lunedì 27 ottobre 2014

Un servo è un servo

Nel loro Traité de l’argumentation (1958), che su queste pagine torna di tanto in tanto come strumento di decriptaggio del messaggio che scorre subdolo, Perelman e Olbrechts-Tyteca ci avvertono che, «quando in una discussione non formale la tautologia appare evidente e voluta, come nelle espressioni del tipo “un soldo è un soldo”, “i bambini sono bambini”, essa dovrà essere considerata una figura»: in pratica, «si utilizza un’identità formale fra due termini che, se l’enunciato deve presentare qualche interesse, non possono essere identici», e dunque «l’interpretazione della figura, che vorremmo chiamare “tautologia apparente”, esige un minimo di buona volontà da parte di chi legge»Anche meno del minimo basta per dare il giusto senso al delizioso editoriale di Giuliano Ferrara su Il Foglio di lunedì 27 ottobre – quando è giusto complimentarsi, qui non ci si sottrae – che ha l’unico difetto di avere un titolo assai loffio (Cari berlusconiani spaesati, spremetevi per una volta le meningi), mentre sarebbe stato perfetto con Un servo è un servo.
Tautologia apparente, perché i due termini non sono identici. Il secondo servo, infatti, è da intendere in modo letterale, ancorché nellaccezione estensiva, che non dà alcuna informazione su causa e natura della sottomissione, ma si limita a definirne il modo. Il primo, invece, è lellissi dell’individuo che si esaurisce nella sua pulsione gregaria: «dipendete storicamente da lui e solo da lui, sarete anche personalmente rispettabili individui dotati di autonomia, e certo che molti di voi lo sono, ma come gruppo politico avete investito tutto quel che avevate sulla leadership personale del Cav., e per anni, lunghi anni, avete rinunciato a ogni autonomia politica e di pensiero, a ogni autentico contrasto, avete votato tutto, contribuito a un mezzo culto della personalità, e non sempre con buon gusto la vostra personalità collettiva è stata sacrificata all’idolo che vinceva, era opulento, distribuiva riconoscimenti e onorificenze perfino oltre i meriti, in molti casi». Siete questo e «ora fate obiezione politica e di coscienza sulla linea, addirittura»? Ma come vi permettete? Un servo è un servo.
Giusto complimentarsi, perché leditoriale è un bel redde rationem, degno dun Étienne de La Boétie. (Oddio, forse qui esagero, non so se Étienne de La Boétie sarebbe arrivato a scrivere: «Ricordatevi la nipote di Mubarak, su, non fate i sepolcri imbiancati», ma, insomma, semel transeat.) E tuttavia una precisazione è necessaria, e anche qui torna utile il Traité de l’argumentation, per ciò che attiene alla distinzione tra il dire e il dit, dove quella che August Baron chiama sillepsi oratoria (De la rhétorique, 1849) si annulla nella coincidenza tra senso proprio e senso figurato: per farla facile, direi che il redde rationem non è rivolto a chi ha la colpa di essersi fatto servo, ma a chi non ha diritto di essere altro, e non già per propri limiti, ma per la ratio intrinseca alla cosa umana. Neanche è tutto, perché c’è pure la condanna ad una ineludibile coazione a ripetere: «Avete un candidato credibile che sia suscettibile di affascinare e trascinare gli italiani in una nuova fase dell’azione pubblica?». Potete liberarvi del padrone solo scegliendovene un altro. Il dit suona moraleggiante, il dire è quello del maggiordomo che riprende la servetta sorpresa a spruzzarsi leau de cologne della signora. 


domenica 26 ottobre 2014

Crepuscolo del ruinismo



L’intervista che il cardinal Camillo Ruini ha concesso ad Aldo Cazzullo per il Corriere della Sera di mercoledì 22 ottobre merita un commento puntuale, senza sorvolare neanche su una virgola, perché – insieme – è ritratto vividissimo dell’uomo, estratto delle ragioni di una stagione ormai chiusa che reca la sua impronta,  saggio di quel concerto di carismi che nella Chiesa di Roma, con sublime perizia mirata all’edificazione degli stracazzi propri, alternano verità a carità, arcigno pretendere ad accorato perorare, passando con la disinvoltura di chi lo fa da due millenni, dal rinserrarsi nella turrita cittadella dell’ortodossia, coi pochi che davvero sanno essere zelanti, all’andar per bettole e bordelli, per tirarsi dietro avvinazzati allo scemar di sbornie e troioni in finale di carriera, per portar speranze esangui a frollare nella resipiscenza, con la promessa della resurrezione della carne, e l’anticipo di un analgesico esistenziale.


Era un Sinodo straordinario, espressamente voluto da Bergoglio, che ha deciso fosse istruito da Kasper, del quale sapeva bene quali fossero le opinioni sui temi scelti. In pratica, era un Sinodo che nelle intenzioni di chi l’aveva indetto doveva avallare la decisione di una svolta della pastorale sulla famiglia con la consueta procedura che dà alla volontà del papa la forma di una risoluzione  collegiale. E c’è stato l’intoppo, perché le resistenze alla linea sulla quale i vescovi erano chiamati all’adesione sono state assai vivaci, al punto che la relazione finale ne ha dovuto tener conto. Il documento che verrà licenziato l’anno prossimo non sarà comunque impegnativo per Bergoglio, ma di fatto questo primo atto della commedia non si chiude come da copione. Come ci racconta tutto questo, Sua Eminenza? «Non una Chiesa divisa, ma una Chiesa con posizioni differenti», ma posizioni differenti non implicano una mancata condivisione di opinioni e una divergenza di vedute e di intenti? «Membri gli uni degli altri», ma in un corpo palesemente scisso, e su punti assai sensibili. «Arrischiato parlare di maggioranze e minoranze»? Proprio questa volta che si è deciso di rendere pubblici i risultati delle votazioni sul documento finale e che questi hanno dato modo di dare espressione plastica alla spaccatura? Ma non c’è bisogno di avere una gran faccia di culo per scoreggiare tanto eufemismo?


Glielo si fa notare e l’eufemismo svapora: «l’unità della Chiesa» è assicurata dal fatto che spetta al papa dire l’ultima parola. In sostanza, il Sinodo è del tutto inutile, se non a dare al papa lo spaccato – mai come in questo caso il termine è calzante – di un corpo che si fa unanime solo nell’obbedienza, sennò c’è da temere «conseguenze negative». Ecco fatta chiarezza su cosa sia davvero la «comunione» cui si faceva cenno nella risposta precedente.


Mica risponde, Sua Eminenza. Gli chiedono chi sono gli «intellettualisti», e lui dà la definizione dei «buonisti». Svicola, sicché costringe Cazzullo a toccargli il nervo che Bergoglio ha scoperto rigettando la formula che è stata del ruinismo.


Oggi è un richiamo alla «coerenza» , ieri «la coscienza dei credenti deve essere illuminata e formata non solo dalla loro ragione ma anche dalla fede e dall’insegnamento della Chiesa [sicché] è teologicamente infondata quella posizione per la quale il richiamo alla propria libertà di coscienza viene fatto valere per discostarsi dagli insegnamenti della Chiesa: all’interno del mondo cattolico, la controversia sui “principi non negoziabili” ha qui il suo vero nocciolo» (Riva del Garda, 1.4.2011). Detto con sincera ammirazione: gran figlio di puttana.


Non c’è stato un quotidiano che non ne abbia riportato notizia, e nessuna smentita è arrivata dalla Sala Stampa Vaticana, ma Sua Eminenza non sa. Se non sa, è probabile che la notizia sia falsa. Fila, no?


Hanno parlato di teologia, chissà come si sarà arrivati a parlare del ruolo di un papa emerito.


Finalmente alla dottrina quel che è della dottrina. Ti risposi? Sei bigamo. Ci rinunci e ti limiti alla convivenza? Sei un adultero. Manca solo il ribadire che il matrimonio civile – primo o secondo che sia – è concubinato, e al cattolicesimo si toglie ogni imbellettamento. 


Sia chiaro: la Chiesa di Roma è nel pieno diritto di pretendere obbedienza dai propri fedeli. Dovessi scegliere, mi schiererei al suo fianco contro tutti i cattolici a cazzo di cane che davanti a un prete promettono fedeltà eterna al coniuge e poi pretendono di stare nella grazia di Dio anche se non riescono a onorare il loro impegno. È perciò che il povero Ruini mi fa una tenerezza infinita: costretto ad ammettere che si deciderà di negoziare sul principio, che resterà immutato solo sulla carta. E cosa c’è di più straziante di un «intellettualista» costretto a comportarsi «buonista», perché quella è la consegna?


Un poco di pietà da quello stronzo di Cazzullo? Macché. «Eminenza, mi faccia capire: mettete una pecetta sui passi del Catechismo che risultano più indigesti al gregge?». E cosa può rispondere, il poverino? «Guardi che sotto la pecetta rimane scritto tutto uguale a prima». 


Wojtyla? Grande condottiere polacco. Ratzinger? Grande teologo tedesco. E Bergoglio? Latinoamericano – stop – charla y corazon.  


Ecco, se vuole evitare la scissione, il Pd prendesse esempio.
Qui siamo a metà dell’intervista, dove è buona creanza allentare la tensione con qualche domanda di disimpegno. 


Povero Socci. Va senza dubbio meglio a Ferrara.


Chiuso l’intermezzo buffo, si torna al sodo. D’altronde perché intervistare Ruini? Perché è stato il più cazzuto generale della Reconquista tentata coi pontificati di Wojtyla e Raztinger: si va a vedere quanto gli bruci il culo la ritirata strategica di Bergoglio. Non ci sia aspetta certo che lo ammetta, se gli brucia: si cerca di intuirlo, facendo la tara di quanto è obbligato a dire. E gli brucia. Caspiterina, quanto gli brucia. Così non ha difficoltà ad ammettere che le trovate mediatiche del latinoamericano sono tornate utili...


... ma quando pensa a quanto costi mostrar le spalle al nemico è tutto un ribollir di bile. 


Si consola all’idea che verrà giorno in cui sarà possibile tornare a dare del ricchione al ricchione, fosse pure quando Dio farà cadere pioggia di fuoco su Sodoma. Spioverà, e tra le nubi apparirà San Camillo Ruini, e sulle macerie del tramonto demografico dirà: «Ve l’avevo detto, io».
Al momento, c’è da soffrire. C’è da cedere la mano per non lasciarci il braccio, mentre ieri si poteva negare anche l’unghia a chi chiedeva un dito. 


E si concede la mano, ma a far male è tutto il braccio, spalla compresa.


Povero Ruini...


... costretto a consolarsi con argomenti da prefettura.


E come no, perché escluderlo? Abbiamo Marione Adinolfi. 


Avete preso nota? Bravi. 



[...]

Sono contrario alla pena di morte, all’ergastolo, ai trattamenti disumani e degradanti inflitti ai detenuti, alla custodia cautelare in attesa di un processo e, in generale, penso che il carcere dovrebbe essere solo l’extrema ratio della sanzione penale. A pensarla a questo modo non mi guida un animo compassionevole, ma la fredda presa d’atto che alla collettività torni più utile maggiore il recupero dell’individuo che abbia commesso un reato piuttosto che l’immolarlo a soddisfare l’istinto di vendetta o dal far uso della sua persona per illustrare a scopo deterrente cosa debba aspettarsi chi viola la legge: nessun inasprimento delle pene ha mai ridotto l’incidenza dei crimini cui si intendeva mettere un freno, né la durezza del regime carcerario è mai servita a svuotare le galere.
Ecco, dunque, la prima sostanziale differenza tra le mie opinioni e quelle di recente espresse da Bergoglio, che sembrerebbero sovrapponibili: io riesco a provare compassione solo per chi ha subìto il crimine, non per chi l’ha commesso, in più ritengo che chi nega dignità di essere umano anche al peggiore dei criminali in fondo la nega anche a se stesso. Ma le differenze non si limitano a questo.
Io non rappresento che me stesso, Bergoglio no. Bergoglio è a capo della Chiesa di Roma e dello Stato della Città del Vaticano. Come capo della Chiesa di Roma, deve rendere conto di ciò che recita il Catechismo della Chiesa Cattolica: «L’insegnamento tradizionale della Chiesa non esclude, supposto il pieno accertamento dell’identità e della responsabilità del colpevole, il ricorso alla pena di morte, quando questa fosse l’unica via praticabile per difendere efficacemente dall’aggressore ingiusto la vita di esseri umani. Se invece i mezzi incruenti sono sufficienti per difendere dall’aggressore e per proteggere la sicurezza delle persone, l’autorità si limiterà a questi mezzi, poiché essi sono meglio rispondenti alle condizioni concrete del bene comune e sono più conformi alla dignità della persona umana. Oggi, infatti, a seguito delle possibilità di cui lo Stato dispone per reprimere efficacemente il crimine rendendo inoffensivo colui che l’ha commesso, senza togliergli definitivamente la possibilità di redimersi, i casi di assoluta necessità di soppressione del reo sono ormai molto rari, se non addirittura praticamente inesistenti» (2267).
Se viene meno l’insegnamento tradizionale della Chiesa su questo punto, vengono meno anche i principi che lo sostenevano, e questi non possono venir meno senza che si spieghi quali fossero, e perché vengano meno, e solo adesso. Prim’ancora: c’è qualcosa che può far venir meno l’insegnamento della Chiesa? Cosa lo giustificava prima, che ora non lo giustifica più? E come è possibile? Donde trae sostegno, l’insegnamento della Chiesa, da immodificabili assunti dottrinari o dalla corrente sensibilità del momento? 
Ma poi è davvero così? Se «i casi di assoluta necessità di soppressione del reo sono ormai molto rari, se non addirittura praticamente inesistenti», essi non sono evidentemente impossibili: in tali casi la pena di morte è moralmente lecita? Urge modificare il testo del Catechismo della Chiesa Cattolica o spiegarsi un po’ meglio quando si è in favore di telecamere e microfoni, evitando di puntare solo a raccattare simpatie mondane.
Ma le cose non vanno meglio in quanto a capo di uno Stato che ha formalmente abolito la pena di morte solo nel 2001 e l’ergastolo solo nel 2013: se l’abolizione di questi istituti trova ragione nel rispetto della dignità umana, è da intendersi che, quando erano in vigore, il rispetto della dignità umana non era tra le preoccupazioni dei venerabili predecessori di Bergoglio? E come può essere, se si è capo di quello Stato solo in virtù del fatto di essere vicario di Cristo, e per volontà dello Spirito Santo? E in quanto al dichiararsi, oggi, contrario alla detenzione prima della condanna definitiva, chi ha firmato il provvedimento restrittivo per l’ex nunzio della Repubblica Dominicana, monsignor Jozef Wesolowski?
Infine, e perché io possa continuare ad avere il diritto di lamentarmi delle ingerenze vaticane quando queste si sostanzieranno in opinioni diverse dalle mie, diritto che decade per chi in queste ore asininamente plaude al sovrano che si scopre garantista: Bergoglio pensasse alla giustizia divina, ché a quella umana ci pensa il mondo laico.  

lunedì 20 ottobre 2014

Alto alto


Poco probabile che Renzi abbia letto l’Epilogo de’ dogmi politici del cardinal Mazzarino, figurarsi, è incolto più d’un ciuco, e quella è la sua forza, Dio non voglia senta il bisogno di costruirsi dei fondamentali, ché rovinerebbe di gomito, ginocchio e muso come chi pedala pensando alla meccanica della bicicletta. Non l’ha letto, c’è da giurarci, tuttavia non sorprende che fino a un certo punto non ne abbia bisogno, perché le regole della misura nell’esercizio dell’imperio trapassano dai classici alla memorialistica dei leader democristiani, all’aneddotica della lezione spiccia che si apprende all’oratorio, all’esergo scritto con l’inchiostro simpatico nell’avantesto di un enciclica sociale. Solo fino a un certo punto, però, perché in questo genere di distillato va persa la materia grossa aggiungendosene quella che impercettibilmente sfalda da quel che ingromma la serpentina, ed è così che la dissimulatio del cortigiano d’età barocca s’intorbida della vischiosa ipocrisia d’un fanfaniano di risulta.
Ma la diretta streaming di quest’ultima direzione del Pd ci dice che anche l’opposizione interna soffre o gode, secondo come si voglia intenderlo, lo stesso genere di intorbidimento: distilla il Kruscev del XIX Congresso del Pcus e attende con malcelata impazienza di poter mettere nel bollitore quello del XX. A ciascuno i propri distillati. Sicché al segretario, che al momento è ancora vivo e tra le sue prerogative rivendica a ragione il diritto di ammonire, torna facile somministrare goccia a goccia il suo.


[...]

1. Qualche giorno fa, per biasimare il malvezzo di imbastire paralleli tra ruoli, organi e momenti della Chiesa e quelli che ne dovrebbero essere i corrispettivi in qualsivoglia forma di Stato – tentazione alla quale si cede sempre quando si fa fatica a capire cosa accade in Vaticano – mi sono servito di un passo tratto dal Principe di Niccolò Machiavelli, nel quale l’incomparabilità dei sistemi è interdetta da una peculiarità del principato ecclesiastico che manca a quelli di ogni altro genere (non sarà l’unica peculiarità, ma tutte le altre concorrono a determinarla, o ne discendono): si arriva a prenderne le redini «o per virtù o per fortuna», ma anche «sanza l’una e l’altra si mantengano». Un modo come un altro per dire che anche al papa più sconsiderato non si può impedire l’esercizio della «potestà ordinaria suprema, piena, immediata e universale sulla Chiesa» (Codice di Diritto Canonico, Can. 331): anche se è un perfetto coglione, rimane «il perpetuo e visibile principio e fondamento dell’unità sia dei vescovi sia della moltitudine dei fedeli» (Lumen gentium, 23; Catechismo della Chiesa Cattolica, 882), e niente e nessuno può scollarlo dalla cima del cucuzzaro, finché è vivo. Ogni eccezione a questa regola, peraltro rara, non abbatte la differenza con tutte le altre forme di governo, nemmeno con le altre monarchie assolute, dove può ben capitare che il sovrano venga defenestrato dalla plebe o dalla nobiltà.  

2. Al netto del modo morbido che ha scelto, questo è quanto Bergoglio ha tenuto a precisare nel discorso tenuto in chiusura del Sinodo straordinario su Le sfide pastorali sulla famiglia nel contesto dell’evangelizzazione, rammentando che «per volontà di Cristo stesso» può decidere come cazzo gli pare, e che ogni documento licenziato dall’assemblea dei vescovi non ha altro valore che quello consultivo. Illuminato da questo memento, l’invito a non lesinare in parresia rivolto al Sinodo in apertura dei lavori acquista un significato ambivalente: da un lato, rimane esortazione a esplicitare senza riserve le proprie opinioni sulle questioni in discussione, di modo che ogni decisione che seguirà prenda ragione del terreno sul quale andrà a cadere; dall’altro, diventa lo strumento col quale il Principe saggia le potenziali resistenze dei suoi subalterni alla decisione cui intendessero esprimere parere contrario, con ciò neutralizzandone di fatto ogni effetto, poco importa se intimidendoli, prima, o demansionandoli, dopo. Anche in questo, come per il resto, la differenza con ogni altro genere di principato è posta dall’inamovibilità di chi regge il governo ecclesiastico, ma qui c’è da segnalare che era dai tempi di Pio IX che non si sentiva un papa rammentarlo ai vescovi, e la cosa è tanto più significativa se si pensa al fatto che Bergoglio ha fin qui esibito piena aderenza a quello spirito di collegialità che dal Concilio Vaticano II in poi fa velo all’inemendabile primato petrino. Segno di debolezza, doverlo rammentare, ma anche prova del fatto che senza obbedienza al papa verrebbero meno non già la sua virtù e la sua fortuna, ma quelle dello stesso principato ecclesiastico, che così smetterebbe di avere la peculiarità gli assicura il vantaggio su tutti gli altri tipi di principati. Ci fosse bisogno di prova in dettaglio, possiamo prendere in considerazione Caffarra, tra i più duri oppositori alla proposta di Kasper, vicinissimo alle posizioni di Bergoglio: al termine del discorso del papa (*), si è affrettato in enfasi di gesto e in trepidezza di verbo, più che esplicito nel labiale, a riconfermare la sua obbedienza a Bergoglio, qualunque cosa vorrà decidere per la pastorale, in culo alle sue solidissime argomentazioni dottrinarie che gli hanno procurato fama di fiero resistente ad ogni novità.

3. Tutto questo rende insensato anche il dibattito che segue alla chiusura del Sinodo straordinario tra gli osservatori esterni alle cose vaticane. Ci si chiede chi abbia vinto e chi abbia perso. C’è chi dice che abbiano vinto gli oppositori alla linea di Bergoglio e chi dice che comunque questa abbia avuto la meglio, non foss’altro perché non si potrà più liquidare certe realtà come perdite della grazia sacramentale o violazioni della legge naturale. C’è chi dice che la partita si sia chiusa in pareggio e che tutto venga rimandato al 2015. Considerazioni che non hanno alcuna solida ragion d’essere e che al più rivelano l’incapacità di cogliere che «dall’ambizione de’ prelati nascono le discordie e li tumulti infra e’ baroni» (Il Principe, XI), ma non fra papa e vescovi: ogni contrapposizione immaginata tra Bergoglio e parte del Sinodo è mera proiezione della mentalità laica su quella clericale, ogni lotta politica che cerca corrispettivo in una disputa teologica o in una controversia dottrinaria non ne trova mai la posta in gioco, prima ancora di non trovarne i modi. I vescovi si azzuffano, quando decidono di far finta, per dare rappresentazione plastica di un dissidio che non è interno alle gerarchie ecclesiastiche, ma ai vasti piani bassi dellecclesia. 

[segue]

domenica 19 ottobre 2014

[...]

Claudio Tito (la Repubblica, 19.10.2014) rivela che «alcuni dei cardinali conservatori che avevano letto e commentato con sorpresa le tesi di Kasper hanno raggiunto il Papa emerito [e] hanno tentato un’operazione senza precedenti, provare a sensibilizzarlo sulle tesi che sarebbero andate in discussione al Sinodo […] organizzando di fatto una fronda interna contro il Pontefice […] sul terreno della dottrina» e che «la risposta di Benedetto XVI è stata netta: “Il Papa non sono io, non rivolgetevi a me”». Molto bello, no? Poi, però, «ha inviato al Pontefice riservatamente un biglietto, il cui contenuto è ignoto, ma la cui tempistica avvalora l’idea di una collaborativa informazione», e questo onestamente è assai meno bello, perché «chi fa la spia / non è figlio di Maria, / non è figlio di Gesù: / quando muore, va laggiù»

sabato 18 ottobre 2014

Insomma?



«In attesa che la montagna partorisca il topolino,
c’è un po’ di gente che accorre alle sue pendici…
Date ascolto a chi conosce un pochino
quell’inutile ingombro di pietra e di ghiaccio:
non ci sarà eruzione, né terremoto,
non ci sarà valanga, né slavina...»

Malvino, 6.10.2014


Avevate qualche dubbio? Dare l’eucaristia a chi si ostina nel peccato mortale di adulterio, per esempio, perché quest’è risposarsi dopo un divorzio, anche se a volerlo è stato solo l’altro coniuge: gli si dovrebbe rimaner fedele, comunque, e se non lo si fa – poco importa se ci si risposa o meno – si commette crimine contro il sesto comandamento, ed è crimine aggravato dal suo esser continuato, crimine che si estingue solo interrompendo la nuova relazione, con sincero pentimento per l’averle dato inizio, sicché divorziare la seconda volta può essere considerato il primo passo per rientrare nella grazia di Dio, a patto di non ricascarci. Sembra un paradosso, ma non lo è, tanto più che il secondo matrimonio giocoforza si è potuto celebrare solo con rito civile, quindi non era sacramento, in pratica era un contratto di concubinato. Non ricordate la lezioncina di monsignor Fisichella? «Il presidente Berlusconi essendosi separato dalla seconda moglie, la signora Veronica, con la quale era sposato civilmente, è tornato ad una situazione, diciamo così, ex ante. Il primo matrimonio era un matrimonio religioso. È il secondo matrimonio, da un punto di vista canonico, che creava problemi. È solo al fedele separato e risposato che è vietato comunicarsi, poiché sussiste uno stato di permanenza nel peccato. Ma se l’ostacolo viene rimosso, nulla osta» (Il Gazzettino, 21.4.2010), insomma, gli si poteva dare l’ostia. È gente che ragiona a questo modo, e in cima a secoli di ragionamenti della stessa specie, tutti embricati l’uno nell’altro a far lastre e colonne, in un edificio inabitabile se non per aver voglia di partirne via per la vita eterna, come sola possibile liberazione.
Pensavate che un Sinodo potesse stracciare Catechismo e Codice Canonico? No, dico, ci avete creduto davvero? Che l’abbiate sperato o l’abbiate temuto, consentite, eravate ugualmente cretini, tanto più cretini quanto più speranza o timore fossero sentiti. Consolatevi, ci sono cascati pure Scalfari e Ferrara, o almeno hanno fatto finta di cascarci per dare a speranza e timore il pathos necessario a farvi stare col cuore in gola. E coi gay? Dico: avete creduto pure al fatto che la Chiesa potesse rivedere il suo giudizio sul fatto che l’omosessualità sia roba «intrinsecamente disordinata», «contraria alla legge naturale», mai «frutto di una vera complementarità affettiva e sessuale» e «in nessun caso può essere approvata»? Pensavate che di punto in bianco ci si chiudesse un occhio sopra? Sì? Due volte cretini, allora, e perciò utili a creare quell’aria frizzantina di quando sembra che stia per accadere l’inaudito, che infatti s’ode, e poi non più, e l’aria resta ancora frizzantina, e in essa tutto resta uguale a prima, però dando la sensazione che c’è stato cambiamento, probabilmente non grande quanto sperato o temuto, ma c’è stato.
Ottima sintesi, quella del cardinal Ravasi: la Chiesa guarda, sente, cerca di comprendere i cambiamenti della società, ma non può rinunciare a tracciare una linea tra quello che ritiene buono, bello e giusto per ognuno e quello che non lo è per alcuno, e dentro a pieno titolo c’è chi le obbedisce, per gli altri porte aperte, ma per entrare a testa china, coscienti d’esser peccatori. Entrate, adulteri e omosessuali, ma non dimenticate di portare un bel senso di colpa da mostrare a chi è fedele ed eterosessuale, per confortarlo del fatto che ad essere obbedienti alla Chiesa c’è un anticipo di salvezza eterna, nella specie di una cialda di frumento deliziosa anche quando si attacca fastidiosamente al palato. Non parlare, taci, usa la lingua per staccarla via, e ingoia. 

venerdì 17 ottobre 2014

Magic moments

Anticipo il disgusto

È con sommo avvilimento che lascio per un istante Il presente come storia (Rizzoli, 2014), l’ennesimo splendido libro di Luciano Canfora, che non ne sbaglia uno, per affrettarmi a buttar giù queste due righe, a postarle qui prima che inizi il faccia a faccia tra Vladimir Luxuria e Maurizio Gasparri annunciato or ora da Enrico Mentana. Non lo seguirò, ma do per certo che non deluderà nel risultato l’intento di chi l’ha voluto, che è quello di degradare una questione alle peggiori ragioni che le stanno a favore e contro, quelle che la riducono a un battibecco tra due macchiette. L’intrattenimento avrà la meglio sull’approfondimento, non c’è da dubitare, né c’è da dubitare che il confronto prenderà le mosse dalla visita di Luxuria ad Arcore e dai commenti che Gasparri ne ha fatto a margine, e che entrambi saranno ottimamente in parte. Cosa ne sarà del tema a pretesto di questo Bersaglio mobile, è presto detto: resterà sullo sfondo, tutt’al più farà atmosfera. Anticipo il disgusto e riprendo la lettura. Poi, domani, dal vocio del pubblico televisivo che defluirà sui social network valuterò se sia il caso di recuperare la trasmissione. Nel caso, sarà per confermare l’inesorabilità della regola: a tv che abbrutisce accorre plebe abbrutita mai sazia di quanto è bruta.

giovedì 16 ottobre 2014

Ora

Sono quarant’anni e più che studio l’universo paranoico in cui abitate, quindi comprendo la vostra sofferenza, anzi, mi sembra di palparla proprio, dove s’indurisce in stizza e dove cede in smarrimento, insomma, capisco: ancora non avevate fatto l’abitudine a dover dire che gli omosessuali «devono essere accolti con rispetto, compassione, delicatezza» (1), che «va deplorato con fermezza che siano stati e siano ancora oggetto di espressioni malevole e di azioni violente» (2), perché così vi avevano detto convenisse in faccia al mondo, e di dar mostra di distinguere tra peccato e peccatore, e poi tra inclinazione e atto, e solo Dio sa quanto vi costasse, visto che per secoli non si era andato troppo per il sottile, ché «coricarsi con uomo come si fa con una donna è cosa abominevole» (3), ché «autori di tali cose meritano la morte» (4), ché «le passioni degli omosessuali sono sataniche e le loro vite sono diaboliche» (5), ché il loro è «un vizio scellerato e obbrobrioso che deturpa tutte le cose, macchia tutto, contamina tutto e nulla di ciò che lo circonda rimane puro» (6), e ora – ora, cazzo! – pretendono vi convinciate che «le persone omosessuali hanno doti e qualità da offrire alla comunità cristiana [e addiritura che] vi sono casi in cui il mutuo sostegno fino al sacrificio costituisce un appoggio prezioso per la vita dei partners» (7), in pratica di buttare al cesso un’omofobia che ha radici nel Vecchio Testamento, attraversa rigogliosa tutta la storia del Cristianesimo, e mette carnosi fiori nella Patristica, e dà frutti succosi che vi hanno sbrodolato il muso fino all’altrieri: questo pretendono da voi, e non potete neanche mandarli a cagare, perché voi siete il gregge, loro sono i pastori e questa è la pastorale, ora. Capisco, più che immaginarlo sento come vi sentite. Ed è uno spasso.



(1) Catechismo della Chiesa Cattolica, 2358
(2) Lettera per la cura pastorale delle persone omosessuali (Congregazione per la Dottrina della Fede, 1986)
(3) Lv 18, 22
(4) Rom 1, 32
(5) Giovanni Crisostomo (Homiliae, IV)
(6) Pier Damiani (Liber Gomorrhianus, II, 27)
(7) Relatio post disceptationem, 52-55 (Sinodo dei vescovi, 5-19 ottobre 2014)

martedì 14 ottobre 2014

Cesare Lombroso (1876)


Non sa di cosa parla, e tuttavia straparla


Sandro Magister dice che «suor Gloria Riva ha ricevuto un buon numero di obiezioni» all’articolo a sua firma pubblicato ieri da lanuovabq.it e prontamente ripreso da magister.blogautore.espresso.repubblica.it, ma non fa cenno alcuno a quali, né a chi gliele abbia mosse, però oggi pubblica una risposta dell’interessata ai rilievi che le sono stati rivolti, e anche qui non v’è traccia di chi abbia contestato la sua tesi, né di quali argomenti abbia prodotto. Basterebbe questo per mandare a cagare Sandro Magister e suor Gloria Riva, perché chi polemizza con qualcuno senza fornire elementi circostanziali relativi alla natura della polemica e al suo sviluppo sottrae a chi legge ogni possibilità di formarsi una libera opinione sulla materia del contendere, ma un’accurata ricerca mi rivela che nessuno ha mosso obiezioni alle stronzate scritte dalla religiosa a commento dell’Ultima Cena che il Beato Angelico affrescò nella cella n. 35 del Convento di San Marco, a Firenze, tranne il sottoscritto (Malvino, 13.10.2014): non un commento critico al post su lanuovabq.it, né a quello su magister.blogautore.espresso.repubblica.it che lo riprendeva quasi integralmente, non un post sulla questione su uno dei 39.366 blog iscritti a Blogbabel, non un articolo sulle 21 testate che ho nella mia mazzetta quotidiana. Mi ritrovo ad essere il solo ad aver sollevato obiezioni a suor Gloria, sicché, prima di mandarla a cagare in compagnia di Magister, mi vedo costretto a prendere atto di ciò che scrive nella sua risposta. Chiedo scusa al mio lettore, che probabilmente oggi si aspettava un post su Luxuria ad Arcore, ma sono costretto ad annoiarlo.
Nell’articolo su lanuovabq.it, suor Gloria scriveva: «Otto discepoli sono seduti a mensa… Vi sono però quattro sgabelli vuoti, lasciati da altri quattro chiamati alla mensa, i quali aspettano pazientemente il loro momento stando in ginocchio, cioè in atto penitenziale. Questi quattro simboleggiano quell’umanità che vorrebbe accostarsi alla mensa del Signore, ma ancora non può. Tra questi quattro, nella medesima postura, nella medesima attesa, sta anche Giuda». Comprensibile vi sia Giuda – obiettavo io – ma gli altri tre a cosa devono il loro dover stare in atto penitenziale? Chi sono? I vangeli ci danno qualche indicazione relativa a questi tre apostoli che, a differenza dei rimanenti otto, non sono degni di essere seduti a mensa? Suor Gloria non ha una risposta, quindi svicola: «Nelle predicazioni del tempo dell’Angelico il sacramento della confessione e il sacramento dell’eucaristia erano strettamente legati, non c’era l’uno senza l’altro. Da qui lo stare in ginocchio viene inteso come disposizione al pentimento, condizione necessaria per essere in grazia di Dio (anche per chi si confessa). Certamente anche gli apostoli dovevano avere questa disposizione, pena la sorte di Giuda, la cui colpa non fu il tradimento (giacché in diverso modo e misura tradirono anche gli altri apostoli compreso Pietro) ma disperare della salvezza e non disporsi al pentimento». Bene, ma allora perché questo tocca solo a quattro apostoli su dodici? E perché tra i quattro inginocchiati non c’è Pietro, che proprio suor Gloria ritiene di poter identificare nell’apostolo a fianco a Giovanni, primo da sinistra tra i seduti alla mensa?
Altra obiezione che sollevavo sul significato penitenziale che suor Gloria annette allo stare in ginocchio è il fatto che anche la Vergine sia raffigurata in quella postura. Qui la spiegazione data ha del fantastico: «La Madonna non si trova dallo stesso lato degli altri quattro commensali che sono in attesa di ricevere la comunione», questo farebbe la differenza tra genuflessione e genuflessione. Ma non è tutto, perché, a fare la differenza, il Beato Angelico ci avrebbe messo anche il fatto che «le vesti della Vergine sono identiche a quelle del Cristo». Come foggia, in realtà, niente affatto. In quanto al colore, non ne ha uno diverso da quello che hanno anche le vesti del secondo e del terzo apostolo da sinistra a destra.
Terza questione: «Qualcun altro ha attributo agli sgabelli vuoti e agli apostoli inginocchiati una funzione puramente estetica perché “quale sarebbe stato l’effetto prospettico di avere tutte le figure in piedi schiacciati sulla parete, oppure avanti coprendo alcune delle figure retrostanti?”. Forse potremmo credere che accingendosi a un compito così grande l’Angelico non conoscesse Giotto? O Duccio da Boninsegna nella vicina Siena, dove la problematica era stata risolta benissimo e senza alcun imbarazzo? E che dire allora dello stesso soggetto realizzato dall’Angelico negli Armadi degli Argenti dove la prospettiva è totalmente diversa (ma dove gli sgabelli vuoti ci sono ugualmente anche se non ce n’era un bisogno specifico dal punto di vista compositivo)?».
Qui, onestamente, c’è da trasecolare. A parte il fatto che in rete non c’è traccia del virgolettato riportato, e che l’Armadio degli Argenti è uno solo (il plurale tutt’al più è da riferire ai suoi pannelli), come si può insistere nel dare un significato simbolico che il Beato Angelico avrebbe voluto dare agli apostoli inginocchiati se proprio l’altra versione dell’Ultima Cena vede un numero diverso di soggetti seduti e soggetti inginocchiati? E cosa obbligava l’artista a scegliere una soluzione analoga alle due citate (Giotto e Duccio di Boninsegna) e non una alternativa? Ma poi ci sarebbe stato spazio per ritrarre senza ingombro tutti e dodici gli apostoli seduti nell’Ultima Cena ritratta sul pannello 15 dell’Armadio degli Argenti? Lascio giudicare al lettore, il dipinto è riprodotto in apertura al post.
Mi sembra di poter concludere dicendo che suor Gloria non sa di cosa parla, e tuttavia straparla. 

lunedì 13 ottobre 2014

Ultima della serie, suor Gloria


Non consentono loro di dir messa, che alla fin fine non sarebbe neanche cosa tanto illogica, e allora si sfogano a far altro, poverine. Ultima della serie, dopo suor Germana coi suoi libri di gastronomia, suor Paola con le sue telecronache dall’Olimpico, suor Cristina coi suoi exploit canori a X-Factor, ecco suor Gloria, con le sue «letture sorprendenti e geniali» – così dice Sandro Magister (magister.blogautore.espresso.repubblica.it, 13.10.2014) – dei capolavori della storia dell’arte. Sorprendenti senza dubbio, geniali non direi, tutt’altro.
Sull’Ultima cena che è nella cella n. 35 del Convento di San Marco, a Firenze, e che si vuole del Beato Angelico, anche se più d’uno v’ha letto la mano di Benozzo Gozzoli, suor Gloria scrive: «Otto discepoli sono seduti a mensa, significando così gli invitati a nozze […] in profonda relazione con il Mistero del Salvatore siede alla stessa mensa. Vi sono però quattro sgabelli vuoti, lasciati da altri quattro chiamati alla mensa, i quali aspettano pazientemente il loro momento stando in ginocchio, cioè in atto penitenziale. Questi quattro simboleggiano quell’umanità che vorrebbe accostarsi alla mensa del Signore, ma ancora non può. Tra questi quattro, nella medesima postura, nella medesima attesa, sta anche Giuda. Lo riconosciamo per l’aureola nera e per la posizione un po’ arretrata. La posizione in ginocchio ci informa sulla qualità di questo cibo che vuole da noi un cuore perfetto e contrito. L’affresco fa meditare se confrontato con le tipologie di discorsi che si vanno facendo oggi sulla celebrazione eucaristica e il mistero in essa significato. Oggi ricevere la comunione è guardato, a mio avviso, con eccessiva scontatezza, come se l’eucaristia fosse il termine naturale della Messa e non piuttosto il coronamento per coloro che sono degni di accostarsi alla mensa del Signore» (lanuovabq.it, 13.10.2014), con più che implicito riferimento polemico a chi tra i padri sinodali è in favore dell’ammettere all’eucaristia i divorziati risposati, d’altronde fatto esplicito nel titolo (Il Beato Angelico smentisce Kasper).
Lettura sorprendente, ma perché assurda. Passi per Giuda, ma gli altri tre apostoli in ginocchio assieme a lui cos’hanno da farsi perdonare? Si tratterà, per caso, dei tre che seguiranno Gesù nell’orto del Getsemani e si addormenteranno invece di vegliare con lui in preghiera? I vangeli dicono si tratti di Pietro, Giacomo e Giovanni, ma quest’ultimo, che l’iconografia classica vuole sia l’unico apostolo senza barba, non è tra i quattro inginocchiati, ma insieme agli altri otto, all’estrema sinistra di chi guarda. Poco più basso alla sua figura, anch’ella inginocchiata, vi è la Vergine Maria: in atto penitenziale pure lei, anche se nata senza peccato? La cocuzza di suor Gloria non è neanche sfiorata dall’ipotesi che la distribuzione dei soggetti nel dipinto risponda a una banale esigenza pratica: seduti, i quattro ne avrebbero impallati altrettanti.
Basta avere un minimo di conoscenza dei problemi che nella storia dell’arte si sono posti a chi dovesse dipingere un’Ultima Cena, e alle soluzioni trovate, per porre in dubbio la tesi, ma basta considerare la variante che lo stesso Beato Angelico sceglie per lo stesso tema, raffigurato in uno dei pannelli dell’armadio degli argenti, conservato al Museo di San Marco, per escludere ogni intenzione motivata da significazioni teologiche: lì, gli apostoli seduti sono in sei, e gli altri sei sono in ginocchio, forse che tra un dipinto e l’altro sono cambiati i vangeli o il modo di leggerli come si deve? E questo ci risparmia il dover portare analoghe soluzioni a riprova (Mantegna, Giusto di Gand, ecc.).
In alcuni libelli libertini del Settecento si legge di suore che combattevano la noia conventuale con robusti ceri cresimali. Si sarà trattato di calunnie, di fatto a quei tempi le suore lasciavano in pace la critica d’arte.   

«Nel mondo non è se non vulgo»

Sarebbe ingiusto prenderne uno a esempio buttandogli addosso le colpe di tutti. Sarà esagerato dire tutti? Può darsi, di fatto io non conosco neanche un commentatore professionale di ciò che accade in Vaticano che non ceda alla tentazione di imbastire paralleli tra ruoli, organi e momenti di quello che è un principato ecclesiastico e quelli che ne dovrebbero essere i corrispettivi in un principato civile (non repubblica come qui vorrebbe il candido che ancora non abbia colto l’essenza delle postdemocrazie).
Non a caso uso i termini usati da Niccolò Machiavelli nel suo De principatibus: non gli sfugge la differenza sostanziale che rende impossibile ogni comparazione tra le due forme di imperio, pena il trarne frastornamento, e l’indurlo, come accade in queste ultime settimane con quanto si muove dentro e attorno al Sinodo sulla Famiglia, che gli emaciati e umidicci vaticanisti ci illustrano come istante drammatico, e perfino fatale, per le sorti di questo pontificato e quelle della Chiesa tutta. Cazzate.
I principati ecclesiastici – usa il plurale, Niccolò Machiavelli, ma è solo per consentirsi il sarcasmo che gli sarebbe stato rischioso a dire che della specie ve n’è uno solo – «si acquistano o per virtù o per fortuna, e sanza l’una e l’altra si mantengano, perché sono sustentati dalli ordini antiquati nella relligione, quali sono suti tanto potenti e di qualità, che tengano e’ loro principi in stato, in qualunque modo si procedino e vivino» e «costoro soli hanno stati, e non li defendano; sudditi, e non li governano; e li stati, per essere indifesi, non solo loro tolti; e li sudditi, per non essere governati, non se ne curano, né pensano né possono alienarsi da loro»Principati «sicuri e felici […] sendo retti da cagione superiore, alla quale mente umana non aggiugne», e qui, a pararsi le terga, «lasc[ia] el parlarne, perché, sendo esaltati e mantenuti da Dio, sarebbe offizio di uomo prosontuoso e temerario discorrerne» (soprattutto temerario, perché non gli dispiacerebbe qualche favore da parte di Leone X, che è un Medici).
A chi obiettasse che questa definizione della Chiesa è del 1513, quando il papato aveva ancora saldo in pugno il potere temporale, basta far presente che s’attaglia meglio alla Chiesa che l’ha perso, quindi è evidente che la peculiarità di un principato ecclesiastico esorbita da quanto formalmente lo fa monocratico o collegiale, torvamente simoniaco o squisitamente spirituale e, per usare termini che sono in uso ancorché impropri, progressista o conservatore: a rendere inappropriato ogni paragone con ogni altro tipo di principato è il fatto che il papato si acquista o per virtù o per fortuna, ma si mantiene senza l’una e l’altra, e un Leone X, che arriva dopo un Alessandro VI e un Giulio II che gli hanno fatto «potentissimo» il pontificato «con le arme», può ben sperare di farlo «grandissimo e venerando» con il sorriso sulle labbra, senza pantofole di raso ma con scarpe da contadino, temperando almeno a chiacchiere i rigori della dottrina, cioè – direbbe Niccolò Machiavelli – «con la bontà et infinite altre sua virtù». Perché non è affatto vero che «il fine giustifica i mezzi», frase che peraltro non gli è mai uscita di penna, ma è che a «uno principe [spetta] vincere e mantenere lo stato», ma, quando è papa, basta che lo vinca.
Di poi, «e’ mezzi sempre saranno iudicati onorevoli, e da ciascuno laudati, perché el vulgo ne va preso con quello che pare e con lo evento della cosa» e «nel mondo non è se non vulgo»: è il vulgo che giustifica i mezzi se sono congrui al fine, e se il fine è congruamente dissimulato. E non c’è vulgo più vulgo di quello che si compiace d’esser tale


domenica 12 ottobre 2014

Una vita di merda, tutto sommato


Non so se la figura dell’editor esistesse già ai tempi di Giovannino Guareschi – suo è il brano riprodotto qui sopra, da Il Sole-24Ore di domenica 12 ottobre (pag. 37) – ma dal tono ironico che usa nel darle contorno arguisco cominciasse a emergere in quegli anni – siamo sul finire dei Sessanta – sollevando da subito le delicatissime questioni che a tutt’oggi resterebbero per chi scrive e per chi legge, se non fossero rimosse, come accade, nel tacito patto che a entrambi torni utile, se non indispensabile, un intermediario, quell’oscuro omino che dal correggere gli errori di ortografia è passato a emendare il lessico, a ristrutturare il testo, perfino a costruire uno stile. Come gli sia stato consentito allargarsi tanto è noto: dalle dipendenze di chi scrive è passato a quelle di chi pubblica, e la necessità di vendere quanto si pubblicava, che è negli interessi alti e bassi di chi scrive e di chi pubblica, imponeva la creazione di un soggetto in grado di assicurare al prodotto una qualità che favorisse il consumo. In tal senso potremmo equiparare l’editor a quella complessa articolazione di pertinenze che nell’industria alimentare è deputata a saggiare i gusti del mercato per rendere più appetitoso quanto altrimenti rimarrebbe sugli scaffali. Inevitabile, se questo è il fine, che prima di arrivare al pubblico il prodotto debba subire un accurato processo di ottimizzazione, i cui parametri saranno giocoforza calibrati sui gusti della fetta di mercato che si intende conquistare, cercando di dosare nella giusta proporzione, secondo il caso, quanto stimoli il palato e quanto non dia noie al ventre. Non è un caso, perciò, che l’editor vada acquistando un peso con l’uniformarsi dell’industria editoriale alla logica che ha trasformato chi scrive e chi legge in variabili di sottosistemi della produzione e del consumo, con l’esigenza di incrementare la domanda con una varietà di offerta che non ecceda la capacità di assorbimento. Col gravoso compito di assicurare a chi scrive di esser letto e a chi pubblica di vendere, l’editor non può trattare il testo diversamente da quanto gli è possibile per ciò che sta nella sua capacità di penetrare al meglio il potenziale acquirente che si dichiarerà lettore soddisfatto. Sarà tanto più bravo quanto più saprà lasciar da parte i propri gusti, che dovranno limitarsi a separare la materia prima sulla quale vale la pena di lavorare da quella inservibile, destinata allo scarto, ma anche in questo, per godere della fiducia del suo datore di lavoro, dovrà sapersi fare mero strumento. Una vita di merda, tutto sommato. Quanto meglio sarà in grado di assolvere il suo compito, tanto meno gli sarà consentito di poterne vantar merito, neanche con se stesso, se è intellettualmente onesto. In quanto a ciò che scarta, come potrà mai essere sicuro che non si sia lasciato scappare l’occasione di cavarne un grande successo editoriale, per lui tanto più grande perché quasi interamente dovuto al suo lavoro? 

[Il mio correttore di bozze mi suggerisce di cambiare titolo al post o, in alternativa, di aggiungere, qui in coda, che in vita mia non ho mai spedito un plico a un editor. Lascio il titolo.]

sabato 11 ottobre 2014

Volpino


Due schizzetti di fango sul clergyman di Sua Eminenza fanno lo stesso effetto delle cinque piaghe sul corpo di Nostro Signore.

Segnalibro

venerdì 10 ottobre 2014

L’orrore non sei tu

L’orrore non sta nel fatto che vai allo stadio in branco, portandoti da casa spranghe e coltelli, cercando la rissa, ma nel fatto che, se la rissa c’è e ci lasci la pelle, tua madre dice che sei morto da eroe.
L’orrore non sta nel fatto che vai in motorino alle tre di notte, senza casco, senza patentino, senza assicurazione, e sul sellino stai tra un pregiudicato e un latitante, e non ti fermi all’alt dei carabinieri, ma nel fatto che, se accidentalmente parte un colpo e ci resti secco, tua madre dice che eri un pezzo di pane e chi ti ha ucciso è un criminale.
L’orrore non sta nel fatto che tormenti un ragazzino perché è ciccione e gli infili un tubo in culo fino a sfondargli le viscere, ma nel fatto che tua madre dice che scherzavi e che non è giusto tu stia in carcere mentre chi insieme a te sfotteva il poveretto è a piede libero.
L’orrore non sei tu, è tua madre. È lei che ti ha fatto diventare quello che sei: vittima o carnefice, sei un mostro, perché partorito da un mostro e allevato da un mostro. 

Un paese leader entro vent’anni


L’obiettivo è quello di diventare un paese leader entro vent’anni, dice. Da 100 giorni (24 febbraio) a 1.000 (1 settembre) a 7.300 (10 ottobre): la logica matematica vorrebbe che il prossimo annuncio sia tra 12 giorni (padroni del mondo entro il 2050) e quello successivo il 19 ottobre (la conquista della galassia nel 2055).