Dire
che la democrazia è la «forma di governo in cui il potere è retto dal popolo»
(De Mauro) è corretto, ma forse si può dire meglio: è la «forma di governo che
si basa sulla sovranità popolare e garantisce a ogni cittadino la
partecipazione in piena uguaglianza all’esercizio del potere pubblico»
(Treccani). Entrambe, tuttavia, sono definizioni riduttive, perché non danno
conto dello strumento col quale la democrazia si realizza, sicché a «dottrina e
costituzione politica che assegna la sovranità di uno stato al popolo, il quale
la esercita per mezzo dei suoi rappresentanti» (Palazzi), penso sia da
preferire la definizione di «forma di governo in cui il potere viene esercitato
dal popolo tramite rappresentanti liberamente eletti (democrazia
rappresentativa) o senza intermediari (democrazia diretta)» (Devoto-Oli)
oppure, con maggior cura al dettaglio, «forma di governo basata sull’uguaglianza
e la libertà di tutti i cittadini e in cui la sovranità risiede nel popolo; in
particolare, si parla di democrazia diretta, quando, attraverso la convocazione
di un’assemblea plenaria, il popolo è consultato per qualsiasi decisione di
ordine pubblico, e di democrazia rappresentativa, quando esso elegge delle
persone e degli organi che li rappresentano» (Zanichelli).
Pedanteria?
Può darsi, ma se vogliamo discutere di sistema elettorale, cioè dello strumento
col quale si dà corpo a una democrazia rappresentativa, occorre non perdere di
vista il fine, che è quello di trovare il miglior equilibrio, da un lato, tra
libertà e uguaglianza, e, dall’altro, tra rappresentatività e governabilità, ed è in
tal senso, che va segnalato il rischio di fraintendere un termine come popolo. Se
è vero, infatti, che la democrazia deve evitare che il potere stia nelle mani di
uno o di pochi, non può tuttavia consegnarlo in quelle di tutti, ma solo in quelle di
una maggioranza, il che vuol dire che a tutti deve assicurare una rappresentanza
in parlamento, ma non al governo. Potremmo così concludere, in via preliminare,
che una democrazia rappresentativa degna di tal nome si realizza quando il
popolo dà alla maggioranza la garanzia di governo e alla minoranza – meglio, alle
minoranze – la garanzia di controllo e di critica, cioè di opposizione, assicurando
la possibilità di una reale alternanza di ruoli.
Se non
si sollevano obiezioni a quanto fin qui detto, possiamo scendere nel concreto,
dove dobbiamo prendere atto che non sempre
– in Italia, mai –
una maggioranza è assoluta, il che
pone un problema di non poco conto. Dovendo, infatti, assicurarle la garanzia
di governo, occorre in qualche modo evitare che questa le sia sottratta dalla
garanzia di opposizione assicurata alle minoranze, la cui somma degli eletti sia
numericamente superiore a quella degli eletti per il partito o la coalizione di maggioranza relativa, e soprattutto quando la loro frammentazione renda impossibile l’alternanza. In pratica, occorre che il
principio di rappresentatività ceda, in qualche misura, in favore di quello
di governabilità, il che mette ineluttabilmente in discussione, e in pari misura, quel
proporzionale puro che sembrerebbe il più adatto ad assicurare una effettiva rappresentanza a tutti. Non è
il solo paradosso che la democrazia è chiamata a sciogliere, ma qui il nodo è
assai intricato, perché, a penalizzare troppo il principio di rappresentatività
in favore di quello di governabilità, si rischia una dittatura della maggioranza relativa, mentre al contrario il rischio è quello
di una paralisi del potere.
Prima di passare a discutere di sistemi elettorali, dunque, occorre avere ben presente che, in mancanza di una base elettorale che per sua natura sia incline a bipartirsi, e che anzi abbia inclinazione a frammentarsi (poco importa per quale motivo), considerare assolutamente preminente il principio di rappresentatività porta ineluttabilmente all’ingovernabilità, mentre ritenere assolutamente preminente il principio di governabilità porta
ineluttabilmente a limitazioni del diritto di rappresentanza.