Mi
pare che con l’accaduto a margine di Fiorentina-Napoli si sia in presenza dell’ennesimo
trionfo dell’assurdo, specialità in cui da tempo vantiamo l’eccellenza,
offrendo al mondo l’immagine di un paese di merda, ma merda singolare, bizzarra,
stravagante, perfino affascinante se non ci si è ficcati dentro. Tanta
indignazione, innanzitutto. Perché «con i violenti non si tratta». Il che
sarebbe anche sensato, ma non quando ai violenti hai dato modo di avere tutto il
peso che hanno. È a monte che non si dovrebbe trattare con i violenti, perché a
valle, quando hai consentito loro di poter imporre la loro volontà, trattare è
inevitabile, e cedere può addirittura essere necessario, com’è nel caso di
specie: a sospendere Fiorentina-Napoli quasi certamente si sarebbe visto di
peggio, e a scatenarlo sarebbero stato proprio chi ha avuto modo di imporre la
trattativa accreditandosi a pieno titolo come controparte delle forze
dell’ordine. A monte, invece, non mi pare sia mai stato fatto nulla di serio
per evitare che le tifoserie incubassero violenza, anzi è proprio chi oggi
maggiormente si indigna ad essere responsabile di aver consentito –
scientemente o meno, poco importa – che le curve degli stadi di calcio divenissero
vere e proprie discariche in cui sversare le più disparate forme di delinquenza,
quella contigua o perfino organica alla criminalità organizzata, quella attigua
e in gran parte sovrapponibile ad alcune frange di estremismo politico, quella di
un sottoproletariato che ha cercato emancipazione nel teppismo e quella di
psicopatici cui la fede nei colori di una squadra – fede, così la chiamano – ha
dato status di supporter. Così, chi oggi trova in Genny ’a carogna il più comodo
dei capri espiatori è proprio chi ha fatto del calcio una metafora ubiquitaria.
A lamentarsi che un derby possa degenerare in una guerriglia urbana è proprio
chi ne ha sempre drammatizzato fino all’inverosimile il risultato. Chi si duole
che il calcio sia diventato un mostruoso giro di denaro è proprio chi
maggiormente ha contribuito a conferire aura mitologica a semianalfabeti in
mutandoni. La bestia è stata nutrita proprio da chi oggi ne denuncia la
bestialità. Se gli stadi di calcio sono diventate enclavi in cui è sospesa o
derogata ogni disposizione relativa all’ordine pubblico, la colpa è di chi ha
dato al calcio più spazio di quanto ne meritasse.
lunedì 5 maggio 2014
domenica 4 maggio 2014
Grazia nel disagio
Giusto
sessant’anni fa, il 3 maggio 1954, Leo Longanesi era a Francoforte e sulle
pagine del suo diario annotava quanto gli era capitato quel mattino, intorno
alle nove, nell’anticamera di un fotografo: una signora in vestaglia, prima, e
poi un grosso signore anziano in pigiama, e poi una giovane ragazza in
accappatoio, e poi ancora una signora zoppa molto in là cogli anni, tutti con
un bicchiere, uno spazzolino da denti e un tubetto di dentifricio in mano,
sortivano via via da una tenda di percalle a fiori, d’un lato, per passare ad
una stanza affianco, l’unico bagno dell’appartamento, che aveva cinque vani e nel
quale vivevano otto persone, fra cui il fotografo. È questi che spiega all’ospite
italiano la situazione: «Certo, siamo fitti come le sardelle, ma possiamo dirci
fortunati: c’è chi sta peggio. La noia più grossa è quella del bagno, al
mattino. Ma ognuno di noi ha il suo turno. L’importante è aver grazia nel disagio».
Erano gli anni in cui la Germania usciva dal baratro in cui era precipitata una
decina d’anni prima, ma il Wirtschaftswunder non faceva ancora sentire i suoi
effetti sulle condizioni di vita dei tedeschi, che in gran parte continuavano a
subire le pesanti conseguenze di una guerra persa, e persa nel peggiore dei
modi. Di lì a poco avrebbe preso il via uno dei più poderosi piani di edilizia
civile mai visti sul continente, ma intanto quello degli alloggi era uno dei
problemi più grossi, e l’appartamento in cui Leo Longanesi era capitato quel
mattino ne era esempio eloquente. Quello che maggiormente lo colpiva era che l’andirivieni
per il bagno non solo era ordinato, ma anche dignitoso, e annotava: «Queste
parole mi restano nell’orecchio per tutto il giorno: grazia nel disagio. Vorrei
che a Roma qualcuno le comprendesse».
Questo,
credo, sia l’unico commento possibile al distillato di risentimento nei confronti
della Germania che sta ubriacando la campagna elettorale in corso: nel
bollitore il Wille zur Macht di Nietzsche, il Neue Ordnung di Hitler, perfino
il Faust di Goethe, e dalla serpentina, goccia a goccia, pura germanofobia.
Dovremmo prendere esempio dai tedeschi, in realtà avremmo dovuto farlo per
tempo, ma non ne abbiamo la tempra, mai avuta. Così, a considerare il degrado
in cui anneghiamo, ci torna utile credere che sia l’effetto delle mire egemoniche
che la Germania non avrebbe mai smesso di coltivare. Ieri coi blindati, oggi
coll’euro: questa è la vulgata che ci è stata offerta dai demagoghi di casa
nostra, e sembra torni comoda, nel disagio, a gente che non ha mai mostrato
alcuna grazia neppure nel benessere.
giovedì 1 maggio 2014
Vita intellettuale e affettiva di Benedetto Croce
Giorno
di festa, le librerie sono chiuse, non possiamo precipitarci a comprare l’ultimo
volume di Giancristiano Desiderio (Vita intellettuale e affettiva di Benedetto
Croce – liberilibri, 2014), che Radio Radicale ci raccomanda come imperdibile. Lo
faremo domani, senza meno, anzi arriveremo un quarto d’ora prima dell’apertura
per essere sicuri di potercene assicurare una copia prima che vada esaurito, d’intanto
riflettiamo su quanto l’autore ha detto nel corso della trasmissione, e
trasecoliamo, perché di Benedetto Croce ci eravamo fatti un’idea diversa da
quella che questo libro sembra voglia suggerirci, e noi siamo disposti a
ricrederci: ben venga chi abbia argomenti per dimostrarci che non fosse il
mostro di egolatria che emerge dalle molte e molte testimonianze che nel corso
degli anni abbiamo raccolto qua e là, tutte convergenti nel rafforzare in noi
la convinzione che proprio un grave vizio di anaffettività fosse al fondo della
pomposa artificiosità del suo sistema filosofico. E tuttavia da subito, dal
poco che ci ha detto Giancristiano Desiderio nel corso della trasmissione
radiofonica, qualche perplessità ci assale.
Vero è, infatti, che Angelina
Zampanelli abbia vissuto accanto a Benedetto Croce per vent’anni, ma non
solleva alcun dubbio il fatto che egli abbia deciso di sposarla solo in punto di
morte? Il periodo storico era quello in cui la convivenza more uxorio senza contrarre
vincolo matrimoniale faceva della donna una concubina: tanto amore non riuscì a
trovare modo di risolvere una situazione che avrà arrecato senza meno qualche
imbarazzo alla signora? Si potrebbe obiettare che il filosofo fosse allergico al matrimonio,
se non fosse che a pochi mesi dalla morte di Angelina Zampanelli egli si sposa con
Adele Rossi. E basta leggere la lettera datata 16 febbraio 1914 indirizzata
alla cugina Teresa nella quale le annuncia la decisione per aver modo di capire
chi fosse veramente Benedetto Croce.
Collaboratrice e badante, diremmo. Sposabile, a differenza di Angelina Zampanelli, perché di buona famiglia. Diciamo che sposare Angelina in punto di morte fosse da intendere come il versamento della liquidazione prima di passare a mettersi in casa una nuova governante, con altro tenore di contratto, visto che il datore di lavoro era ormai sotto la cinquantina.
Si dirà, e a ragione, che a quei tempi molti matrimoni, poi anche felici, avevano analoghe basi affettive. Siamo
negli anni, infatti, in cui su un giornale bavarese appare il seguente annuncio
a pagamento: «Impiegato statale di medio livello, cattolico, 43enne, cerca
ragazza cattolica, vergine, che sia brava in cucina, nel cucito e nelle pulizie
domestiche. Gradita la dote, ma non è indispensabile», che avrà buon esito
portando all’altare il padre e la madre di Benedetto XVI, il quale, onorando la
nobiltà dei valori sui quali era fondata la sua famiglia, lamenterà coerentemente, un secolo
dopo, che ormai «si riduce l’amore a emozione sentimentale e a soddisfazione di
pulsioni istintive».
Bene, tutto bene, così andavano le cose e non possiamo rimproverare a Benedetto Croce di aver avuto in Angelina, prima, e in Adele, dopo, due collaboratrici domestiche. Ma dipingercelo come
uno col cuore grosso quanto Palazzo Filomarino – questo pare voglia farci credere Giancristiano Desiderio – francamente è troppo.
martedì 29 aprile 2014
Cinque o sei cavolate
Stupisce
che a Luigi Manconi possano essere scappate tante cavolate,
tutte in una volta e per giunta così grosse, come quelle che oggi stipavano il suo Clericali e no (Il Foglio, 29.4.2014).
La
più grave: «La teoria della riduzione del
danno […] si nutre anche di un fondamento teologico quale la concezione del
“male minore”». Si tratta di un errore grosso come una casa, perché «di due mali scegliere e perciò compiere il minore
non è lecito, se si tratta di due mali morali ossia di due operazioni che sono
in se stesse violazione della legge morale»: «un male [infatti] non
diventa bene o lecito, perché c’è un altro male più grande, che si potrebbe
scegliere», sicché «la comparazione
con un altro peccato non toglie la malizia del primo» (Dizionario di Teologia Morale – Editrice Studium, 1969). Tanto più
grosso, l’errore, se questo insussistente «fondamento
teologico» viene chiamato a fornire «una
motivazione cristiana nel volere, sia pure solo in casi estremi, la
legalizzazione dell’aborto»: come si può ignorare, infatti, che l’aborto è
sempre «gravemente contrario alla legge
morale» (Catechismo della Chiesa
Cattolica, 2271), anche quando la gravidanza sia frutto di stupro o di
incesto, e perfino se metta a rischio la salute fisica o psichica della gravida?
Luigi Manconi sembra non esserne a conoscenza.
Seconda,
per gravità di errore, l’affermazione che segue ad una considerazione
banalmente ovvia, e cioè che l’«anticlericalismo non equiv[alga] a spirito
antireligioso e anticristiano»: Luigi Manconi aggiunge «bensì al suo esatto
contrario». Ora, è un dato incontestabile che esista un anticlericalismo che «auspica
il rinnovamento all’interno della Chiesa», e che nasce proprio al suo interno, in reazione ad un
clericalismo inteso come «degenerazione dell’esperienza di fede», non di rado proprio grazie all’opera di membri del suo clero: è l’anticlericalismo
tipico dei movimenti di riforma da cui la Chiesa è periodicamente scossa, ma
non è il solo. C’è anticlericalismo, infatti, che non si limita a denunciare le
colpe del clero come manchevolezze del mandato apostolico, ma che contesta lo
stesso mandato, nelle sue forme e nei suoi contenuti: è l’anticlericalismo che
rigetta ogni dimensione trascendente, e che a buon titolo può dirsi «antireligioso
e anticristiano», anche con un certa fierezza, diciamo. Luigi Manconi sembra
non esserne a conoscenza.
Nel
terzo, nel quarto e nel quinto errore, invece, incorre quando affronta una
vicenda che nei giorni scorsi ha conquistato qualche spazio sui media, dopo averlo disperatamente cercato.
Luigi Manconi afferma che fare scioperi della fame e della sete, peraltro a
singhiozzo, possa intendersi come «testimonianza cristiana e, per certi versi,
cristologica». Un cristiano potrebbe considerarla affermazione blasfema, qui
possiamo limitarci a correggerla dicendo che questo tipo di testimonianza sta
al martirio dei cristiani e alla passione di Cristo come l’opistono isterico
sta a quello tetanico. In quanto al fatto che «l’organismo che dimagrisce e
ingrassa, che si ritrae e si espande, che si rattrappisce e si gonfia, che
deperisce e infragilisce e che si riprende e si rafforza, costitui[rebbe] la
più importante manifestazione d[i una] capacità di compassione» come
«rappresentazione autentica del dolore e “teatro della crudeltà” della vita
vera che viene mortificata fino all’annichilimento nei luoghi di privazione
della libertà», vien da chiedersi se per caso Luigi Manconi abbia intenzione di
prenderci per il culo, tanta è
l’enfasi che mette nel farci la perifrasi di una patetica sceneggiata all’ennesima replica. Scrive, infine: «Tutto ciò può apparire a molti insopportabile narcisismo
e monotona reiterazione. E forse lo è». Dove l’errore, il più lieve della serie, sta nel «forse», che è di
troppo.
lunedì 28 aprile 2014
#nessunoescluso
«Lasciate
che io dica esattamente il contrario di quello che ci si potrebbe aspettare di
ascoltare da me. Altro che chiedere alla Chiesa e al mondo cattolico di non
ingerirsi. Io direi: ingeritevi. Se non ora, quando?». Chi l’ha detto? No,
vi siete fatti sviare dall’attualità e
avete sbagliato: l’ha detto Massimo D’Alema, poco più di quattro anni fa, chiedeva al cardinal Camillo Ruini una scomunicuccia a Silvio Berlusconi. L’ultimo degli togliattiani, si
sarebbe detto. Ma a torto, perché leccare il culo ai preti, chiamarli in
soccorso dei propri miserabili calcoli, è costume di una razza più che di una
teoria politica. E a quella razza, morti Pannunzio, Rossi e Salvemini, appartengono tutti, #nessunoescluso.
«… mostrandosi allegra e piacevole…»
Sulle «nuove
regole» che la retorica si dà col mutare del foro cui si rivolge – ne parlavo
qualche mese fa (Intorno al cacozelo -
Malvino, 10.2.2014) – devo
rettificare quanto ho scritto: il mutamento non si ha «con l’uscita dal Barocco»,
ma nel momento in cui vi si entra, e forse anche un poco prima. In tal senso va
corretto anche quanto deducevo, almeno riguardo all’uso dell’analogia, sul
nesso tra mezzi e fini della persuasione, al punto da poterne invertire il
segno: direi che è la retorica a trasformare il foro, e non viceversa. Mi rendo
conto che, esposta in questi termini, l’affermazione farà drizzare i capelli in
testa a chi sia affezionato alla tetragona vulgata marxiana su struttura e
sovrastruttura, ma porgo subito il pettinino: la retorica che porta al Barocco
è a sua volta un prodotto. Dunque aggiusterei il tiro a questo modo: la
persuasione comincia a «mostrarsi allegra e piacevole», abbandonando le armi di
offesa e di difesa che le erano servite per più di quindici secoli, in pratica
da Quintiliano in poi, non già per adeguarsi alla cortesia come abitudine di corte,
ma perché la corte prenda abitudine alla cortesia. In altri termini, non è un
nuovo genere di principe a volere un altro genere di retore, ma è un nuovo
genere di retore che riesce a persuadere il vecchio principe a rinnovarsi. Ne
traggo convinzione grazie alla descrizione che Cesare Ripa fa della Rettorica nella sua Iconologia. L’«artificio», qui, è già «dolce», e l’arte ci si
presenta con un libro in una mano e uno scettro nell’altra, e «sprona», sì, ma «raffrena»
pure e, in virtù del suo aspetto amabile, «piega». Siano in un altro mondo
iconologico rispetto a quello di un Gherardo di Giovanni di Miniato, che è solo
di un secolo prima: l’arte, qui, è ancora tutta bellica.
E
tuttavia occorre dire che l’immagine orna il De nuptiis Philologiae et Mercurii
di Marziano Capella, che è del V secolo: la Rettorica, qui, è ancora guerriera, ma già accenna ad un sensibile ingentilimento.
«Una giornata particolare»
Ieri è
stata «una giornata particolare» e con le virgolette alludo al film di Ettore
Scola (Italia, 1977), alla Roma del 6 maggio 1938 stracolma di folla festante
per la visita di Adolf Hitler, evento storico anche quello. Non si parlava d’altro,
proprio com’è accaduto ieri, e anche in quel caso s’ebbe gran spreco di
retorica, mastodontico servizio di sicurezza, gerarchi in prima fila, entusiasmo
alle stelle. Ieri, come 76 anni fa, non c’erano mura che potessero ovattare l’orecchio
alla stentorea cronaca in diretta della solenne buffonata: gli altoparlanti del
regime raggiungevano anche chi avesse voluto perdersela. Analogia bislacca, penserà il lettore, ma
ieri, da laicista, io mi sentivo nei panni che nel film di Ettore Scola erano
indossati da Marcello Mastroianni. Se avete visto il film, rammenterete: in
quegli anni il culto della virilità non era meno severo con gli omosessuali di
quanto la dittatura lo fosse coi dissidenti politici, e gli uni e gli altri
finivano al confino, entrambi marchiati a fuoco come «disfattisti» – da
oppositori di un partito che pretendeva la coincidenza con lo stato e con la nazione
o da disertori della campagna di incremento demografico, non faceva poi tanta
differenza – e Marcello Mastroianni interpretava un nemico della Patria alla
vigilia della sua partenza per quella che qualcuno, una settantina d’anni più
tardi, avrebbe definito una «villeggiatura», per le sue «tendenze perverse»,
che già gli erano costate la perdita del lavoro. Analogia davvero bislacca,
dunque, convengo. Ma fare della canonizzazione di due papi una celebrazione da
dover seguire a tutti i costi, salvo che tapparsi in casa e chiudere ogni
canale di comunicazione col mondo esterno, non è da paese totalitario?
sabato 26 aprile 2014
Vernissage
Michele Castaldi (Napoli, 2011)
Memammapapà (2014)
tecnica mista su cartoncino, cm 66,5 x 74,5
(collezione privata)
venerdì 25 aprile 2014
Mi auguro che la Procura di Brescia
Mi auguro che la Procura di Brescia abbia
già aperto un fascicolo sul cedimento strutturale del Crocifisso eretto sul
Dosso dell’Androla, a Cevo, in Valcamonica, perché si arrivi, possibilmente in
tempi brevi, ad accertare chi siano i responsabili della morte del 21enne che
vi è finito schiacciato sotto. Non vi è dubbio, infatti, che non si sia
trattato di tragica fatalità, ma di omicidio colposo, e che quindi sia doveroso
valutare nelle opportune sedi a chi vada addebitato, piuttosto che lasciarsi andare
a stravaganti elucubrazioni sul più attendibile significato racchiuso del
simbolico dell’evento, come tanti sembrano credere sia la sola cosa necessaria,
oltre che possibile. Saranno i giudici a stabilire in quale misura la colpa
debba essere attribuita a chi ha voluto quello sproposito alto trenta metri e pesante
diverse tonnellate, a chi ha condotto le perizie tecniche che hanno dato il non
obstat, a chi ne ha autorizzato l’installazione, a chi l’ha progettato e a chi
l’ha costruito, ma fin d’ora, dinanzi a quanto è accaduto, ci è lecito
evidenziare un dato incontestabile: a fare il morto è stata quella smania di grandiosità
che dall’ardito schizzo di un artista contagia, per ragioni assai diverse ma tutte
convergenti, alti prelati, amministratori della cosa pubblica ed esecutori d’opera.
Mi azzarderei a dire che Marco Gusmini è morto da vittima sacrificale sull’altare
attorno al quale trafficano preti che pensano di poter disporre del denaro
pubblico per scimmiottare le committenze d’arte dei porporati del Rinascimento,
sindaci che li assecondano (nella migliore delle ipotesi) per dare visibilità
internazionale al paesino, titolari di imprese affamati di commesse pubbliche e
artisti con la fregola mistica.
Refrattarietà
Contavo di farlo già da tempo, lo faccio
adesso che un post di Massimo Mantellini mi offre l’occasione. Quasi ogni
giorno mi arrivano nella mailbox avvisi di Tizio che mi aggiunge al suo Google+,
di Caio che mi invita su LinkedIn, di Sempronio che mi dà appuntamento su FriendFeed…
Starò usando termini impropri, ma è che tutta questa ragnatela di collegamenti,
relazioni, scambi e strusci per me ha dell’ostrogoto. Suppongo che questi
avvisi mi giungano perché devo essermi iscritto a questi servizi – suppongo si
tratti di servizi o sbaglio? – ma non ricordo quando, e in certi casi sono
certo di non averlo fatto, e in altri di aver cancellato l’iscrizione… Insomma,
volevo approfittare di queste pagine, le uniche dalle quali comunico col mondo
virtuale (non ho una pagina su Facebook e accedo a Twitter solo una o due volte
a settimana), per scusarmi se non ricambio queste attenzioni – suppongo si
tratti di attenzioni o sbaglio? – di cui, comunque immeritatamente, sono fatto
oggetto. Qui, come fuori dal web, sono scontrosetto e ho grande difficoltà a
dare confidenza a chi non conosco, in più i primi quattro quinti della mia vita
sono scorsi quando Internet non c’era e, anche se in qualche modo ci sono
dentro da quasi tre lustri, molto mi è lontano miliardi di anni luce, e non
sento alcuna urgenza di informarmene. Poi c’è che tutto quanto è social network
mi deprime, perché quando v’indugio mi sembra di aver tolto tempo a cose molto
più importanti. Insomma, non vorrei si pensasse sia per scortesia o, peggio,
per albagia, ma se non rispondo, contraccambio, aggiungo, eccetera, è per
refrattarietà al mezzo.
giovedì 24 aprile 2014
[...]
Non faccio nessuna fatica a credere che in
Siria si vadano davvero consumando «inaudite violenze da parte dei “ribelli”
contro la popolazione cristiana», come riferiva una suora intervistata ieri da Radio Vaticana, e che tra le atrocità subite da chi rifiuta di convertirsi alla
fede islamica vi siano casi di crocifissione. Superfluo dire che tutto questo
non è affatto bello perché riporta indietro l’umanità ai tempi bui in cui il
fanatismo religioso faceva stragi di manichei, catari, ebrei, valdesi, ugonotti,
indios, ecc., poco importa chi li bruciasse, sgozzasse, squartasse, ecc. In quanto alla crocifissione, orripiliamo al pari di quando leggiamo che per certi devoti particolarmente motivati farsi inchiodare ad una croce è uno sfizio imperdibile quando arriva il Venerdì Santo, spesso previa autoflagellazione, ma non ci sfugge la differenza tra una arrapante perversione e un atroce supplizio. Ciò detto per fare sgombro il campo da fraintendimenti, alcune affermazioni riportate nell’intervista lasciano
perplessi: gli islamisti avrebbero decapitato alcuni cristiani «giocando a
calcio con le loro teste» e, dopo aver sventrato alcune donne gravide, ne
avrebbero «impiccato i feti agli alberi coi cordoni ombelicali». Per carità,
tutto è possibile, qui non si intende sollevare dubbi sulla veridicità di
quanto affermato dalla suora, anche perché ciò che ha riferito era a sua volta tutto de relato, e non ci ha detto da chi, e lei stessa ha preferito rimanere anonima. E tuttavia occorre rammentare che una testa pesa
intorno al 6% del peso corporeo in toto e giocare a calcio con un pallone di 4
o 5 chilogrammi è pressoché impossibile, anche rinunciando ai cross, ai tiri piazzati
e ai contropiedi. Pressoché impossibile anche impiccare un feto col suo cordone
ombelicale: coi suoi 45-55 cm e la sua consistenza gelatinosa,
calcolando quanto ne serve per un girocollo (circa un quarto, in proporzione),
per il nodo che stringe il cappio e per quello che ne fissa l’altro estremo a
un ramo – beh, proprio non ci siamo, un cordone ombelicale risulta di lunghezza insufficiente – più che impiccato il feto risulterebbe garrotato. Diciamo che poteva bastarci l’orrore di
sapere che alcuni cristiani siano stati uccisi in Siria, non era necessario esagerare con macabri orpelli narrativi: ci dispiace uguale.
mercoledì 23 aprile 2014
Papa Francesco News for iPad
Vuoi tenerti informato in tempo reale su
tutti i «buon appetito» e gli «etciù-salute-grazie» di Bergoglio? C’è l’app che
ti viene incontro. Il prezzo è modico: visto che il denaro è lo sterco del
diavolo, costa appena una sua scoreggina ($ 0,99).
Se non ci fosse bisogno ancora di illudersi
Se
non ci fosse bisogno ancora di illudersi, a questo punto dovrebbe esser chiaro a
tutti che Matteo Renzi è un pallone gonfiato. Il fatto è, come ho già scritto
su queste pagine, che le cose sono messe così male che illudersi appare
necessario ancora a molti. Una sorta di dovere civico, diciamo. Del tutto
ovvio, quindi, che sul rapido sgonfiarsi del pallone si voglia chiudere un
occhio. Tristemente comprensibile, ma intollerabile, perché l’illusione sta ipotecando ogni spazio di critica: manca poco all’accusa di disfattismo per il solo accostare i risultati alle attese.
Al netto degli annunci, cosa ha concluso in due mesi il Fenomeno da una
riforma a settimana? Un beneamato cazzo. L’Italicum è già in forse: è bastato
che i sondaggi dessero il M5S avanti a Forza Italia, e che dunque un eventuale
ballottaggio non si annunciasse più tra chi voleva quella legge elettorale,
perché non piaccia più a chi doveva votarla in Parlamento, e se ne sta lì, in
attesa che a qualcuno venga in mente cosa farne. E meno male, perché si
trattava di una vera merda, anche peggiore del Porcellum.
Per farsi un’idea del
profilo riformatore di Matteo Renzi, d’altronde, bastava un’occhiata a quella
schifezza di Senato immaginato da un ddl che ha sollevato critiche perfino nel
Partito Democratico, spaccandolo.
Sui famosi 80 euro, meglio stendere un velo
pietoso: tolto l’ingombro delle reticenze di Padoan e dei begli occhioni della
Boschi, non c’è ancora copertura, e chissà se ci sarà mai. In ogni caso, si
annuncia come un bonus una tantum. Gli incapienti, i pensionati e le partite Iva
sono fuori, e chi è dentro, quasi certamente, dovrà restituire ciò che avrà con
gli interessi, visto che parte della copertura è partita di giro con tagli ai
servizi. E tuttavia pensare che la trovata serva a comprarsi il voto di qualche gonzo offende, indigna.
Il resto è agenda delle buone intenzioni, e delle intenzioni nemmeno
tanto buone. In ogni caso, la millantata velocità del governo rimane uno
sbattersi senza costrutto: dismettiamo le auto blu (qualche centinaio su decine
di migliaia), mettiamo donne a capo di aziende pubbliche (in allocazioni
ornamentali, scegliendo tra rampolle di razza padrona, possibilmente senza
cellulite), tagliamo i costi della politica (ma intanto intaschiamo alcune
decine di milioni di rimborsi elettorali dell’ultima tornata, mentre della
legge che dovrebbe abrogare il finanziamento pubblico ai partiti, ma per modo
di dire, non si ha notizia: persa nelle nebbie).
A farlo notare si è «gufi» e «rosiconi» (pensa di essere un tronista, il cretino),
addirittura «soloni milionari» (questa non è sua, deve averla scopiazzata da Libero o il Giornale): basta una superficiale analisi lessicale
dei termini utilizzati, per capire che ci troviamo dinanzi ad un quarantenne
che ha subito un blocco alla fase adolescenziale e che pensa di avere a che
fare con dei ragazzini che hanno cinque o sei anni meno di lui: il tipico
prodotto della politichetta di provincia che ha subìto una mutazione favorevole
su quel tratto di genoma che regola furbate e maneggi. Altrimenti: una
neoplasia sviluppatosi nell’organo del «saperci fare», e che assume la forma
degli spropositi fuori scala.
Solo
a pallone sgonfiato potremo misurare il metraggio l’involucro, oggi dobbiamo limitarci a considerarne capacità ed elasticità. E non è un calcolo complicato.
Se
l’elettore medio italiano ha «l’evoluzione
mentale di un ragazzo che fa la seconda media e che non sta nemmeno seduto nei
primi banchi» (Silvio Berlusconi, 9.12.2004), occorre parlargli in modo
acconcio – parole facili, frasi brevi, concetti semplici – ma soprattutto
occorre ripetersi e ripetersi, senza stancarsi mai, e senza alcun timore di
annoiarlo: anche quando è semplice, infatti, un concetto ha sempre un certo grado
di astrattezza che tende a renderlo fuggevole a chi abbia lo sviluppo
intellettivo di un dodicenne, quindi ribadirglielo non è mai superfluo, anzi,
il ragazzino apprezza; anche quando è breve, poi, una frase acquista maggiore
incisività nell’essere frequentemente riproposta, fino a diventare, se tocca il
tasto giusto, un vero e proprio jingle; in quanto alle parole, pure quelle
facili hanno bisogno di essere riascoltate e riascoltate per diventare solide,
anzi, sono proprio le più facili a correre il rischio di farsi volatili se non
vengono continuamente ripetute per dar loro il senso al quale si vuole siano
piegate.
Est modus in rebus, tuttavia. Nel flusso delle parole facili è utile,
di tanto in tanto, farne cadere qualcuna che affondando crei un vortice in cui
la banalità acquisti energia centripeta fino a farsi estremamente grave, fino a
farsi buco nero che offra una dimensione parallela nella quale «fare» non regge
più alcun complemento oggetto, ma sembra verbo intransitivo. Così con le frasi:
brevi, sì, ma a effetto, prendendo a prestito locuzioni proverbiali e dialettali,
residui di barzellette sedimentate sul fondo della brocca in cui si fa cadere
la mancia, spezzoni di scioglilingua da scampagnata, versi sfusi da canzonette
orecchiabili, meglio se vecchie di una decina d’anni, e soprattutto tanto
idioletto pubblicitario. Idem coi concetti: semplici, ma meglio circolari che
lineari, concetti che si autorappresentino e si autoargomentino, come ciò che è
dozzinale quando avanza la pretesa di essere autoevidente. Tutto questo,
tuttavia, meglio se d’istinto. Per intenderci, guardate Mario Adinolfi: è un
Matteo Renzi abortito. Andato a male per atrofia dei villi. Se a Palazzo Chigi c’è l’uno e non l’altro, in fondo, è solo un caso.
sabato 19 aprile 2014
Due palle
Non
si pensi ch’io non ne avessi l’intenzione: l’occasione c’era, e la motivazione
pure. Avevo pure in testa un incipit carino, avrei scritto che in bocca a quel Rhincodon
typus di Ratzinger c’è stato quel Labroides phthirophagus di Ferrara, mentre a
pulire i denti di quel Gymnothorax javanicus di Bergoglio, voilà, quel Rhynchocinetes
durbanensis di Celentano. Poi avrei fatto qualche cenno ai diversi stili dei
telepredicatori statunitensi, sarei passato all’analisi lessicale del testo, naturalmente
avrei citato Yuppi du, e ce n’era pure per Il Fatto Quotidiano… Insomma, v’assicuro
che il pezzullo stava già tutto in punta in penna.
Sì, ma poi due palle.
venerdì 18 aprile 2014
G.G.M.
Aveva
una scrittura furba, tutta trucchetti, botti e botole. Di questo non mi capacitavo nei primi anni
’70, quando Cent’anni di solitudine
era in cima ai regali scontati, con Siddharta e Il piccolo principe:
come può piacere tanto – mi domandavo, sbattendoci la testa – un libro che
dichiara, anche così sfacciatamente, di voler intontire il lettore? Come tante altre
volte è accaduto, ero in errore: quello vuole, il lettore. Basta dargli, ogni
dozzina di pagine, un «sei di quelle che confondono il cazzo con l’equinozio»,
un «non può piovere tutta la vita», e ti è grato: è una faccenda personale tra
chi vuole essere frastornato e chi è bravo a frastornare, perché metterci il
becco?
giovedì 17 aprile 2014
Voveo
In voveo
c’è
un esplicito offrirmi a quel che dichiaro di vovere (del tutto assente in volo, desidero, cupio, opto, postulo, coi quali
esprimo il tratto eminentemente attivo della volontà che aspira, ambisce, brama,
preferisce, richiede), sicché col suo participio passato, votum, esprimo una sollecitudine che, per intensità di investimento
emotivo, è inferiore solo alla devotio che implicherei in devoveo: col votum non mi limito a dichiarare quel
che desidero, ma mi do in pegno perché si realizzi. In altri termini, dichiaro
un impegno che connota le motivazioni ideali del bisogno che esprimo, conferendo
al mio desiderio il valore di un servizio prestato a un’istanza superiore... Dio, come fila tutto liscio nel cavare il significato
di un termine dal suo etimo. Si rimette ordine al mondo, direi.
I partiti, per
esempio, quelli che chiedono il nostro votum,
tanto per intenderci: partitus è
participio passato di partiri, partiti sono le partes in cui la società viene a farsi plurale nell’esprimere
aspirazioni diverse, ovviamente confliggenti fra di loro, e nel numero dei rispettivi vota si
appalesano le loro forze, sicché votare significa… Meglio riporre il dizionario etimologico, il mondo si è fatto refrattario all’ordine.
Ammesso e non concesso, infatti, che i partiti esprimano bisogni dettati da istanze superiori, è pressoché
impossibile trovare coincidenza tra le aspirazioni che dichiarano e quelle mie:
mi è negato il votum, tutt’al più mi resta un cupitum, un optatum (peccato che velle
non abbia participio passato, sarebbe l’optimum). Volendo conservare al votum quel che di etimo residua in esso, quindi, non resterebbe che
votare il menopeggio, il minimo di votum, sennò
astenersi. Per l’irrisorio peso di un
singolo voto, tuttavia, resta una terza via: il disimpegno attivo, il voto che sancisce la rassegnazione al disordine, votare il peggio del peggio.
martedì 15 aprile 2014
Misteriosamente
A
dispetto di ciò che ragionevolmente potrebbe indurmi a sentirlo repellente,
Marcello Dell’Utri mi sta misteriosamente simpatico, e da sempre. Voglio dire:
non è la simpatia di cui si fa obolo a chi è caduto in disgrazia. No, Marcello
Dell’Utri mi è sempre stato misteriosamente simpatico, anche quando ragionevolmente
avrei potuto – vedete? faccio fatica a dire dovuto – sentirlo repellente. Quando
dico ragionevolmente, alludo alle ragioni che lo rendono repellente ai più:
sono disposto a considerarle forti, ma qualcosa – misteriosamente, dicevo – non
le rende forti a sufficienza per farmene trarre le dovute conseguenze. Si dà il
caso, tuttavia, ch’io non abbia mai saputo aver troppa riverenza per il
mistero: non ho mai ceduto alla tentazione di ritenerlo uno scrigno entro il
quale fossero racchiuse preziose verità, per esempio, anzi molto spesso mi è
parso l’astuccio destinato a restar vuoto della risposta esatta a una domanda
posta in modo erroneo. Così con la misteriosa simpatia che ho sempre provato
verso Marcello Dell’Utri: mai pensato fosse innocente del reato per cui è stato
condannato in primo grado e in appello, per esempio; mai pensato che fosse in
buona fede nella faccenda dei diari di Mussolini; nessuna corrente empatica
dalla sua fama di bibliofilo (anche perché da cenni raccolti qua e là mi sono
fatto l’idea che nel suo caso, più che di bibliofilia, si possa più
correttamente parlare di bibliomania compulsiva); nemmeno sono riuscito mai ad
individuare in lui un dettaglio –
un tratto fisiognomico, una posa, l’indizio di un’impronta
comportamentale – che, trascendendo il
tutto, possa spiegare il mistero. Sarà una canaglia, non mi azzardo neppure a metterlo in discussione, ma nei suoi confronti devo confessare una schietta cordialità.
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