto 2054. È una domanda che personalmente mi stava molto a cuore, perché sono stato il primo a segnalare la strana coincidenza con un post che ha avuto a tuttoggi 9.644 accessi diretti. Bene, Gianroberto Casaleggio risponde che si è trattato di «un gioco, come è stato un gioco la creazione del video». E qui occorre rammentare quanto ha scritto il padre della psicoanalisi: «Il contrario del gioco non è ciò che è serio, ma ciò che è reale» (Der Dichter und das Phantasieren, 1908).   





mercoledì 19 giugno 2013

microchip sottopelle

Antipartiti

È stata un’intervista all’autore (la Repubblica, 26.4.2013) a farmi acquistare Antipartiti (Donzelli, 2013) di Salvatore Lupo. Non ne sono pentito, perché in fondo si tratta di una svelta storia d’Italia dal secondo dopoguerra ad oggi, tutto sommato seria e onesta, ma resto un po’ deluso per ciò che mi aspettavo da quanto prometteva il sottotitolo: Il mito della nuova politica nella storia della repubblica (prima, seconda e terza). In realtà, nel volume non ho trovato traccia di una tesi sulla mitogenesi, né di una analisi della mitopoietica. Anzi, a onor del vero, quello della nuova politica appare in queste pagine come conato di vomito che si risolve in rutto. E tuttavia rimane un libro utile – almeno per me lo è stato – a far forte la convinzione, in chi labbia, che gli ultimi sessant’anni di storia italiana siano stati una galleria di perdenti che non avevano uno straccio di progetto. L’affresco meriterebbe come titolo: Tragedia del tatticismo.