lunedì 17 febbraio 2014

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«Coloro che amministrano o tengono le redini del governo, qualunque misfatto commettano, sempre si studiano di adombrarlo con l’apparenza del diritto e di persuadere il popolo di aver agito onestamente: e ciò riesce loro anche facilmente, quando tutta l’interpretazione del diritto dipende soltanto da essi»

                                             Baruch Spinoza, Trattato teologico-politico (XVII)

venerdì 14 febbraio 2014

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L’ho scritto tre anni fa e non ho cambiato idea. Oggi la nausea è così forte che non mi va di commentare, sicché mi limito a ripeterlo: «Renzi è la larva che il berlusconismo ha deposto in una delle tante piaghe del Pd».

martedì 11 febbraio 2014

Il «beato» Stepinac

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A me pare che non ci sia proprio alcun dubbio sul fatto che Napolitano abbia esorbitato in più di un’occasione dal ruolo che la Carta assegna al Presidente della Repubblica. Se poi la cosa abbia gli estremi del reato di attentato alla Costituzione, non saprei dire, né la questione riesce ad appassionarmi. Quello che solleva in me un certo interesse, invece, è il fatto che tra chi lo difende dalle accuse di aver giocato un ruolo che non gli competeva ci siano persone che stimo per la loro onestà intellettuale e tuttavia negano l’evidenza. Potrebbero trovargli mille attenuanti, dire che si è assunto l’onere di colmare il pericoloso vuoto di potere che in questi ultimi anni si è prospettato in molti frangenti, che in fondo per il Quirinale, e da sempre, è sempre valsa una Costituzione materiale un po’ più larga di quella formale, che sarà pur venuto meno all’imperturbabilità dell’arbitro ma sempre in nome di quanto in buona sostanza era il superiore interesse dello Stato. E invece no, niente di tutto questo, si limitano a negare l’evidenza. Anche abbastanza infervorati, devo dire. Ci ricavano figura assai migliore di chi chiede per Napolitano quello che impropriamente è detto impeachment sulla base di accuse risibili come l’aver avuto un ruolo nella cosiddetta trattativa Stato-Mafia o, peggio, di aver tramato per ottenere il secondo mandato o, peggio ancora, anche solo di averlo accettato. E tuttavia mi pare che anch’essi, certo in misura di gran lunga minore, certo con un aplomb di cui gli assaltatori del Quirinale sono del tutto privi, siano mossi da un umore partigiano, che in qualche modo autorizza l’opposta fazione a parlare di un Partito del Presidente, strumento metà politico e metà mediatico di cui Napolitano si sarebbe servito per compiere le sue subdole mosse. Passi per quanti, a torto o a ragione, lo hanno sentito, lo sentono e probabilmente lo sentiranno sempre come «uno dei nostri», qualunque cosa dica o faccia. Passi per chi dalle scelte di Napolitano ha tratto qualche vantaggio o conta di trarne. Passi anche per chi considera intoccabile il Quirinale, chiunque ci sia dentro, qualunque cosa faccia. Ma gli altri? Hanno sotto gli occhi le prove indiscutibili di un attivismo che da mesi e mesi detta modi e tempi alla politica, del continuo venir meno a star sopra le parti, come d’altronde era in premessa all’accettare il secondo mandato sub condicione di poter dare indirizzo a Governo e a Parlamento: come possono negarlo?       

lunedì 10 febbraio 2014

Intorno al cacozelo




Ignorato dal Treccani, dal Devoto-Oli e dal De Mauro, il lemma cacozelo (dal greco κακός ζήλος) è definito «inusit. a noi» perfino dal Tommaseo, e sta per «imitazione o emulazione di quel che è vizioso, o men bello per affettazione di bellezza», anche se la sua miglior definizione è in Quintiliano (Institutionum Oratoriarum Libri Duodecim, VIII, 56-58), per il quale sta nel ricorso alla congerie delle «tumida et pusilla et praedulcia et abundantia et arcessita et exultantia» ed è perciò «omnium in eloquentia vitiorum pessimum», perché «mala adfectatio», aspirazione (al bello) con esito infelice (di caduta nel lezioso). Col cacozelo, insomma, possiamo dire che siamo al più goffo infortunio dell’artificio retorico: l’eloquenza manca il suo fine e si esaurisce in ostentazione compiaciuta della sua vacua ridondanza.
A parte, sarebbe da considerare che nel Tommaseo, come d’altronde dà conto il Pianigiani, l’«affettazione» è già il fine mancato cui mirava la pretensione dell’«adfectatio»: nella retorica dev’essere accaduto qualcosa – vedremo cosa – che ha fatto prendere coscienza delle infauste conseguenze delle eccessive libertà che, col passaggio dal Rinascimento al Barocco, la Maniera si è presa nei confronti della Misura. Basti pensare a come il severo giudizio di Quintiliano si ammorbidisca, e di molto, nel Seicento. Per François de La Mothe Le Vayer, ad esempio, «quelli che si sottomettono troppo scrupolosamente a tutti precetti dellarte [retorica] senza volerne trasgredire alcuno sono simili a quei funamboli o ballerini sopra la corda, che contano i passi che fanno e stanno in apprensione continua di cadere. Questo timore glimpedisce di sollevarsi in alto e, non pensando che a tenersi lontani dal vizio, trascurano sovente le parti più nobili e più cospicue delleloquenza. Non è per tanto che debbansi sprezzare le sue regole [...] [ma], ancorché le ridondanze o le superfluità siano molto viziose, le magrezze e le aridità del discorso lo sono ancora molto più» (Scuola de’ prencipi e de’ cavalieri, cioè la geografia, la rettorica, la morale, l’economica, la politica, la logica, e la fisica; cavate dall’opere francesi del sig. Della Motta Le Vayer, che le ha distese per istruzione di Luigi 14. re di Francia, tradotte nella lingua italiana dall’abbate Scipione Alerani - In Bologna, per Giacomo Monti, 1677).
Ma qualcosa accade – dicevamo – con l’uscita dal Barocco, anzi non è di troppo azzardo il ritenere che se ne esca proprio per ciò che accade: il retore cambia ruolo sociale, non importa quale sia il suo foro. Non è una scelta: è la società che gli cambia d’attorno, e in primo luogo si trova dinanzi un altro uditorio. Per meglio dire: l’argomentazione impone regole nuove. In altri termini: si vanno ponendo le basi alla nascita della logica proposizionale, nella quale «le parti più nobili e più cospicue delleloquenza» stanno nella capacità di dimostrare, piuttosto che in quella di mostrare. Ne è prova il fatto che la metafora, dapprima considerata banco di prova, lascia il posto all’analogia, che ben presto sarà guardata anch’essa con sospetto. Non a torto, perché anche oggi che non è affatto bandita dalle terre del «dominio retorico» è l’ultimo rifugio il cui il cacozelo riesce a trovare accoglienza. 



domenica 9 febbraio 2014

Quasi un manifesto

La bufala di Michelangelo neurologo



Mauro Covavich dà credito alla bufala, degna al più di una puntata del Voyager di Roberto Giacobbo, che, nella Creazione di Adamo affrescata sulla volta della Cappella Sistina, Michelangelo Buonarroti abbia voluto «inscrivere il gruppo di Dio e degli angeli nella sagoma di un cervello umano», e di suo ci aggiunge il dirsi «colpito» dal «fatto che, nella religiosità tormentata di Michelangelo, Dio apparisse in forma d’Intelletto (Nous), ipostasi neoplatonica di qualità cerebrali che l’uomo riceve in dono» (la Lettura/Corriere della Sera, 9.2.2014 – pag. 21). Da dove cominciare per dimostrare che in meno di sei righe è concentrato un gran bel mucchio di puttanate?
Cominciamo col dire che nella prima metà del Cinquecento si sapeva poco o nulla dell’anatomia del cervello, e per una semplicissima ragione: non si era ancora giunti ad approntare un valido allestimento del tessuto cerebrale in grado di consentirne lo studio macroscopico. Trattandosi di un organo che va incontro a fenomeni degenerativi in tempi brevissimi dopo il decesso, all’apertura della scatola cranica gli anatomisti dell’epoca trovavano al più solo un’informe poltiglia. Non è un caso, infatti, che fino alla metà del Seicento gli studi anatomici relativi al sistema nervoso centrale rendessero conto solo delle formazioni più resistenti ai processi putrefattivi post mortem, come i nervi cranici e il tronco encefalico, mentre il rilievo delle formazioni incluse nelle masse emisferiche trova solo riscontro occasionale e per giunta controverso. Bisogna aspettare il Cerebri anatome di Thomas Willis, che è del 1664, giusto cent’anni dopo la morte del Buonarroti, e poi gli studi di Marcello Malpighi, di Giovanni Battista Morgagni e di Xavier Bichat, per avere una descrizione anatomica del cervello degna di questo nome, e in qualche modo approssimabile a quella che Michelangelo avrebbe avuto per modello.
Stupisce che il primo a intravvedere nella Creazione di Adamo una sezione sagittale mediana del cervello umano sia stato un neurologo? Tutt’altro, basta non avere dimestichezza con la Storia della Medicina, cosa relativamente comune tra i medici, soprattutto quelli d’Oltroceano, e farsi prendere dalla tentazione, da nefrologi per esempio, di intravvedere l’anatomia microscopica di un tubulo renale, descritta per la prima volta nell’Ottocento, nell’organo idraulico ideato da Ctesibio nel III secolo avanti Cristo. Questo è il genere d’infortunio occorso a Frank L. Meshberger (An Interpretation of Michelangelo’s Creation of Adam Based on Neuroanatomy Journal of American Medical Association, 1990 – 264 [14]: 1837-41), che in realtà stupisce solo fino a un certo punto, perché anche le correlazioni che egli imbastisce tra i dettagli del dipinto e quelli che dovrebbero essere i corrispettivi anatomici cerebrali sono a dir poco forzati: in buona evidenza, siamo al tragicomico dei fatti sacrificati in una ipotesi nella quale vanno troppo stretti. Non è un caso isolato, d’altronde, basti pensare al più recente tentativo di Ian Suk e Rafael Tamargo, ricercatori della Johns Hopkins University School of Medicine di Baltimora, nel Maryland, che qualche anno fa, su Neurosurgery, scrivevano di aver intravvisto l’anatomia della base cerebrale e del tronco encefalico umani sul collo di Dio nel pannello della Cappella Sistina detto della Separazione della luce dalle tenebre.
Passi per lo svarione del dottor Meshberger, che non possiamo neanche escludere abbia voluto prendersi gioco dei lettori del  Journal of American Medical Association se la sua ignoranza della Storia della Medicina nasconde una sofisticatissima provocazione intellettuale, ma cosa dire del Covacich, che Wikipedia ci assicura avere una laurea in filosofia? In Platone v’è più d’un cenno a una correlazione tra Nous e cervello, questo è vero, e sappiamo che i neoplatonici Marsilio Ficino e Pico della Mirandola ebbero contatti con Michelangelo: anche ammettendo, tuttavia, che per prodigiose virtù divinatorie il Buonarroti avesse nozioni anatomiche del cervello che sarebbero state conosciute solo un secolo dopo, con un committente come il Papato di quei tempi, di solito attentissimo all’aderenza dell’opera d’arte a dettami ritenuti indiscutibili, un artista poteva prendersi certe libertà? Quale era, ai tempi di Giulio II, la posizione della Chiesa riguardo alla filosofia di Platone? Non benevola, diciamo. Bisogna aspettare il primo Novecento per trovare un teologo cattolico che riesca a liberare la teoria platonica delle Idee dall’accusa di contraddire la dottrina, che l’accompagnava fin dal III secolo. In tale contesto, Michelangelo poteva ritenersi libero di raffigurare Dio come un Nous in forma di cervello? Avrebbe mai potuto rappresentarlo come «ipostasi neoplatonica di qualità cerebrali che l’uomo riceve in dono»? 




 

Senza titolo, al momento

« La polis è più importante delle sue parti.
La parte è più importante dogni sua parte»
Eugenio Montale, Gerarchie

Riprendo la riflessione sui sistemi elettorali che ho interrotto in questo punto: «In mancanza di una base elettorale che per sua natura sia incline a bipartirsi, e che anzi abbia inclinazione a frammentarsi, considerare assolutamente preminente il principio di rappresentatività porta ineluttabilmente all’ingovernabilità, mentre ritenere assolutamente preminente il principio di governabilità porta ineluttabilmente a limitazioni del diritto di rappresentanza» (Una premessaMalvino, 23.1.2014). Qui pongo la seguente questione: con la forte limitazione del diritto di rappresentanza che si è avuta coi sistemi elettorali in adozione dai primi anni ’90, si è ottenuta la tanto agognata governabilità?
Ad evitare che sul termine governabilità si possa cadere in fraintendimento, cerchiamo di metterci d’accordo sul suo significato affidandoci a ciò che Gianfranco Pasquino afferma nell’omonima voce dell’Enciclopedia Treccani: parrebbe che in se stessa la governabilità sia concetto assai vago, ma che acquisti un senso a considerare il suo rovescio, l’ingovernabilità, intesa come instabilità del quadro politico cui consegua l’impossibilità di una salda azione di governo da parte di una maggioranza democraticamente designata a quel ruolo. E tuttavia questa stabilità è in se stessa garanzia di governabilità? Non ancora, perché anche una stagnazione è stabile. Quanto alla salda azione di governo, poi, siamo dinanzi ad un concetto politicamente neutro, perché non dà alcuna misura della sua efficacia.
Potremmo azzardare che la governabilità sia il miraggio più frequente nel deserto della ingovernabilità: un mito che nasce dal bisogno di dare allo Stato la forza che lo giustifica in quanto Stato (sull’assunto troviamo singolarmente d’accordo Lenin, Schmitt e Weber), e di trarla, quando la democrazia non riesca a ricavarne dalle urne una adeguata, da un’applicazione del principio maggioritario che la renda tale sottraendo proporzionalità alle opzioni espresse, facendo così prevalere artificiosamente la maggioranza relativa (spesso assai relativa) con un premio aggiuntivo per il numero di eletti. In pratica, si crea forza di governo sottraendone alle opposizioni nella misura necessaria a renderla adeguata alla governabilità.
Non occorre un occhio di lince per scorgere che in questo modo la forza di governo è frutto di un mero artificio, e che la sua legittimità è surrettizia. 

[segue] 

mercoledì 5 febbraio 2014

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Non ho trovato un solo argomento valido tra quelli usati da chi è sceso in polemica col M5S in questi ultimi giorni, e sì che non ne mancavano. E invece sono piovute accuse risibili, tanto più ridicole quanto più si strepitava all’inaudito, perché in parlamento e fuori, in settant’anni circa di vita repubblicana, c’è stato chi è riuscito a far ben peggio, contro il codice e contro il galateo. Non me ne stupisco più di tanto, perché ad essere più critico nei confronti dei grillini è stato proprio chi è corso appresso a loro con più affanno, e fino a poche settimane fa: se gli argomenti validi non li trovava allora, perché aspettarsi li trovasse ora? Il sospetto è che chi in questi giorni ha sparato ad alzo zero sul M5S voglia rimuovere l’imbarazzo di aver fatto male i propri conti, di essersi illuso che si trattasse di una bestia addomesticabile, di un’anomalia riassorbibile: incapace di coglierne il precipuo, ieri, incapace di coglierlo, oggi, perciò costretto a rappresentarselo come accidente. La stessa cecità dei sussiegosi panzoni dello Stato liberale in crisi dinanzi agli strambi manifesti di futuristi e sansepolcristi: il socialismo era in piena mutazione genetica, e i fessi arricciavano il naso alla volgarità di quei pantaloni alla zuava, di quegli incomprensibili vocalizzi da barbari. Non voglio tediare il mio lettore, rimando ai numerosi post che ho dedicato al M5S, e aggiungo che rimango saldo nell’opinione che ho espresso in quelle occasioni. Non sarà un bel giorno quando il M5S arriverà al 30% o addirittura al 37% – so bene che oggi sembra impossibile, anche il 25% sembrava impossibile l’anno scorso di questi tempi – però almeno di una cosa potremo consolarci: un’oclocrazia belluina divorerà una oligarchia inetta.


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Non mi sono mai spinto a chiedere che «the Holy See assess the number of children born of Catholic priests, find out who they are and take all the necessary measures to ensure the rights of these children to know and to be cared for by their fathers, as appropriate», confesso che a questo non ero mai arrivato. Riguardo al resto, lo dico con un sorrisetto da stronzo dipinto sulle labbra, il documento che l’Onu ha licenziato sugli abusi sessuali commessi da membri del clero cattolico a danno di minori sembra un copia-incolla di ciò che ho scritto tante volte su queste pagine negli anni passati. 


martedì 4 febbraio 2014

Barbaria, barbaria, barbaria...


... che detto tre volte fa barbarie.

L’ossessione della «famiglia normale»


La famiglia è l’ossessione di chi ha vissuto la propria infanzia in una famiglia problematica, e non c’è affatto bisogno che essa avesse notevoli particolarità per causare problemi al piccolo, perché anche una famiglia cosiddetta normale è in grado di causarne. È che «normale» vien da «norma», che vuol dire «legge», e in questo caso rimanda a «natura», che però è pure sinonimo di quella che in statistica è detta «moda», cioè «il valore che compare il massimo numero di volte in una successione finita». Non è il caso di tirarla troppo per le lunghe, però anche «valore» ha il suo ambiguo, perché rimanda – insieme – a un punto posto su una scala e ad una logica che pretende di informare il senso di un bene, e non fa differenza che sia materiale o immateriale. Un gran bel guaio quando si è costretti a ricorrere a termini cotanto ambigui, e il guaio più grosso si rivela nel fare i conti con la cosiddetta «famiglia normale», che da un lato potrebbe definirsi come realizzazione di un disegno trascendente anche quando la si concepisce come espressione di una «legge» di «natura», perché mai come in questo caso la «natura» è intesa tanto «dentro» all’uomo da stargli in realtà «sopra» e «prima», e dall’altro coincide col modello di famiglia conforme alla «moda» in un dato tempo e in un dato spazio, che di solito costituisce il posticino più rassicurante sotto una campana di Gauss. È questo che dà un tono tragico al tizio con l’ossessione della «famiglia normale»: a dover rendere conto di quale «norma» sia informato il modello di famiglia che per lui è ideale, non può far altro che indicare una «legge» di «moda», rivelando che il suo «valore» è dato esclusivamente dalla misura del suo esservi conforme. Si presenta come il difensore di un disegno trascendente, ma a grattarne via il superficiale strato retorico che lo ricopre emerge il conformista.
Un esemplare campione di questo genere di ossessione è Giuliano Ferrara e ad illustrarne il tragico è il suo editoriale in prima pagina su Il Foglio di martedì 4 febbraio, che prende a spunto la vicenda di cronaca che ha per protagonista Woody Allen, che una sua figlia adottiva, oggi ventisettenne, ha accusato di atti di pedofilia che si sarebbero consumati oltre venti anni fa. Dice di non essersi fatto un’opinione precisa su ciò che Dylan Farrow ha raccontato al New York Times, anzi, dice di credere sulla parola a Woody Allen, che ha dichiarato trattarsi di falsità, e aggiunge di non volere approfittare di un’accusa che «sulla scala spettrale del desiderio rimosso» potrebbe nascere solo dal «rapporto anaffettivo tra una figlia e un padre» per vendicarsi di quel «nichilismo relativista», che a lui sta terribilmente sul cazzo, di cui i film di Woody Allen sarebbero il manifesto. In pratica, lo fa. E non ha alcun pudore ad ammetterlo: «Se non mi vendico, e limito la vendetta alla sua sconcia e cinematicamente efficace attitudine al relativismo etico, per lui non piango. Faccio come lui. Non piango, ma non insinuo. Non ne ho bisogno. In fondo, basta che funzioni». Non ha bisogno di insinuare che storiacce del genere possano verificarsi solo in un ambiente moralmente degradato e culturalmente tarato: comunque stiano realmente i fatti, un presunto pedofilo che ha un modello di famiglia alternativo a quello «normale» (qui è preso ad esempio quello illustrato da Woody Allen in Whatever works) non merita le garanzie che, fosse soltanto in termini di solidarietà, sono dovute a un presunto pedofilo che su questo piano sia un sano conformista.
Superfluo sottolineare che siamo all’ennesimo sproposito di argomentazione cui Il Foglio ci ha abituato fino alla noia, ma forse non è del tutto inutile rammentare che al «relativismo etico» dei nostri tempi bui Giuliano Ferrara riusciva ad imputare pure gli abusi sessuali commessi su minori da membri del clero cattolico. Pedofilo o no, insomma, chi è per una famiglia diversa da quella «normale» sarebbe in parte responsabile, ancorché involontario, di ogni atto di pedofilia, compresi quelli commessi da chi, almeno a chiacchiere, professa fede incrollabile nel modello di famiglia «normale». Quanto sia assurda questa posizione, che pure ha l’estremo pudore di andarsi a rintanare in un volvolo logico sfacciatamente specioso, è inutile dire: basti il rilievo storico che la pedofilia è sempre esistita, e si trasmette da abusato ad abusante come il cognome paterno nelle famiglie perbene. Quanto, poi, all’ossessione per la «famiglia normale», non c’è bisogno di scavare troppo nella biografia di Giuliano Ferrara, basta chiedersi donde vengano i suoi disturbi alimentari. In quanto alla famiglia che si è costruito, infine, non si capisce dove sia la «norma» che dichiara necessaria, se non nel fatto che la signora Selma è indubitabilmente femminuccia, come lui è indubitabilmente maschietto.  

domenica 2 febbraio 2014

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«Non c’è più differenza reale fra tempo libero e tempo del lavoro: fusi nella travolgente rapidità della vita odierna, annullati dall’ansia del vuoto che spinge a riempire ogni spazio della giornata, i due momenti si confondono in un assillante attivismo, condizionato dall’invadenza delle nuove tecnologie. La smaterializzazione del lavoro e l’assunzione in prima persona di una serie di microattività che prima erano svolte da altri, nell’illusione di risparmiare e godere di maggior autonomia, hanno cancellato i confini di ciò che si fa per gli altri e ciò che si fa per sé. La grande innovazione (o la grande impostura, a seconda dei punti di vista) della società postindustriale è proprio quella di essere riuscita a unire otium e negotium, senza distinzioni sociali. Gli apocalittici potrebbero obiettare che una società in cui non c’è differenza fra tempo libero e tempo del lavoro è oppressiva e falsamente democratica, esercita il controllo totale sugli individui con l’alibi di una libertà senza limiti. Che l’homo ludens sia tornato e non abbia bisogno di imposizioni per lavorare è un’illusione rafforzata dalla tecnologia. Invece, senza saperlo, lavora anche quando si diverte, nella convinzione, già propria di Schiller, che “l’uomo è interamente uomo solo quando gioca”».

Carlo Bordoni (la Lettura-Corriere della Sera, 2.2.2014)

giovedì 23 gennaio 2014

Una premessa


Dire che la democrazia è la «forma di governo in cui il potere è retto dal popolo» (De Mauro) è corretto, ma forse si può dire meglio: è la «forma di governo che si basa sulla sovranità popolare e garantisce a ogni cittadino la partecipazione in piena uguaglianza all’esercizio del potere pubblico» (Treccani). Entrambe, tuttavia, sono definizioni riduttive, perché non danno conto dello strumento col quale la democrazia si realizza, sicché a «dottrina e costituzione politica che assegna la sovranità di uno stato al popolo, il quale la esercita per mezzo dei suoi rappresentanti» (Palazzi), penso sia da preferire la definizione di «forma di governo in cui il potere viene esercitato dal popolo tramite rappresentanti liberamente eletti (democrazia rappresentativa) o senza intermediari (democrazia diretta)» (Devoto-Oli) oppure, con maggior cura al dettaglio, «forma di governo basata sull’uguaglianza e la libertà di tutti i cittadini e in cui la sovranità risiede nel popolo; in particolare, si parla di democrazia diretta, quando, attraverso la convocazione di un’assemblea plenaria, il popolo è consultato per qualsiasi decisione di ordine pubblico, e di democrazia rappresentativa, quando esso elegge delle persone e degli organi che li rappresentano» (Zanichelli).
Pedanteria? Può darsi, ma se vogliamo discutere di sistema elettorale, cioè dello strumento col quale si dà corpo a una democrazia rappresentativa, occorre non perdere di vista il fine, che è quello di trovare il miglior equilibrio, da un lato, tra libertà e uguaglianza, e, dall’altro, tra rappresentatività e governabilità, ed è in tal senso, che va segnalato il rischio di fraintendere un termine come popolo. Se è vero, infatti, che la democrazia deve evitare che il potere stia nelle mani di uno o di pochi, non può tuttavia consegnarlo in quelle di tutti, ma solo in quelle di una maggioranza, il che vuol dire che a tutti deve assicurare una rappresentanza in parlamento, ma non al governo. Potremmo così concludere, in via preliminare, che una democrazia rappresentativa degna di tal nome si realizza quando il popolo dà alla maggioranza la garanzia di governo e alla minoranza – meglio, alle minoranze – la garanzia di controllo e di critica, cioè di opposizione, assicurando la possibilità di una reale alternanza di ruoli. 
Se non si sollevano obiezioni a quanto fin qui detto, possiamo scendere nel concreto, dove dobbiamo prendere atto che non sempre – in Italia, mai – una maggioranza è assoluta, il che pone un problema di non poco conto. Dovendo, infatti, assicurarle la garanzia di governo, occorre in qualche modo evitare che questa le sia sottratta dalla garanzia di opposizione assicurata alle minoranze, la cui somma degli eletti sia numericamente superiore a quella degli eletti per il partito o la coalizione di maggioranza relativa, e soprattutto quando la loro frammentazione renda impossibile l’alternanza. In pratica, occorre che il principio di rappresentatività ceda, in qualche misura, in favore di quello di governabilità, il che mette ineluttabilmente in discussione, e in pari misura, quel proporzionale puro che sembrerebbe il più adatto ad assicurare una effettiva rappresentanza a tutti. Non è il solo paradosso che la democrazia è chiamata a sciogliere, ma qui il nodo è assai intricato, perché, a penalizzare troppo il principio di rappresentatività in favore di quello di governabilità, si rischia una dittatura della maggioranza relativa, mentre al contrario il rischio è quello di una paralisi del potere.
Prima di passare a discutere di sistemi elettorali, dunque, occorre avere ben presente che, in mancanza di una base elettorale che per sua natura sia incline a bipartirsi, e che anzi abbia inclinazione a frammentarsi (poco importa per quale motivo), considerare assolutamente preminente il principio di rappresentatività porta ineluttabilmente allingovernabilità, mentre ritenere assolutamente preminente il principio di governabilità porta ineluttabilmente a limitazioni del diritto di rappresentanza.   
      

lunedì 20 gennaio 2014

«... i radicali hanno convinto Sturzo e Salvemini...»



La cialtronaggine di quest’uomo non ha limiti. Qualche anno fa disse: «Sturzo fa l’esperienza in America e torna antiproporzionalista, uninominalista e presidenzialista». Difficile farlo quadrare con quanto dice oggi: se Sturzo diventa un sostenitore del maggioritario perché «convinto» dai «radicali», delle due una, o i «radicali» sono andati in America a convincerlo o erano già lì, anche se mai nessuno ne ha segnalato la presenza. Scherzo, naturalmente, perché è falso sia quanto affermò qualche anno fa, sia quanto afferma oggi. Come ho abbondantemente argomentato su queste pagine (1, 2, 3), Sturzo torna in Italia nel 1947 e non si dichiara pubblicamente a favore del maggioritario prima del 1953. [Qui basti rammentare che nel 1948 scrive: «Fortuna o sventura, noi europei continentali siamo così divisi per idealità, per interessi e per metodi da non poter ridurre la lotta politica ai due partiti classici dei paesi anglosassoni» (Opera omnia, vol. I), e nel 1954: «Non pochi si meravigliano della mia recente opposizione alla proporzionale» (Opera omina, vol. V), dove quel «recente» taglia la testa al toro]. A fargli cambiare idea non furono affatto i radicali, anche perché il primo Partito Radicale nasce nel dicembre del 1955, e fino a qualche mese prima il termine  «radicale» era sepolto nella storia, spazzato via dal fascismo, per essere ripreso solo dal 1949 in poi, sulle pagine de Il Mondo di Pannunzio, ma mai per far riferimento a un movimento politico, ancorché da costruire, tanto meno in fieri, e questo almeno fino al 1954.
Facciamo uno sforzo, ma uno sforzo bello grosso: ammettiamo che il cialtrone non sia un cialtrone e che si sia solo espresso male, concediamo che volesse dire che a convincere Sturzo ad abbandonare il proporzionale in favore del maggioritario siano stati quegli Amici del Mondo che costituiranno l’embrione del primo Partito Radicale. Regge? Neanche così regge, perché molti di loro rimarranno sostenitori del proporzionale anche dopo aver dato vita al Partito Radicale. Un esempio? Nicolò Carandini, che tra gli Amici del Mondo, prima, e nel Partito Radicale, poi, sarà figura eminente. 



Posizione che, almeno fino allinizio del 1953, e in diversi casi anche oltre, fu analoga a quella di Pannunzio, di Cattani, di Craveri, di Ferrara e molti altri. Questi sarebbero gli argomenti che convinsero Sturzo al maggioritario? 
Si potrà obiettare che tra gli Amici del Mondo cera qualcuno a favore del maggioritario e dell’uninominale: non può essere stato lui a convincere Sturzo? Obiezione respinta: si trattava di Salvemini, ma il cialtrone dice che anche lui arrivò ad essere un fautore del maggioritario e dell’uninominale perché  «convinto» dai «radicali», e qui si fa ancora più fatica a individuarli, visto che Salvemini torna in Italia nel 1949, e da almeno tre o quattro anni è un critico del sistema proporzionale (cfr. Per la riforma elettorale, Alfredo Guida Editore 2000, una raccolta di suoi articoli che coprono tutto larco temporale della sua revisione).
Per finire, lenorme bufala che «i radicali hanno la stessa posizione di lotta e ufficiale per  l’uninominale maggioritario da cinquantanni». Basta consultare la sezione dell’archivio del Partito Radicale che comprende gli anni dal 1955 al 1998 o, in alternativa, il motore di ricerca dell’archivio di radioradicale.it, che raccoglie la gran parte degli audio che documentano l’attività politica del movimento dai primi anni ’70 ad oggi, per avere prova che maggioritario e uninominale diventano proposta politica non prima del 1986: fino a quell’anno se ne fa vago accenno solo in due articoli apparsi su Notizie Radicali, nellaprile del 1970 e nel settembre del 1976, e in entrambi i casi senza alcuna presa in carico di quello elettorale anglosassone come modello auspicabile per lItalia. I radicali, dunque, hanno questa posizione da meno di trentanni, e per amor del vero occorre dire che l’assunsero per ragioni del tutto funzionali alla crisi di consenso che cominciavano ad accusare nella società italiana, alla ricerca di uno stabile accasamento in uno dei due grandi blocchi che prospettavano nella versione italiana di quel bipartitismo di tradizione anglosassone che con maggioritario ed uninominale sarebbe stato di lì in poi l’obiettivo dichiarato, a dispetto di una posizione sostanzialmente terza, quando in Italia si ebbe la stagione del bipolarismo, sia in seno al centrodestra che al centrosinistra.

domenica 19 gennaio 2014

#ciao




(passo e chiudo)

Soprattutto grazie al serrato scambio tra lettori di opposta opinione, perché di mio in questa occasione ci ho messo davvero poco, su questo blog nei giorni scorsi s’è avuto un gran bel discutere di sperimentazione animale in campo medico (1, 2, 3). Discussione che è andata subito al cuore del problema – la fondatezza o meno degli argomenti antispecisti – perdendo così un po’ di vista la dimensione integrale dell’oggetto del contendere. Penso sia giusto richiamarla, e vorrei farlo proponendo un passaggio dell’intervento tenuto da Silvio Garattini nel corso del convegno su «Sperimentazione animale e diritto alla conoscenza e alla salute» tenutosi a Roma lo scorso 14 gennaio.


Credo non abbia bisogno di  commenti, ma vorrei attirare l’attenzione su un dato che è messo in risalto all’inizio dell’intervento e che in buona evidenza costituisce un paradosso: chi è contrario alla sperimentazione animale tiene a rimarcare le differenze tra uomo e animale sul piano «fisico» per poi considerarle irrilevanti su quello «metafisico». Paradosso che potrebbe sembrare ribaltato in campo avverso, dunque anche qui patente in egual modo, pur se con segno diverso, e tuttavia qui è paradosso che si scioglie nella mancata pretesa di fondare la dignità del vivente sulla base di mere caratteristiche biologiche, anatomiche, fisiologiche, ecc. Siamo, insomma, al nodo del concetto di  «valore», sul quale torna utile la lezione di Carl Schmitt: «Se qualcosa ha valore, e quanto ne ha, se qualcosa è un valore, e in quale misura, lo si può stabilire soltanto in base a un punto di osservazione, un punto di vista già posto. [...] Non si tratta quindi di idee, né di categorie, né di principi, né di premesse. Sono propriamente punti. Essi si collocano nel sistema di un puro prospettivismo» (Die Tyrannei der Werte, 1960). 


giovedì 16 gennaio 2014


Ho una variante dell’«io se fossi Dio» di Giorgio Gaber, si tratta di un parlamento interiore che legifera con esemplare spietatezza, ma mitigata dal rispetto della mia Costituzione, che al primo e solo articolo recita: «Unicuique suum».
Bene, tanto per tenervi informati dei lavori in corso, vi dico che, subito dopo aver varato la legge che vieta agli antispecisti di poter usufruire di terapie chirurgiche e farmacologiche divenute pratiche mediche correnti grazie alla sperimentazione animale, ora è in discussione la norma che, se passa, vieterebbe ai passatisti l’utilizzo di tutto ciò che è moderno.
Stavolta la discussione va un po’ per le lunghe, perché «passato» e «modernità» sono concetti assai fluidi, in ogni caso pare che il dibattito abbia imboccato la via giusta, sono sicuro che tra non molto arriverà risposta all’istanza che sale dai coglioni, che già da tempo roteano chiedendo al legislatore di trovare una soluzione all’insopportabile piagnisteo di chi sputa nel piatto in cui mangia: nellimpossibilità di chiuderli in una macchina del tempo e mandarli a fare in culo nella loro vagheggiata Arcadia, che per alcuni è quando non c’era internet, per altri quando non c’era la tv, per altri ancora quando non c’erano gli antibiotici, prende corpo lidea di tagliar loro la luce, il telefono, il gas e l’acqua corrente, limitando le cure di cui abbiano bisogno a salassi e cataplasmi, a consentirne gli spostamenti solo a dorso di muli, e robe del genere. 
Stamane, per esempio, ha preso la parola l’onorevole ***, che ha preso spunto da quello che un avanzo del neoidealismo crociano ha scritto su Il Foglio di giovedì 16 gennaio, almanaccando sulle bufale che non stanno più in ammollo nella melma come nei quadri dei Macchiaioli («povere bufale»), sui neurologi che hanno degradato lanima a cervello, sugli «ateisti» (sic) che vorrebbero lavessimo artificiale, il cervello, perché, a suo dire, ritengono che «un uomo con cervello artificiale non ha bisogno di Dio», e su quanto «la tecnica e le tecnologie mi sono odiose». Insomma, una uàllera gigantesca.
«’Sto stronzo – ha detto l’onorevole ***, eletto in una circoscrizione tra le più rustiche del mio sentire rompe er cazzo pecché dopo che l’homo habilis è diventato erectus, e poi sapiens, mò c’è pericolo che possa diventa’ homo electronicus. Se chiede se ce sarà un post umano dopo er post moderno. Dice che c’è er rischio che le machine possano addiventa’ parte dell’homo, col rischio che poi ce va in sintetico. Pe’ inciso, rubacchia virgolettati da quello che ’artra fetecchia de la stessa razza ha scritto quattranni fa su la Repubblica. Sia detto pe’ chi nun lo conosce, onorevoli colleghi, ’sto stronzo è sordo come ’na campana e sta da mezzo secolo attaccato a ’n apparecchio acustico dalta tecnologia, mica a un corno de bufala...».

[...]


Nell’affermazione che i padri abbiano ipotecato il futuro dei figli v’è l’eco della fatale sentenza che risuona nella tragedia greca e nella Bibbia, e tuttavia chi lo afferma sembra voler segnalare qualcosa di inaudito, come fossimo dinnanzi al sovvertimento di una legge che fino a ieri era inviolabile. In realtà, i figli pagano sempre le colpe dei padri, da sempre, né siamo di fronte ad una sconvolgente novità nel constatare che «oggi è peggio di ieri», nel prevedere che «domani sarà peggio di oggi», che questo sia dovuto a errori che da una generazione ricadono su quella che la segue: è l’ineluttabile della catena ereditaria, e pretendere che individualmente o collettivamente il lascito debba essere sempre in positivo, più che ingenuo, è stupido. Fino a quando sarà consentito entrare in possesso di un bene senza altro merito che essere figlio di chi lo ha conquistato – e c’è da ritenere sarà consentito ancora per molto altro tempo – si dovrà accettarne il rovescio, mentre il discutere se di generazione in generazione quel bene sia stato accresciuto o dilapidato non ha altro senso che far storia. Sarà per questo che marxismo e liberalismo hanno contatto in un solo punto, nella critica dell’asse ereditario, e che in quel punto tentano l’uscita dalla storia.