Sulle «nuove
regole» che la retorica si dà col mutare del foro cui si rivolge – ne parlavo
qualche mese fa (Intorno al cacozelo -
Malvino, 10.2.2014) – devo
rettificare quanto ho scritto: il mutamento non si ha «con l’uscita dal Barocco»,
ma nel momento in cui vi si entra, e forse anche un poco prima. In tal senso va
corretto anche quanto deducevo, almeno riguardo all’uso dell’analogia, sul
nesso tra mezzi e fini della persuasione, al punto da poterne invertire il
segno: direi che è la retorica a trasformare il foro, e non viceversa. Mi rendo
conto che, esposta in questi termini, l’affermazione farà drizzare i capelli in
testa a chi sia affezionato alla tetragona vulgata marxiana su struttura e
sovrastruttura, ma porgo subito il pettinino: la retorica che porta al Barocco
è a sua volta un prodotto. Dunque aggiusterei il tiro a questo modo: la
persuasione comincia a «mostrarsi allegra e piacevole», abbandonando le armi di
offesa e di difesa che le erano servite per più di quindici secoli, in pratica
da Quintiliano in poi, non già per adeguarsi alla cortesia come abitudine di corte,
ma perché la corte prenda abitudine alla cortesia. In altri termini, non è un
nuovo genere di principe a volere un altro genere di retore, ma è un nuovo
genere di retore che riesce a persuadere il vecchio principe a rinnovarsi. Ne
traggo convinzione grazie alla descrizione che Cesare Ripa fa della Rettorica nella sua Iconologia. L’«artificio», qui, è già «dolce», e l’arte ci si
presenta con un libro in una mano e uno scettro nell’altra, e «sprona», sì, ma «raffrena»
pure e, in virtù del suo aspetto amabile, «piega». Siano in un altro mondo
iconologico rispetto a quello di un Gherardo di Giovanni di Miniato, che è solo
di un secolo prima: l’arte, qui, è ancora tutta bellica.
E
tuttavia occorre dire che l’immagine orna il De nuptiis Philologiae et Mercurii
di Marziano Capella, che è del V secolo: la Rettorica, qui, è ancora guerriera, ma già accenna ad un sensibile ingentilimento.
lunedì 28 aprile 2014
«Una giornata particolare»
Ieri è
stata «una giornata particolare» e con le virgolette alludo al film di Ettore
Scola (Italia, 1977), alla Roma del 6 maggio 1938 stracolma di folla festante
per la visita di Adolf Hitler, evento storico anche quello. Non si parlava d’altro,
proprio com’è accaduto ieri, e anche in quel caso s’ebbe gran spreco di
retorica, mastodontico servizio di sicurezza, gerarchi in prima fila, entusiasmo
alle stelle. Ieri, come 76 anni fa, non c’erano mura che potessero ovattare l’orecchio
alla stentorea cronaca in diretta della solenne buffonata: gli altoparlanti del
regime raggiungevano anche chi avesse voluto perdersela. Analogia bislacca, penserà il lettore, ma
ieri, da laicista, io mi sentivo nei panni che nel film di Ettore Scola erano
indossati da Marcello Mastroianni. Se avete visto il film, rammenterete: in
quegli anni il culto della virilità non era meno severo con gli omosessuali di
quanto la dittatura lo fosse coi dissidenti politici, e gli uni e gli altri
finivano al confino, entrambi marchiati a fuoco come «disfattisti» – da
oppositori di un partito che pretendeva la coincidenza con lo stato e con la nazione
o da disertori della campagna di incremento demografico, non faceva poi tanta
differenza – e Marcello Mastroianni interpretava un nemico della Patria alla
vigilia della sua partenza per quella che qualcuno, una settantina d’anni più
tardi, avrebbe definito una «villeggiatura», per le sue «tendenze perverse»,
che già gli erano costate la perdita del lavoro. Analogia davvero bislacca,
dunque, convengo. Ma fare della canonizzazione di due papi una celebrazione da
dover seguire a tutti i costi, salvo che tapparsi in casa e chiudere ogni
canale di comunicazione col mondo esterno, non è da paese totalitario?
sabato 26 aprile 2014
Vernissage
Michele Castaldi (Napoli, 2011)
Memammapapà (2014)
tecnica mista su cartoncino, cm 66,5 x 74,5
(collezione privata)
venerdì 25 aprile 2014
Mi auguro che la Procura di Brescia
Mi auguro che la Procura di Brescia abbia
già aperto un fascicolo sul cedimento strutturale del Crocifisso eretto sul
Dosso dell’Androla, a Cevo, in Valcamonica, perché si arrivi, possibilmente in
tempi brevi, ad accertare chi siano i responsabili della morte del 21enne che
vi è finito schiacciato sotto. Non vi è dubbio, infatti, che non si sia
trattato di tragica fatalità, ma di omicidio colposo, e che quindi sia doveroso
valutare nelle opportune sedi a chi vada addebitato, piuttosto che lasciarsi andare
a stravaganti elucubrazioni sul più attendibile significato racchiuso del
simbolico dell’evento, come tanti sembrano credere sia la sola cosa necessaria,
oltre che possibile. Saranno i giudici a stabilire in quale misura la colpa
debba essere attribuita a chi ha voluto quello sproposito alto trenta metri e pesante
diverse tonnellate, a chi ha condotto le perizie tecniche che hanno dato il non
obstat, a chi ne ha autorizzato l’installazione, a chi l’ha progettato e a chi
l’ha costruito, ma fin d’ora, dinanzi a quanto è accaduto, ci è lecito
evidenziare un dato incontestabile: a fare il morto è stata quella smania di grandiosità
che dall’ardito schizzo di un artista contagia, per ragioni assai diverse ma tutte
convergenti, alti prelati, amministratori della cosa pubblica ed esecutori d’opera.
Mi azzarderei a dire che Marco Gusmini è morto da vittima sacrificale sull’altare
attorno al quale trafficano preti che pensano di poter disporre del denaro
pubblico per scimmiottare le committenze d’arte dei porporati del Rinascimento,
sindaci che li assecondano (nella migliore delle ipotesi) per dare visibilità
internazionale al paesino, titolari di imprese affamati di commesse pubbliche e
artisti con la fregola mistica.
Refrattarietà
Contavo di farlo già da tempo, lo faccio
adesso che un post di Massimo Mantellini mi offre l’occasione. Quasi ogni
giorno mi arrivano nella mailbox avvisi di Tizio che mi aggiunge al suo Google+,
di Caio che mi invita su LinkedIn, di Sempronio che mi dà appuntamento su FriendFeed…
Starò usando termini impropri, ma è che tutta questa ragnatela di collegamenti,
relazioni, scambi e strusci per me ha dell’ostrogoto. Suppongo che questi
avvisi mi giungano perché devo essermi iscritto a questi servizi – suppongo si
tratti di servizi o sbaglio? – ma non ricordo quando, e in certi casi sono
certo di non averlo fatto, e in altri di aver cancellato l’iscrizione… Insomma,
volevo approfittare di queste pagine, le uniche dalle quali comunico col mondo
virtuale (non ho una pagina su Facebook e accedo a Twitter solo una o due volte
a settimana), per scusarmi se non ricambio queste attenzioni – suppongo si
tratti di attenzioni o sbaglio? – di cui, comunque immeritatamente, sono fatto
oggetto. Qui, come fuori dal web, sono scontrosetto e ho grande difficoltà a
dare confidenza a chi non conosco, in più i primi quattro quinti della mia vita
sono scorsi quando Internet non c’era e, anche se in qualche modo ci sono
dentro da quasi tre lustri, molto mi è lontano miliardi di anni luce, e non
sento alcuna urgenza di informarmene. Poi c’è che tutto quanto è social network
mi deprime, perché quando v’indugio mi sembra di aver tolto tempo a cose molto
più importanti. Insomma, non vorrei si pensasse sia per scortesia o, peggio,
per albagia, ma se non rispondo, contraccambio, aggiungo, eccetera, è per
refrattarietà al mezzo.
giovedì 24 aprile 2014
[...]
Non faccio nessuna fatica a credere che in
Siria si vadano davvero consumando «inaudite violenze da parte dei “ribelli”
contro la popolazione cristiana», come riferiva una suora intervistata ieri da Radio Vaticana, e che tra le atrocità subite da chi rifiuta di convertirsi alla
fede islamica vi siano casi di crocifissione. Superfluo dire che tutto questo
non è affatto bello perché riporta indietro l’umanità ai tempi bui in cui il
fanatismo religioso faceva stragi di manichei, catari, ebrei, valdesi, ugonotti,
indios, ecc., poco importa chi li bruciasse, sgozzasse, squartasse, ecc. In quanto alla crocifissione, orripiliamo al pari di quando leggiamo che per certi devoti particolarmente motivati farsi inchiodare ad una croce è uno sfizio imperdibile quando arriva il Venerdì Santo, spesso previa autoflagellazione, ma non ci sfugge la differenza tra una arrapante perversione e un atroce supplizio. Ciò detto per fare sgombro il campo da fraintendimenti, alcune affermazioni riportate nell’intervista lasciano
perplessi: gli islamisti avrebbero decapitato alcuni cristiani «giocando a
calcio con le loro teste» e, dopo aver sventrato alcune donne gravide, ne
avrebbero «impiccato i feti agli alberi coi cordoni ombelicali». Per carità,
tutto è possibile, qui non si intende sollevare dubbi sulla veridicità di
quanto affermato dalla suora, anche perché ciò che ha riferito era a sua volta tutto de relato, e non ci ha detto da chi, e lei stessa ha preferito rimanere anonima. E tuttavia occorre rammentare che una testa pesa
intorno al 6% del peso corporeo in toto e giocare a calcio con un pallone di 4
o 5 chilogrammi è pressoché impossibile, anche rinunciando ai cross, ai tiri piazzati
e ai contropiedi. Pressoché impossibile anche impiccare un feto col suo cordone
ombelicale: coi suoi 45-55 cm e la sua consistenza gelatinosa,
calcolando quanto ne serve per un girocollo (circa un quarto, in proporzione),
per il nodo che stringe il cappio e per quello che ne fissa l’altro estremo a
un ramo – beh, proprio non ci siamo, un cordone ombelicale risulta di lunghezza insufficiente – più che impiccato il feto risulterebbe garrotato. Diciamo che poteva bastarci l’orrore di
sapere che alcuni cristiani siano stati uccisi in Siria, non era necessario esagerare con macabri orpelli narrativi: ci dispiace uguale.
mercoledì 23 aprile 2014
Papa Francesco News for iPad
Vuoi tenerti informato in tempo reale su
tutti i «buon appetito» e gli «etciù-salute-grazie» di Bergoglio? C’è l’app che
ti viene incontro. Il prezzo è modico: visto che il denaro è lo sterco del
diavolo, costa appena una sua scoreggina ($ 0,99).
Se non ci fosse bisogno ancora di illudersi
Se
non ci fosse bisogno ancora di illudersi, a questo punto dovrebbe esser chiaro a
tutti che Matteo Renzi è un pallone gonfiato. Il fatto è, come ho già scritto
su queste pagine, che le cose sono messe così male che illudersi appare
necessario ancora a molti. Una sorta di dovere civico, diciamo. Del tutto
ovvio, quindi, che sul rapido sgonfiarsi del pallone si voglia chiudere un
occhio. Tristemente comprensibile, ma intollerabile, perché l’illusione sta ipotecando ogni spazio di critica: manca poco all’accusa di disfattismo per il solo accostare i risultati alle attese.
Al netto degli annunci, cosa ha concluso in due mesi il Fenomeno da una
riforma a settimana? Un beneamato cazzo. L’Italicum è già in forse: è bastato
che i sondaggi dessero il M5S avanti a Forza Italia, e che dunque un eventuale
ballottaggio non si annunciasse più tra chi voleva quella legge elettorale,
perché non piaccia più a chi doveva votarla in Parlamento, e se ne sta lì, in
attesa che a qualcuno venga in mente cosa farne. E meno male, perché si
trattava di una vera merda, anche peggiore del Porcellum.
Per farsi un’idea del
profilo riformatore di Matteo Renzi, d’altronde, bastava un’occhiata a quella
schifezza di Senato immaginato da un ddl che ha sollevato critiche perfino nel
Partito Democratico, spaccandolo.
Sui famosi 80 euro, meglio stendere un velo
pietoso: tolto l’ingombro delle reticenze di Padoan e dei begli occhioni della
Boschi, non c’è ancora copertura, e chissà se ci sarà mai. In ogni caso, si
annuncia come un bonus una tantum. Gli incapienti, i pensionati e le partite Iva
sono fuori, e chi è dentro, quasi certamente, dovrà restituire ciò che avrà con
gli interessi, visto che parte della copertura è partita di giro con tagli ai
servizi. E tuttavia pensare che la trovata serva a comprarsi il voto di qualche gonzo offende, indigna.
Il resto è agenda delle buone intenzioni, e delle intenzioni nemmeno
tanto buone. In ogni caso, la millantata velocità del governo rimane uno
sbattersi senza costrutto: dismettiamo le auto blu (qualche centinaio su decine
di migliaia), mettiamo donne a capo di aziende pubbliche (in allocazioni
ornamentali, scegliendo tra rampolle di razza padrona, possibilmente senza
cellulite), tagliamo i costi della politica (ma intanto intaschiamo alcune
decine di milioni di rimborsi elettorali dell’ultima tornata, mentre della
legge che dovrebbe abrogare il finanziamento pubblico ai partiti, ma per modo
di dire, non si ha notizia: persa nelle nebbie).
A farlo notare si è «gufi» e «rosiconi» (pensa di essere un tronista, il cretino),
addirittura «soloni milionari» (questa non è sua, deve averla scopiazzata da Libero o il Giornale): basta una superficiale analisi lessicale
dei termini utilizzati, per capire che ci troviamo dinanzi ad un quarantenne
che ha subito un blocco alla fase adolescenziale e che pensa di avere a che
fare con dei ragazzini che hanno cinque o sei anni meno di lui: il tipico
prodotto della politichetta di provincia che ha subìto una mutazione favorevole
su quel tratto di genoma che regola furbate e maneggi. Altrimenti: una
neoplasia sviluppatosi nell’organo del «saperci fare», e che assume la forma
degli spropositi fuori scala.
Solo
a pallone sgonfiato potremo misurare il metraggio l’involucro, oggi dobbiamo limitarci a considerarne capacità ed elasticità. E non è un calcolo complicato.
Se
l’elettore medio italiano ha «l’evoluzione
mentale di un ragazzo che fa la seconda media e che non sta nemmeno seduto nei
primi banchi» (Silvio Berlusconi, 9.12.2004), occorre parlargli in modo
acconcio – parole facili, frasi brevi, concetti semplici – ma soprattutto
occorre ripetersi e ripetersi, senza stancarsi mai, e senza alcun timore di
annoiarlo: anche quando è semplice, infatti, un concetto ha sempre un certo grado
di astrattezza che tende a renderlo fuggevole a chi abbia lo sviluppo
intellettivo di un dodicenne, quindi ribadirglielo non è mai superfluo, anzi,
il ragazzino apprezza; anche quando è breve, poi, una frase acquista maggiore
incisività nell’essere frequentemente riproposta, fino a diventare, se tocca il
tasto giusto, un vero e proprio jingle; in quanto alle parole, pure quelle
facili hanno bisogno di essere riascoltate e riascoltate per diventare solide,
anzi, sono proprio le più facili a correre il rischio di farsi volatili se non
vengono continuamente ripetute per dar loro il senso al quale si vuole siano
piegate.
Est modus in rebus, tuttavia. Nel flusso delle parole facili è utile,
di tanto in tanto, farne cadere qualcuna che affondando crei un vortice in cui
la banalità acquisti energia centripeta fino a farsi estremamente grave, fino a
farsi buco nero che offra una dimensione parallela nella quale «fare» non regge
più alcun complemento oggetto, ma sembra verbo intransitivo. Così con le frasi:
brevi, sì, ma a effetto, prendendo a prestito locuzioni proverbiali e dialettali,
residui di barzellette sedimentate sul fondo della brocca in cui si fa cadere
la mancia, spezzoni di scioglilingua da scampagnata, versi sfusi da canzonette
orecchiabili, meglio se vecchie di una decina d’anni, e soprattutto tanto
idioletto pubblicitario. Idem coi concetti: semplici, ma meglio circolari che
lineari, concetti che si autorappresentino e si autoargomentino, come ciò che è
dozzinale quando avanza la pretesa di essere autoevidente. Tutto questo,
tuttavia, meglio se d’istinto. Per intenderci, guardate Mario Adinolfi: è un
Matteo Renzi abortito. Andato a male per atrofia dei villi. Se a Palazzo Chigi c’è l’uno e non l’altro, in fondo, è solo un caso.
sabato 19 aprile 2014
Due palle
Non
si pensi ch’io non ne avessi l’intenzione: l’occasione c’era, e la motivazione
pure. Avevo pure in testa un incipit carino, avrei scritto che in bocca a quel Rhincodon
typus di Ratzinger c’è stato quel Labroides phthirophagus di Ferrara, mentre a
pulire i denti di quel Gymnothorax javanicus di Bergoglio, voilà, quel Rhynchocinetes
durbanensis di Celentano. Poi avrei fatto qualche cenno ai diversi stili dei
telepredicatori statunitensi, sarei passato all’analisi lessicale del testo, naturalmente
avrei citato Yuppi du, e ce n’era pure per Il Fatto Quotidiano… Insomma, v’assicuro
che il pezzullo stava già tutto in punta in penna.
Sì, ma poi due palle.
venerdì 18 aprile 2014
G.G.M.
Aveva
una scrittura furba, tutta trucchetti, botti e botole. Di questo non mi capacitavo nei primi anni
’70, quando Cent’anni di solitudine
era in cima ai regali scontati, con Siddharta e Il piccolo principe:
come può piacere tanto – mi domandavo, sbattendoci la testa – un libro che
dichiara, anche così sfacciatamente, di voler intontire il lettore? Come tante altre
volte è accaduto, ero in errore: quello vuole, il lettore. Basta dargli, ogni
dozzina di pagine, un «sei di quelle che confondono il cazzo con l’equinozio»,
un «non può piovere tutta la vita», e ti è grato: è una faccenda personale tra
chi vuole essere frastornato e chi è bravo a frastornare, perché metterci il
becco?
giovedì 17 aprile 2014
Voveo
In voveo
c’è
un esplicito offrirmi a quel che dichiaro di vovere (del tutto assente in volo, desidero, cupio, opto, postulo, coi quali
esprimo il tratto eminentemente attivo della volontà che aspira, ambisce, brama,
preferisce, richiede), sicché col suo participio passato, votum, esprimo una sollecitudine che, per intensità di investimento
emotivo, è inferiore solo alla devotio che implicherei in devoveo: col votum non mi limito a dichiarare quel
che desidero, ma mi do in pegno perché si realizzi. In altri termini, dichiaro
un impegno che connota le motivazioni ideali del bisogno che esprimo, conferendo
al mio desiderio il valore di un servizio prestato a un’istanza superiore... Dio, come fila tutto liscio nel cavare il significato
di un termine dal suo etimo. Si rimette ordine al mondo, direi.
I partiti, per
esempio, quelli che chiedono il nostro votum,
tanto per intenderci: partitus è
participio passato di partiri, partiti sono le partes in cui la società viene a farsi plurale nell’esprimere
aspirazioni diverse, ovviamente confliggenti fra di loro, e nel numero dei rispettivi vota si
appalesano le loro forze, sicché votare significa… Meglio riporre il dizionario etimologico, il mondo si è fatto refrattario all’ordine.
Ammesso e non concesso, infatti, che i partiti esprimano bisogni dettati da istanze superiori, è pressoché
impossibile trovare coincidenza tra le aspirazioni che dichiarano e quelle mie:
mi è negato il votum, tutt’al più mi resta un cupitum, un optatum (peccato che velle
non abbia participio passato, sarebbe l’optimum). Volendo conservare al votum quel che di etimo residua in esso, quindi, non resterebbe che
votare il menopeggio, il minimo di votum, sennò
astenersi. Per l’irrisorio peso di un
singolo voto, tuttavia, resta una terza via: il disimpegno attivo, il voto che sancisce la rassegnazione al disordine, votare il peggio del peggio.
martedì 15 aprile 2014
Misteriosamente
A
dispetto di ciò che ragionevolmente potrebbe indurmi a sentirlo repellente,
Marcello Dell’Utri mi sta misteriosamente simpatico, e da sempre. Voglio dire:
non è la simpatia di cui si fa obolo a chi è caduto in disgrazia. No, Marcello
Dell’Utri mi è sempre stato misteriosamente simpatico, anche quando ragionevolmente
avrei potuto – vedete? faccio fatica a dire dovuto – sentirlo repellente. Quando
dico ragionevolmente, alludo alle ragioni che lo rendono repellente ai più:
sono disposto a considerarle forti, ma qualcosa – misteriosamente, dicevo – non
le rende forti a sufficienza per farmene trarre le dovute conseguenze. Si dà il
caso, tuttavia, ch’io non abbia mai saputo aver troppa riverenza per il
mistero: non ho mai ceduto alla tentazione di ritenerlo uno scrigno entro il
quale fossero racchiuse preziose verità, per esempio, anzi molto spesso mi è
parso l’astuccio destinato a restar vuoto della risposta esatta a una domanda
posta in modo erroneo. Così con la misteriosa simpatia che ho sempre provato
verso Marcello Dell’Utri: mai pensato fosse innocente del reato per cui è stato
condannato in primo grado e in appello, per esempio; mai pensato che fosse in
buona fede nella faccenda dei diari di Mussolini; nessuna corrente empatica
dalla sua fama di bibliofilo (anche perché da cenni raccolti qua e là mi sono
fatto l’idea che nel suo caso, più che di bibliofilia, si possa più
correttamente parlare di bibliomania compulsiva); nemmeno sono riuscito mai ad
individuare in lui un dettaglio –
un tratto fisiognomico, una posa, l’indizio di un’impronta
comportamentale – che, trascendendo il
tutto, possa spiegare il mistero. Sarà una canaglia, non mi azzardo neppure a metterlo in discussione, ma nei suoi confronti devo confessare una schietta cordialità.
lunedì 14 aprile 2014
Quattro appunti
I. Nel
tentativo di dimostrarci che l’italianità è mero prodotto storiografico, mera invenzione
letteraria, astratto stereotipo che mal si adatta a varietà e complessità di
tipi, e solo per assecondare pregiudizi di comodo, siano essi lusinghieri o malevoli,
che il carattere nazionale è solo costruzione retorica, e assai posteriore a un’idea
di unità geografica, coincidendo con lo sforzo di immaginare in essa la cogenza
di un’unità politica, e che insomma «l’italiano
non esiste» – tentativo che in buona misura ci appare andato a buon fine – Giulio
Bollati (L’italiano – Einaudi, 1983) lascia
inavvertitamente cadere una considerazione che sembra cogliere un tratto
peculiare, tutto naturale, dello specifico identitario che intende dimostrare
come surrettizio e strumentale: l’italiano eccelle nel saper guardare e nel
saper rappresentare ciò che guarda. Sembrerebbe poter essere il gene che
spieghi almeno un aspetto del fenotipo: sarebbe data spiegazione del perché oltre
il 50% del patrimonio artistico universale è italiano (secondo alcuni oltre il
70%). E tuttavia mi pare che come spiegazione non regga: la stragrande
maggioranza (oltre l’80%) del patrimonio artistico italiano è toscano, e per
giunta la sua produzione è concentrata in pochi secoli, sicché dovremmo
ipotizzare che esista un’italianità, ma circostanziata a un solo tratto
caratteriale, per lo più rappresentata in un’area geografica e in un arco
storico relativamente limitati. Saremmo alla sineddoche identitaria.
II. In Perché gli intellettuali non amano il liberalismo
(Rubbettino, 2005), traduzione italiana di Pourquoi
les intellectuels n’aiment pas le liberalism (Odile, 2004), Raymond Boudon
ci offre spiegazioni che appaiono poco convincenti. Sfrondandole del superfluo
sono le seguenti: (1) sotto l’etichetta di liberalismo sono ricompresi molti
significati e autori assai diversi, e questo causerebbe confusione (arriva a
dire «ignoranza»): ammissibile per
chi si serve dell’intelletto come principale strumento di lavoro? (2) la
visione dell’uomo, della società e dello stato propria del liberalismo è
sostanzialmente «razionale» e «culturalista», dunque ha radici assai meno
profonde di quanto le abbiano altri filoni di pensiero: ammissibile che gli
intellettuali si muovano preferibilmente nel solco di quelli più tradizionali? (3)
la natura intrinsecamente utilitaristica del liberalismo tende a privarlo di
una struttura sistematica, rendendolo poco adatto a offrirsi come ideologia: se
è ammissibile che gli intellettuali si muovano preferibilmente in un sistema, l’asistematicità
del pensiero liberale non si offre in definitiva anch’essa come sistema, foss’anche
nel darsi come metodo per la costruzione di principi, regole e criteri? Rozza,
probabilmente, ma assai più appagante la risposta che Robert Nozick dà alla
stessa domanda in Why Do Intellectuals Oppose Capitalism? (Cato Institute, 1998):
gli intellettuali sono ostili al liberalismo perché le società che lo adottano
non remunerano adeguatamente gli anni che essi hanno sacrificato allo studio.
III. In coda a una polemica che su queste pagine mi ha già visto fornire a più riprese numerose prove documentali a smentire quanto affermato da chi (or non rammento chi fosse) sosteneva che Luigi Surzo fosse tornato dagli Stati Uniti antiproporzionalista e uninominalista, riproduco qui sotto alcuni passaggi da un suo articolo apparso su Il Quotidiano in data 8 marzo 1947, a parecchi mesi dal suo rientro in Italia, quando il dibattito pubblico verteva su sistema elettorale da adottare per le prime elezioni politiche dell’Italia repubblicana. Sturzo scriveva:
«La legge elettorale, quale essa sia, dovrà favorire sia la formazione di partiti nazionali, sia la frequenza e valorizzazione dei contatti programmatici e politici fra gli eletti e gli elettori. A questo scopo si deve preferire quel sistema proporzionale che, senza impedire le formazioni di piccoli partiti di tipo nazionale, metta un freno al pullulare di partiti locali, anzi localistici, che contando sopra una proporzionalità infinitesimale, alterano
l’organicità rappresentativa dei corpi elettivi. [...] A questo punto vengono fuori gli uninominalisti a dirci che, con il loro preferito sistema, i candidati riescono di più vicini agli elettori, perché le circoscrizioni sono ancora più piccole delle provinciali. In realtà, in una provincia da sei a dieci seggi, la selezione dei candidati si fa più o meno per centri locali, sì da ripetere quasi gli antichi collegi con occasionali adattamenti. Ma col sistema del collegio provinciale e a base di partiti, si moltiplica per sei o per dieci
l’interessamento dell’elettorato, ora che questo è universale, abbracciando uomini e donne, e la molteplicità dei partiti e la intensità di vita locale rende più vivace e fattiva la partecipazione del popolo alla politica. Con la combinazione del collegio provinciale e del sistema proporzionale si ha il vantaggio di eliminare i colpi di maggioranza, che per pochi voti sopprimono la rappresentatività delle minoranza. [...] Gli uninominalisti ci ripetono che con il loro sistema vengono fuori deputati ben preparati, nomi degni della rappresentanza nazionale, mentre la proporzionale ci condanna ad avere una camera di mediocri, di intriganti, di demagoghi, di giovincelli sbadati, sol che abbiano voce nei partiti. [...] Il problema, che questi tutelatori della qualità del deputato non si sono messi a esaminare, è ben altro: cion i partiti nazionali e con la proporzionale si favorisce
l’avvento delle classi operaie al governio del paese, secondo i democristiani in cooperazione con le altri classi; secondo i social-comunisti per la dittatura del proletariato. Teniamo alla teoria della democrazia cristiana e favoriamo la cooperazione di tutte le classi, una cooperazione effettiva, a parità di condizioni, senza privilegi per gli uni e per gli altri. Finora la rappresentanza parlamentare politicamente è di tutte le classi, ma individualmente della classe borghese, che è ancora la classe politica, la ruling class del paese. Togliatti, Nenni, Saragat sono individualmente borghesi vestiti da proletari. De gasperi, Gronchi, Aldisio sono dei borghesi che non rinnegano la loro classe, ma adottano anche la classe operaia. Croce, Orlando Paratore, Nitti e Sforza sono dei borghesi che non rinnegano la borghesia professionista, pur interessandosi dei problemi sociali. Non
c’è bisogno del sistema uninominale per creare alla classe borghese un privilegio che non ha bisogno di avere».
IV. Dovrei farlo di continuo, ma il timore che possa apparire una carineria... Insomma, ci tenevo a dire, anche se una tantum, che la lettura quotidiana di Formamentis mi è preziosa.
Dio (o chi per lui)
Quando
leggiamo del tizio cui il chirurgo ha asportato il rene sano invece di quello
malato o della tizia col carcinoma radiosensibile alla mammella destra cui è
stata irradiata quella sinistra – e solitamente si tratta di articoli confinati in cronaca,
rubricati come casi di malasanità – a nessuno salta in mente di sollevare
obiezione sul fatto che quel rene malato dovesse davvero essere asportato
chirurgicamente o che quel carcinoma mammario dovesse davvero essere irradiato,
tanto meno di mettere in discussione tout court la chirurgia o la radioterapia,
men che meno di insinuare che quanto accaduto al malcapitato o alla malcapitata
sia il giusto prezzo da pagare per chi osi sfidare il proprio destino invece di
rassegnarvisi. Sono i casi in cui il senso comune cede volentieri al buonsenso,
ma ce ne sono altri in cui fa una fatica enorme, spesso senza riuscirvi.
È il
caso dei due episodi di malasanità che in questi giorni hanno conquistato le
prime pagine dei quotidiani nazionali: quello della donna accidentalmente morta
dopo un’interruzione di gravidanza espletata con l’impiego di Ru486 e quello
della donna cui per errore sono stati trasferiti in utero due embrioni di un’altra
coppia. In entrambi i casi, i fatti vanno assumendo un quadro diverso da quello
prospettato in prima battuta: nel primo, ad essere chiamata in causa non sembrerebbe
essere più la Ru486, ma i farmaci solitamente usati in associazione ad essa, che
qui pare abbiano avuto effetto letale perché scaduti (trattandosi di farmaci
impiegati anche per combattere l’ulcera gastrica, avrebbero potuto ammazzare
anche in un contesto diverso da quello di un’interruzione di gravidanza), mentre
nel secondo, contrariamente a quanto si è scritto a caldo, l’errore materiale
non avrebbe avuto origine da uno «scambio di provette», ma da uno «scambio di
cartelle cliniche». Tutto questo, tuttavia, poco importa al fine di affrontare
la questione sulla quale qui intendo soffermarmi: in fondo, i farmaci scaduti che
hanno ammazzato la donna non le sono stati somministrati perché fosse affetta
da ulcera gastrica, e a uno «scambio di cartelle cliniche» non può che essere
conseguito uno «scambio di provette». Sono da recepire in pieno, dunque, le
obiezioni di chi voglia affrontare la questione sollevando il problema dell’opportunità o addirittura
della liceità di interrompere una gravidanza con l’impiego di farmaci invece che
col ricorso ad una tecnica chirurgica o di sottoporsi a metodiche di
fecondazione assistita per risolvere una condizione di sterilità o di
infertilità, che poi è proprio quanto è stato fatto in modo platealmente strumentale: possiamo, in buona sostanza, accettare di individuare la questione
in oggetto, che è nell’esito indesiderato di una procedura medica richiesta un paziente, consentendo di dare un peso argomentativo alle ragioni che in questo caso sembrerebbero mettere in
discussione la stessa procedura medica, mentre nel caso dell’asportazione del
menisco destro al posto di quello sinistro solitamente si mette in discussione solo l’operato
dell’ortopedico e nel caso di un’errata diagnosi radiologica si mette sul banco
degli imputati il radiologo, non la radiologia.
A me pare evidente che la
differenza stia tutta nel riconoscere o nel negare l’opportunità di un
determinato intervento medico atto a risolvere una condizione clinica che il
paziente ritiene insostenibile (più correttamente, nella capacità di concedere a un proprio simile dei bisogni diversi dai propri): se si riesce a mettersi nei panni dell’interessato,
l’esito negativo riesce ad essere correttamente individuato in un errore dell’operatore,
nel margine di rischio che è intrinseco ad ogni pratica clinica o
nell’imprevedibile fatalità che incombe su ogni agire umano; se non vi si riesce, non v’è altra scelta che
individuarlo nell’inopportunità dell’intervento, posta l’entità del rischio che
esso assume a fronte dell’irrisorietà dell’esigenza che lo dichiara necessario,
sicché – è questo il nostro caso – una donna è morta perché voleva abortire,
per giunta senza neppure volersi prendersi lo scomodo di un raschiamento, e un’altra
si ritrova in utero embrioni altrui come ragion sufficiente del non
essersi saputa rassegnare a non avere figli.
Superfluo sottolineare che la
capacità di mettersi nei panni altrui è qualità eminentemente elastica, come
dimostra il fatto che fino a qualche anno fa, alla notizia della morte di una
donna in seguito a un intervento di mastoplastica additiva o di liposuzione, l’accaduto
era rappresentato come l’apologo della sciagurata incosciente che rincorrendo
un vacuo capriccio si era sottoposta a un’operazione rischiosissima, eseguita da
un medico senza scrupoli. La morale di questo apologo residua, ma in tracce
sempre meno evidenti, pari solo al residuo pregiudizio che grava sulla
chirurgia estetica, su chi la esercita come professione e su chi vi sottopone. Questa
morale e questo pregiudizio, d’altronde, sembra abbiano perso l’arroganza del
giudice naturale: l’embolo che ammazza la malcapitata sottopostasi a liposuzione
o l’epatite C contratta per un piercing hanno già da qualche tempo perso l’imago
fantasmatica della punizione divina.
Cosa è accaduto? Dio (o chi per lui) ha
rinunciato (è stato costretto a rinunciare) a dettare legge in certi ambiti:
non può più pretendere che si partorisca con dolore, non può più stigmatizzare
il vaccino come artificio che ostacola la volontà divina, non può più neppure sbraitare che la vanità femminile è chiara prova che alla donna manchi un’anima o
l’abbia, sì, ma particolarmente vulnerabile alle lusinghe del Maligno, bisogna concedergli si ostini a condannare l’aborto (in subordine a
consentirlo in modo cruento) e la fecondazione assistita (in subordine a pretendere,
come afferma il cardinale Elio Sgreccia, che la donna che porta in utero
embrioni di un’altra coppia non abortisca, in sostanza che presti il suo utero in
affitto, in deroga al divieto posto a questa pratica dalla morale cattolica che trova edificante
esempio nella «difesa
dei nascituri nel caso delle donne stuprate dai serbi»). Diciamo
che, nel ritrarsi, Dio (o chi per lui) ci mostra il culo. E non ci sembra dei più sodi, occorre dire, sebbene sia sostenuto da reggiculo cui il senso comune concede autorevolezza.
venerdì 11 aprile 2014
[...]
Alle
17,40 di martedì 10 settembre 2013, David Carelli, 19 anni, prende un’aspirina:
choc anafilattico, arresto cardiaco, coma, morte cerebrale e otto giorni dopo è
in una bara. Una delle tanti morti che ogni anno si registrano nel mondo per assunzione di aspirina. Non riesco a trovare in rete neanche due righe dedicate da La
Stampa all’accaduto, di certo la notizia non ebbe rilievo in prima pagina, né ne
occupò per intero la seconda e la terza, come accade oggi per la donna morta
dopo assunzione di Ru486. Superfluo aggiungere che tanto spazio non è mai stato dedicato da La Stampa alla notizia di una gravida morta per parto.
Senza dubbio la decisione è del direttore, che
tuttavia dovrebbe avere esperienza diretta di come sia infelice la tentazione di
additare in un sospetto il certo assassino: Lotta Continua trattò Luigi Calabresi come
oggi Mario Calabresi tratta la Ru486, senza porsi alcuno scrupolo sulle
conseguenze di congetture azzardate, e date in pasto al ventre molle di un’opinione pubblica che sentenzia per lo più istintivamente.
mercoledì 9 aprile 2014
[...]
È
la prima pagina de Il Foglio di martedì 14 giugno 2005, quella che festeggiava
il mancato raggiungimento del quorum ai referendum sulla legge 40. Dopo 3221
giorni di stagionatura, e alcune sentenze della Corte Costituzionale, ha finalmente raggiunto la giusta morbidezza per pulircisi il
culo.
[...]
La
deriva renziana trova resistenza nel Pd grazie a uomini la cui tempra si
appalesa già nel nome. Vannino, Corradino e Pippo, mica Pucci, Foffo e Porporino.
martedì 8 aprile 2014
«Proprio un rivoluzionario!»
Quando
diceva: «San Pietro non aveva un conto in banca», dall’emozione vi si sarà drizzato
il pelo sull’avanbraccio, dico bene? «Proprio un rivoluzionario!», avrete pensato.
Qualcuno, un po’ apprensivo, avrà temuto che quelli dello Ior gli avrebbero
messo del cianuro nel mate, vero? State tranquilli, non gli torceranno un
capello: lo Ior rimane dov’era, i quattro del Consiglio di Sovraintendenza che
hanno fatto fuori il cardinale Nicora e Gotti Tedeschi rimangono dov’erano, tutto
è uguale a prima.
Notizia appena bisbigliata, neppure si sente, coperta com’è
dalla lunga eco dell’annuncio che Bergoglio forse chiuderà lo Ior, ci sta pensando, propende a chiuderlo, dategli tempo di definire la chiusura nei dettagli. Non lo chiude, però
domani spenderà qualche parolina in favore dei poveracci che rubano nei
supermercati, dirà che il vero ladro è chi li ha costruiti rubando, e i gonzi avranno
di che mettersi l’anima in pace: «Gesù mio, com’è alla mano! Cita Francesco De
Gregori, invece di San Tommaso! Che papa!».
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