La
scorsa settimana ho commentato un articolo col quale Luigi Manconi perorava la
causa di Bernardo Provenzano, che a quanto pare è in condizioni psicofisiche da
far schifo, e insomma sarebbe incompatibile
col regime carcerario. Bene, pare che Totò Riina non stia meglio: due infarti, Parkinson,
problemi al fegato. Possibile che solo quel fesso di Leoluca Bagarella sia sano
come un pesce?
mercoledì 10 dicembre 2014
La simpatia
È
davvero un peccato che Tocqueville decida di rivelarci l’intimità del suo animo
solo in finale di carriera, dopo averci rifilato centinaia e centinaia di
pagine. Lo leggevamo, non è che ci piacesse da morire ma ci sembrava un tipino
sennato, forse un pochino frou-frou, ma insomma sempre meglio di un
Chateaubriand. Ci metteva in guardia dalle derive violente della democrazia, e
chi ama la violenza? Solo i bruti, via. Certo, ci stupiva che non riuscisse a
trovare neanche una attenuante agli effetti collaterali della Rivoluzione – non
è che l’aristocrazia puoi abolirla con un frego di penna, no? – ma ricacciavamo
lo stupore nella simpatia, doveva essersi sporcato la redingote di sangue, poverino.
Poi abbiamo letto quell’appunto e un dubbio ci ha trafitto: ma vuoi vedere che
si trattava solo di uno furbo? Più elegante di un Talleyrand, senza dubbio, e
soprattutto con un visino così pulito, un così bel periodare… No, via, furbo
no. Diciamo che aveva un gran bel garbo.
Com’è
che mi tornava in mente ’sta cosa di Tocqueville? Ah, ecco, mi tornava in mente
leggendo Massimo Adinolfi su Il Mattino:
«C’è qualcuno che vuole provare a
difendere la politica romana, dopo l’inchiesta Mondo di mezzo? Nessuno. Dunque
proviamoci. […] Si tratta di questo: l’inchiesta condotta dai pm romani ha
portato alla luce una fitta trama di illegalità in alcuni settori dell’economia
della capitale, che prospera grazie alla corrotta complicità delle burocrazie
locali, e investe anche esponenti politici di rilievo, secondo responsabilità
che devono essere accertate. È evidente che, posta in termini così asciutti,
non vi sarebbe sufficiente materia per una settimana di titoli da prima pagina,
o per parlare di mafia capitolina, o per evocare il clima di Mani pulite,
secondo l’allarmata testimonianza di Raffaele Cantone, che al Corriere racconta
come gli capiti sempre più spesso che la gente lo fermi per strada e gli chieda
(o forse gli urli): arrestateli tutti. Ma si possono arrestare tutti? O anche: siamo
sicuri che si devono arrestare tutti? Tutti chi, poi? Tutti i politici in
quanto politici? Se parliamo di clima, non v’è dubbio che il clima sia quello,
che il solo fatto di appartenere alla classe politica attira oggi sospetti e
dicerie. […] Ma chi o cosa alimenta questo clima? La corruzione, certo. Il
malaffare: è indubbio. Ma al momento il clima
lo fanno le intercettazioni che finiscono sui giornali. Per carità: decida il
Ministro, decida il Parlamento come e quando intervenire sulla materia, nel
rispetto di tutti gli interessi coinvolti. Ma intanto non è forse un fatto che,
ancora una volta, sulla base di intercettazioni che finiscono nei verbali di
polizia indipendentemente dal loro rilievo investigativo e che vengono sparate
come notizie prima e indipendentemente da qualunque accertamento, si travolge
un’intera classe politica […]? […] Ma non è solo una questione di civiltà o di
garanzie giuridiche […] No: la domanda più spregiudicata, ma necessaria, è la
seguente: conviene? O forse, più precisamente: a chi conviene? A chi conviene
questo bagno di sangue, questo lavacro purificatore, questa continua
drammatizzazione mediatica e, suo tramite, la messa in stato d’accusa di
un’intera classe politica? Al Paese non conviene».
Un
gran bel garbo, no? E poi che c’è di più raccapricciante del Terrore? Leggevo e
mi dicevo: «Bravo, Adinolfi!». Poi m’è tornato in mente l’appunto di
Tocqueville. E allora mi son detto: «Bravo, ma pure furbo?». No, via, impossibile. Niente da fare, è la simpatia che mi fotte.
lunedì 8 dicembre 2014
Mondo di mezzo
Lo stampo è un arnese che serve a imprimere una
data forma a un materiale e perché ciò si realizzi occorre che il materiale
abbia natura congrua a prendere e a conservare la forma che lo stampo gli
imprime. A me pare che un’associazione per delinquere sia materiale di per se
stesso congruo a poter prendere e conservare la forma che può darle lo stampo
dell’organizzazione mafiosa, basta aderisca in modo stabile ai tratti
distintivi che caratterizzano lo stampo. Penso pure che l’art. 416 bis del
Codice Penale dia una esauriente descrizione della forma che dobbiamo
attenderci da una congrua azione dello stampo sul materiale: «L’associazione è di tipo mafioso quando
coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo
associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per
commettere delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o
comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di
autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi
ingiusti per sé o per altri, ovvero al fine di impedire od ostacolare il libero
esercizio del voto o di procurare voti a sé o ad altri in occasione di
consultazioni elettorali».
Bene, dopo aver letto le 1.228 pagine dell’Ordinanza di applicazione delle misure
cautelari emessa dal gip a carico degli indagati nell’ambito dell’operazione
che i media hanno battezzato Mafia Capitale, a me pare di poter concludere che l’associazione,
di cui Massimo Carminati era senza alcun dubbio il capo, fosse senza dubbio
associazione per delinquere, e altrettanto senza dubbio rispondesse ai tratti
della forma che è descritta dall’art. 416 bis: lo stampo mafioso è
riconoscibile senza possibilità di errore dalle conversazioni tra i componenti
dell’organizzazione, che in pratica con esse si autoaccusano di quel reato.
Al mio lettore non sarà sfuggita l’insistita
ricorrenza del termine congruo nel
primo capoverso di questo post. Non è casuale, perché congruo significa proporzionato,
ma soprattutto corrispondente: ho
scelto questo termine perché mi pare che a stroncare i poverissimi argomenti di
chi anche in questo caso mette in discussione l’ipotesi d’accusa – dalle
indagini non emergerebbe alcuna traccia di coppole o di lupare, né alcuno degli
indagati si esprimerebbe in dialetto siciliano – sia la semplice considerazione
che a rendere efficace uno stampo basti la riproduzione di una forma nei suoi
tratti salienti, che sono tali se immediatamente corrispondenti a quella forma che lo stampo imprime conservandone
le proporzioni. Se «le disposizioni del presente articolo si
applicano anche alla camorra e alle altre associazioni, comunque localmente
denominate, anche straniere, che valendosi della forza intimidatrice del
vincolo associativo perseguono scopi corrispondenti a quelli delle associazioni
di tipo mafioso», non c’è bisogno d’altro perché il capo d’accusa trovi fattispecie nell’art. 416 bis. Tutt’al più sarà necessario trovare un nome alla forma che lo stampo ha riprodotto a Roma e a me pare che il più adatto sia quello di Mondo di mezzo.
Si tratta dell’espressione con la quale Massimo Carminati descrive struttura, modalità e funzione dell’organizzazione di cui è a capo nella conversazione che l’11 gennaio 2013 ha con Riccardo Brugia e Cristiano Guarnera (n° 1.710) e che, contrariamente a quanto qualcuno ha scritto nel tentativo di dare una intrigante caratura culturale al clan, non ha alcuna attinenza alla Midgard di Tolkien. Che alcuni membri dell’organizzazione criminale abbiano avuto un passato di militanza nella destra eversiva è fuor di dubbio, ma credere che il nucleo fondativo della banda possa aver avuto un pur aleatorio profilo ideologico, e che a ispirare la teoria del Mondo di mezzo esposta da Massimo Carminati a Riccardo Brugia possano essere siano le suggestioni ricavate da un autore di culto della destra, è da idiota, e pensare di poterlo far credere è da pataccaro.
domenica 7 dicembre 2014
venerdì 5 dicembre 2014
D’un bel 625 KB cadauna
Non
metto il link per risparmiarvi la pubblicità di un preservativo che si piglia
un terzo della pagina, il banner sotto la testata sul quale scorrono i prezzi
di caffè, prosecco e detersivo distribuiti da un ipermercato e il pop-up che
reclamizza una società di spedizioni, che è quello che dà il maggior fastidio
perché bisogna chiuderlo due volte ogni dieci secondi, però volevo segnalarvi
lo stesso Le foto di Ignazio Marino e Salvatore Buzzi, un articolo col quale Il
Post di Luca Sofri conferma il suo apparentamento ai rotocalchi che ci
informano di che colore siano i calzini dei magistrati che rovinano l’appetito
all’editore. Fedele alla bottega di Giuliano Ferrara, presso cui il babbo lo
sistemò perché apprendesse i rudimenti del mestiere, Sofri il Giovane corre in
soccorso di un uomo del «capo», l’iperrenziano Giuliano Poletti, che una foto
ci ha mostrato attovagliato con un bel crocchio di indagati di Mafia Capitale,
pubblicando alcune foto che mostrano Marino in compagnia di Buzzi.
Si
sa che Giotto superò Cimabue, dunque non c’è da stupirsi che Ferrara si sarebbe
limitato a scrivere: «Vedete? Essere fotografati assieme a un brutto ceffo non
vuol dire sapere dei suoi affari o esserne socio», sennò, giusto per farci
trasalire, il che lo eccita tanto: «L’arte del buongoverno è sempre un poco
zozza, c’è da rivalutare Marino», mentre l’allievo va ben oltre, si vede che ha imparato il tratto ma lo
risolve in nuance, e con riferimento a quanto Marino ha detto giovedì sera a
Ottoemezzo: «O il sindaco di Roma ha mentito, come dicono oggi i
quotidiani, o ha fatto un’esposizione un po’ confusa».
Ma
che ha detto, Marino? Alla domanda se avesse mai avuto sospetti su ciò
che andava combinando Buzzi, ha risposto: «Non ho neanche avuto mai
conversazioni…». Eppure le foto rivelano che gli ha parlato, quindi mente,
oppure voleva dire che dal poco che aveva potuto capire, per quel poco che gli aveva
parlato, mai avrebbe pensato… D’altronde, ha ammesso di essere «stato anche
molto tempo a visitare la cooperativa»: non è scontato che ad accoglierlo vi
fosse chi ne era responsabile? Di fatto, Marino non ha detto di non aver mai
incontrato Buzzi. E tuttavia, delle due, una: o mente o ha problemi con la
lingua italiana, e tra le due, bontà sua, Sofri è disposto a concedere sia la
seconda.
Articolo in apparenza inutile, dunque, se non in difesa del lessico, di cui solitamente Il Post fa scempio, ma in realtà bon pendant di quello che riporta l’autodifesa di Poletti (la sua lettera a la Repubblica in risposta alla questione sollevata da Roberto Saviano). In quanto alla foto della cena cui partecipò il signor ministro, inutile cercare, Il Post non la riporta. Né riporta quelle che almeno in altre due occasioni ritraggono Buzzi e Poletti insieme. Solo le foto in cui con Buzzi c’è Marino, e in una pagina senza pop-up, d’un bel 625 KB cadauna.
Articolo in apparenza inutile, dunque, se non in difesa del lessico, di cui solitamente Il Post fa scempio, ma in realtà bon pendant di quello che riporta l’autodifesa di Poletti (la sua lettera a la Repubblica in risposta alla questione sollevata da Roberto Saviano). In quanto alla foto della cena cui partecipò il signor ministro, inutile cercare, Il Post non la riporta. Né riporta quelle che almeno in altre due occasioni ritraggono Buzzi e Poletti insieme. Solo le foto in cui con Buzzi c’è Marino, e in una pagina senza pop-up, d’un bel 625 KB cadauna.
Er Cecato e la cecataggine
Lirio
Abbate ci rammenta che un tempo, in Sicilia, politici, procure, preti e
popolino negavano l’esistenza della mafia (Anno
Uno – La7, 4.12.2014). Negarne l’esistenza
sarà stato senza dubbio farle un favore, ma questo accadeva intenzionalmente? In
qualche caso, sì, d’altronde a negarne l’esistenza erano innanzitutto padrini e
picciotti, tuttavia non è difficile immaginare cosa spingesse tanti a definirla
un’invenzione letteraria: la mafia in Sicilia era un sistema che in parte si
sovrapponeva allo stato e in parte lo vicariava, sicché riconoscerla come
entità criminale avrebbe assunto di fatto una valenza eversiva. Accadeva, così,
che chiunque cadesse vittima della mafia, quando non potesse esser dato morto
ammazzato per questioni di corna, fosse considerato, ancorché tacitamente, uno
che non sapesse stare al mondo: era morto per questioni esistenziali, per non
aver voluto accettare la realtà per quello che non c’era altro modo di
immaginare potesse essere. Rigettare le regole di una società che la mafia
aveva costruito per secoli a sua misura era un torto imperdonabile, ben oltre l’essere
d’intralcio agli affari di Cosa Nostra: era un mettere in discussione la stessa
idea di potere, così come venutasi a costruire nell’intreccio tra stato e
mafia. Si negava l’esistenza della mafia per negare quell’intreccio, e a
negarlo erano sia quelli che consentivano vi fosse, sia quelli che non lo
vedevano perché del potere avevano un’idea sostanzialmente analoga a quella
mafiosa, quella della violenza istituzionalizzata, del diritto degradato a
favore, del privilegio esaltato a diritto, del cittadino corrotto a cliente o a
famiglio, dell’amministratore come feudatario.
Ci
sono voluti decenni, e molti morti per disagio esistenziale, ma che la mafia
sia esistita e ancora esista lo sappiamo, e sappiamo come vive, come pensa,
come agisce. Dopo aver sventato la tentazione di concepirla come entità
metafisica, sappiamo come nasce, come cresce e come si riproduce. Dopo averla
vista all’opera, e dopo alcuni tragici travisamenti della sua più intima natura,
sappiamo cosa le dia forza e cosa gliela tolga. Con ciò è venuta a costruirsi,
indagine dopo indagine, processo dopo processo, una vera e propria scienza
delle cose mafiose. Fallibile come ogni scienza, ovviamente, e come ogni
scienza in grado di correggere i propri errori.
Non più connaturata alla sicilianità, come si voleva col confondere storia e destino. Né più questione di teodicea, come si voleva col ritenerla trascendente nel vederne gli stampi fuori dalla Sicilia. Patologia sociale, con tanto di etiogenesi e patogenesi, con terapie assai valide, se correttamente applicate, e a partire da una diagnosi accurata, possibilmente precoce, senza dimenticare l’indispensabile ruolo della prevenzione e della profilassi. Lavoro duro, ma almeno sembrano finiti i tempi in cui la peste sembrava dovuta alla congiunzione di Giove con Saturno. Abbiamo perfino qualche vaccino. Superfluo dire che la lotta durerà ancora a lungo, ma a farcela perdere può essere solo il non vedere la mafia dov’è, sottovalutarne il pericolo, lasciare che la papula diventi bubbone.
Non più connaturata alla sicilianità, come si voleva col confondere storia e destino. Né più questione di teodicea, come si voleva col ritenerla trascendente nel vederne gli stampi fuori dalla Sicilia. Patologia sociale, con tanto di etiogenesi e patogenesi, con terapie assai valide, se correttamente applicate, e a partire da una diagnosi accurata, possibilmente precoce, senza dimenticare l’indispensabile ruolo della prevenzione e della profilassi. Lavoro duro, ma almeno sembrano finiti i tempi in cui la peste sembrava dovuta alla congiunzione di Giove con Saturno. Abbiamo perfino qualche vaccino. Superfluo dire che la lotta durerà ancora a lungo, ma a farcela perdere può essere solo il non vedere la mafia dov’è, sottovalutarne il pericolo, lasciare che la papula diventi bubbone.
In tal senso occorre denunciare come pericolo pubblico
chi si spende nel liquidare come inutile allarmismo il solerte intervento su un
focolaio. Non sarà untore, ma al pari dei politici, delle procure, dei preti e del
popolino che decenni fa in Sicilia negavano l’esistenza della mafia – de facto –
lavora perché la peste diventi endemica. «Secondo
me – dice – questa storia della
cupola mafiosa a Roma è una bufala… Forse tutto questo è abbastanza per una delle
solite retate nel mondo del delitto, ma non è un po’ poco per definire il
contenuto di un patto mafioso corruttivo nella capitale del paese?... Niente è
più credibile a Roma, città estranea antropologicamente a tutti quelli che ora
indagano su di essa, di una rete di piccola e media criminalità che si avvale
di complicità dei bassifondi politici o di alcuni pesci piccoli che vi nuotano.
Ma è allo stato delle cose totalmente incredibile la surrealtà di una cupola mafiosa,
sia pure in forma originale, che si sia impossessata della città per realizzare
fini di guida e orientamento politico della sua vita amministrativa nei modi e
nelle forme che sono suggeriti dal linguaggio delle intercettazioni e dalla sua
elaborazione nelle notizie relative all’inchiesta... Quella che vi stanno dando
non è informazione su un’associazione delinquenziale ma una coglionatura
ideologica per creduloni. » (Il Foglio,
4.12.1204).
È il fisiologico rosicchiar di topi dove c’è formaggio, insomma, e
si tratta di topi che ruggiscono come leoni, ma topi restano, e chi gli corre
appresso è un esaltato con la fissa dei safari. Er Cecato avrà un avvocato, ma
pure la cecataggine ne ha uno. Sì, il morto ha un sasso in bocca, ma era un fimminaro e l’avrà fatto fuori un marito
cornuto.
martedì 2 dicembre 2014
Savastano
Nella
penultima puntata di Gomorra, la
serie televisiva andata in onda tra maggio e giugno su Sky Atlantic, don Pietro Savastano, al 41 bis da anni, è ridotto ad
una larva umana: un volto totalmente inespressivo, un grave stato di
decadimento psicofisico, un severo deficit cognitivo con patente azzeramento
delle facoltà emotive, non riconosce i familiari, non parla, cammina solo se
sostenuto dalle guardie carcerarie, insomma, è solo l’ombra esangue dello
spietato boss che ha costruito un immenso impero economico grazie ad ogni
genere di attività criminale.
Cosa sopravvive della bestia sanguinaria in quell’omone
catatonico? Nulla, si direbbe, e dunque, quando arriva la revoca del 41 bis,
nell’ultima puntata, il telespettatore può ritenere ingiusto il provvedimento? Solo
se gli manca la cultura dello stato di diritto, che tutti sanno cosa sia, ma non
sarà superflua una ripassatina: «La superiorità
giuridica dello stato di diritto consiste in questo: nel fatto di essere
indipendente da chi lo combatte così nella elaborazione delle leggi come
nell’esecuzione delle pene. Di conseguenza l’amministrazione della giustizia
non si fa influenzare da chi rappresenta la negazione assoluta dei principi che
ispirano il sistema democratico, non ne adotta i metodi e non ne assume – mai –
la ferocia. Se Provenzano venisse sottratto a una carcerazione incompatibile
con il suo stato di salute, ciò costituirebbe una vittoria dello stato di diritto
e il vecchio boss sarebbe restituito alla sua attuale e più autentica dimensione:
quella di un “simbolo del male” ormai completamente vuoto e ridotto a un consunto
simulacro del passato». Così
Luigi Manconi (Il Foglio, 2.12.2014),
e basta mettere Savastano al posto di
Provenzano per ritornare alla trama
della serie televisiva: arriva la revoca del 41 bis e questo consente al clan
di far evadere il boss, che in un battibaleno ripiglia il colorito dei bei
tempi andati, promessa di una seconda serie, la prossima stagione.
Meno male
che solo nelle fiction le perizie mediche possono essere fatte a cazzo di cane
e che in Gomorra non c’è un Luigi
Manconi al quale rinfacciare i morti delle prossime dodici puntate, fra i quali non è escluso possa esservi lo stesso Savastano.
lunedì 1 dicembre 2014
[...]
Nella
lettera dedicatoria «al molto illustre e
valoroso signore il signor Giovanni de’ Medici» (meglio noto come Giovanni
delle Bande Nere) che Matteo Bandello fa precedere alla novella Messer Cocco e Domicilla si sfotte, e di brutto, «il nostro ingegnoso messer Niccolò
Macchiavelli» per aver dato prova, a sue spese, di «quanta differenza sia da chi sa, e non ha messo in opera ciò che sa, da
quello che oltra il sapere ha più volte messe le mani in pasta e dedutto il
pensiero e concetto de l’animo suo in opera esteriore», a illustrare che «sempre il pratico et essercitato con minor
fatica opererà che non farà l’inesperto, essendo l’esperienza maestra de le
cose, di modo che anco s’è veduto alcuna volta una persona senza scienza, ma
lungamente essercitata in qualche mestieri, saperlo molto meglio fare che non
saperà uno in quell’arte dotto ma non esperimentato»: era l’estate del 1526
e nei pressi di Milano «messer Niccolò
quel dì ci tenne al sole più di due ore a bada per ordinar tre mila fanti
secondo quell’ordine che aveva scritto [nel suo Libro de la arte della guerra],
e mai non gli venne fatto di potergli ordinare», e «tuttavia egli ne parlava sì bene e sì chiaramente, e con le parole sue
mostrava la cosa esser fuor di modo sì facile, che io che nulla ne so mi
credeva di leggero, le sue ragioni e discorsi udendo, aver potuto quella
fanteria ordinare», fino a quando, «veggendo
che messer Niccolò non era per fornirla così tosto», «detto[gli] […] che si
ritirasse e lasciasse far a voi, in un batter d’occhio con l’aita dei tamburini
ordinaste a quella gente in varii modi e forme, con ammirazione grandissima di
chi vi si ritrovò». Ennesima avvilente conferma – vi accennavo qualche
settimana fa – della «distanza che c’è
tra studio e mestiere [sicché] si
vorrebbe che il primo sia indispensabile al secondo, ma di fatto non è affatto
vero, anzi, […] sconcerta, può arrivare a infondere sgomento, ma è di piana
evidenza che, almeno in certi campi, sia impossibile trasporre con qualche
profitto le regole che fanno il metodo della più perfetta scienza» (Malvino, 16.11.2014). Di questo mio
sconforto relativo al fatto che «è nella
più perfetta scienza politica che la più furba arte del governo trova le ragioni
di ciò che è da evitare», piuttosto che da seguire, si stupiva un lettore
(Romeo Sciommeri), il quale mi faceva presente che «di solito si scommette sulla grossolanità della scienza sociale
rispetto alla complessità del suo oggetto di studio»: in pratica, dovremmo
concludere che sia impossibile una qualsivoglia scienza sociale, con ciò dando
per scontato che le scienze sociali siano inassimilabili alle scienze naturali.
Per sostanziale differenza dell’oggetto o per inapplicabilità dello stesso
metodo? Torno un attimo al post cui ho fatto cenno prima, al punto in cui
liquido la questione – in verità, con una soluzione di comodo – scrivendo che «è nella più perfetta scienza politica che
la più furba arte del governo trova le ragioni di ciò che è da evitare, perché
il miglior daffare raramente è un ottimo affare». Possiamo farcelo bastare
per concludere che quanto la scienza dà come ottimo non è mai tale rispetto a
ciò che l’arte giudica migliore? E in cosa, allora, l’arte del governare
risulta sempre vittoriosa sulla scienza politica? In altri termini – per riprendere
quelli che usavo qualche settimana fa – se «non
si è mai visto un grande economista diventare miliardario grazie a tutta la sua
scienza», bisogna dedurre che non c’è alcuna relazione tra l’arte di far
soldi e le teorie economiche? Ancora: com’è possibile che il consenso si
guadagni così spesso contro ogni ragione?
Lo scienziato della politica risponde che il rapporto tra teoria e fatti
diventa tanto più labile quanto più i fatti si carichino di intenzionalità, per
l’essere azioni di cui sono titolari individui o gruppi, e che è proprio questo
fattore a determinare quel contesto policondizionale in cui viene a perdersi la
prevedibilità che è propria del sistema entro il quale i fatti provano la
correttezza di una teoria; in più, ci dice che, per la loro natura, essi sono
ambigui, dunque difficilmente comprensibili, sia quando siano causa di ciò che
si è chiamati a prevedere, sia quando siano effetto che sembra smentire la previsione.
Resta la questione che avevamo lasciato aperta nei pressi di Milano nell’estate
del 1526: Giovanni delle Bande Nere la chiude sistemando le truppe dove Dio comanda e
invitando Machiavelli a pranzo, dove lo prega «che con una de le sue piacevoli novelle ci volesse ricreare».
Il momento del riscatto
Ancora
mi brucia la figuraccia che ho rimediato col dar credito a una notizia che ha
cominciato a circolare in rete a maggio e che già a giugno tutti sapevano fosse
una bufala: rilanciata qualche giorno fa da Il
Mattino, l’ho ripresa senza sottoporla ad alcuna verifica e, anche se ho
espresso più d’una perplessità su quanto in essa «restava senza spiegazione», non m’ha neanche sfiorato il dubbio
che potesse averla partorita un buontempone.
Figuracce
del genere dovrebbero far riflettere, e io ci ho provato, ma ho dovuto constatare
che l’orgoglio ferito piegava la riflessione alla mera ricerca di attenuanti,
riuscendo pure a farmene trovare alcune assai spendibili, ma in fondo tutte un
pochino disoneste: mi era d’obbligo una verifica e l’avevo omessa, stop. Severo
con me stesso non meno di quanto lo sia col mio prossimo, eautontimorumeno, ho
condannato Malvino a due mesi di silenzio.
Anche questo, però, m’è sembrato un pochino disonesto: bloggare, alla lunga,
stanca, e approfittare di quanto era accaduto per il riposino che già da
qualche anno vado pensando di concedermi sarebbe stato come andarmene in
villeggiatura dandomi per carcerato.
Che
fare? Ho raccolto il suggerimento di diciottobrumaio: nessuna pausa, ma post rigorosi, seri, ineccepibili. E la
conferenza stampa che Bergoglio ha tenuto sull’aereo che lo riportava in Italia
dopo il suo viaggio in Turchia me ne dà la migliore occasione: non c’è stata,
vi hanno rifilato una bufala.
Sì,
lo so, ci sono centinaia e centinaia di siti che danno la stessa versione, fino
all’ultima virgola, di ciò che Bergoglio avrebbe detto, e c’è perfino un video
che sembrerebbe confermarlo in modo inoppugnabile. Tutto fasullo, si tratta di
una bufala. Bravo l’attore che interpreta Bergoglio, senza dubbio, e in ogni
caso occorre dire che si tratta di un lavoro fatto a regola d’arte visto che c’è
cascata pure Radio Vaticana. Ma via, basta fare attenzione ai contenuti, e si
capisce subito che è un falso grossolano e pure volgaruccio.
«Chi ha venduto armi
chimiche alla Siria era forse proprio chi l’accusava di possederle». E chi l’ha accusata di possederle?
Vi pare che un papa serio possa sparare accuse del genere agli Usa, all’Ue, all’Opac
e all’Onu, così, a cazzo di cane?
«Il Sinodo non è un
Parlamento, ma uno spazio dove parla lo Spirito Santo». E a dirlo sarebbe il
primo papa che ha voluto fossero resi pubblici i risultati delle votazioni sui
singoli punti del documento finale, con la specifica di quanti voti fossero a favore e
quanti contrari, che ci mancava solo il tabellone luminoso che sta a
Montecitorio e a Palazzo Madama? Così si esprime, lo Spirito Santo? A
maggioranza?
Un
papa vero, poi, fa confusione tra fondamentalismo e integralismo come farebbe
un giornalista di Libero o del Tg4?
E
nel parlare di un tizio in coma – in questo caso, del prelato armeno dal quale
il falso Bergoglio ha detto di essersi recato in visita – un vero papa lo
avrebbe definito «un vegetale»?
E
il Corano che sarebbe «un libro di pace»? E «Dio [che] ci ha dato un mondo di incultura primordiale per farne un mondo di
cultura», che, al netto del lessico da camallo, è teologia da avvinazzato? Ma, via, è più che evidente: trattasi di bufala, al cento per cento.
sabato 29 novembre 2014
Ok, il prezzo è giusto!
Nella
personale classifica delle migliori interpretazioni che la cronaca ci ha
offerto nell’ultima settimana, al terzo posto metto l’originale rilettura de I monologhi della vagina (Eve Ensler,
1996) proposta dalla Moretti, al secondo – ex aequo – i due Mattei nel remake
di Totò contro Maciste (Fernando
Cerchio, 1962), mentre non ho esitazioni nell’assegnare la palma d’oro a Bergoglio
nei panni di Gesù che scaccia i mercanti dal tempio (Mt 21, 12-13; Mc 11,
15-17; Lc 19, 45-46; Gv 2, 14-16): «Quante volte, entrando in una chiesa, vediamo che c’è la lista dei
prezzi… Penso allo scandalo che possiamo fare alla gente con il nostro
atteggiamento…», e giù mazzate, ardente come Robert Powell sotto la regia
di Franco Zeffirelli. Non che nel tempio, adesso, si smetterà di far commercio,
ma questo è un altro paio di maniche. Anche a Gerusalemme, d’altronde, il giorno
dopo tornò tutto alla normalità, e così accade oggi, con la Cei che si
precipita a chiarire che l’offerta è libera, ma tanto utile, praticamente
necessaria, sostanzialmente indispensabile. Scompariranno i tariffari in
bacheca, sarà la qualità della prestazione a calibrarne il prezzo, e chissà che
in questo modo non ne vengano migliori entrate. Tutto sommato, in fondo, dov’era
lo scandalo? I tariffari avevano una loro ratio. Prendiamo quello stilato da
don Valerio Mazzola, parroco di Villa di Baggio, ridente borgo del Pistoiese
dal quale è partita la lettera di protesta che ha offerto a Bergoglio lo spunto
per la sua performance.
A
me pare che si tratti di prezzi onesti. Forse qualcosa restava senza spiegazione –
un terzo gemello ha lo sconto del 30% sui 90 euro del primo battesimo o sui
60 euro del secondo? perché pagare solo le prime comunioni, visto che sul piano
teologico non c’è alcuna differenza con quelle successive? solo 70 euro di
differenza tra un matrimonio come Dio comanda e uno come Dio abbozza? nel caso
in cui l’agonizzante non spiri, c’è un rimborso, anche solo parziale, del
prezzo speso per l’estrema unzione? un miracolo a 1.000 euro, non è pochino? non
sarebbe giusto rendere più elastico il prezzo del funerale in relazione alla
tempestività della prenotazione? in quanto alle sanzioni: 5 euro per ogni squillo
di telefonino, senza specificare un sovrapprezzo in caso di risposta alla
chiamata? e un sms, poi, viene a costare più di un atto di libidine, per giunta
in un luogo sacro? e non può capitare che a far ritardo sia lo sposo? – ma in
generale, via, mi pare potesse andare.
martedì 25 novembre 2014
[...]
È
la prima metà dell’editoriale che Marco Travaglio ha firmato per Il Fatto Quotidiano di martedì 25
novembre e chiunque abbia un minimo di onestà intellettuale non potrà negare
che il pezzo sia costruito molto bene, da polemista di gran talento. Appagati i
sensi da un così bel saggio di scrittura, tuttavia, c’è da chiedersi a cosa
possa mai servire l’ennesima conferma che Matteo Renzi sia una gran merda d’uomo.
Scoprirlo ancora una volta cinico, sleale, opportunista – falso come una
banconota da ottanta euro – farà cambiare idea a qualcuno? Probabilmente neanche
Marco Travaglio ci conta, ma è che quello è il suo lavoro: dare argomenti a chi
già abbia le sue stesse convinzioni, confortarlo nella persuasione che avesse
ragione, ieri, contro la maggioranza di italiani che sceglieva Silvio
Berlusconi e che abbia ragione, oggi, contro la maggioranza di italiani che
sceglie Matteo Renzi. Una sorta di assistenza psicologica, potremmo concludere.
Ma un problema resta, ed è quello della patente inefficacia di argomenti che
dovrebbero essere inoppugnabili – che un uomo politico sia in costante debito
di coerenza verso l’opinione pubblica, che debba tener fede alla parola data,
che non possa concedersi il lusso di una doppia morale – a fronte degli
strumenti che a dispetto di tutto ciò procurano consenso: non basta aver ragione
per vederla riconosciuta. Nel mio piccolo ho già messo in guardia dall’usare la
ragionevolezza come genere di conforto, perché è pia illusione «pensa[re] che a far perdere consensi a un demagogo possa bastare il riuscire a
coglierlo in contraddizione con se stesso, dar prova che non sia uomo di
parola, che non mantenga le promesse, che cambi idea con la disinvoltura con
cui una puttana passa da cliente a cliente», perché fare le pulci a un
demagogo, se non è per mestiere, è per accanimento da ingenui «convinti che alla gente faccia difetto solo
la memoria. Magari. È che alla gente fa difetto pure la memoria, ma soprattutto
la buona coscienza» (Malvino,
22.9.2014).
lunedì 24 novembre 2014
[...]
«I grow old … I grow old
…»
Thomas S. Eliot
Dicono che Renzi sia un grande comunicatore, quindi tocca a me sforzarmi di capire cosa abbia detto
se mi è risultato oscuro, ma con discrezione, senza dar da vedere lo sforzo,
sennò passo per coglione. E dunque: «Possono
tirarci le uova, ci faremo le crepes, o i lacrimogeni, li considereremo delle
lampade». Alle uova e alle crepes – sia lodato Iddio – ci arrivo. È una
battuta del cazzo, ma posso pure far finta di trovarla una sparata ganza. Ma i
lacrimogeni e le lampade? La frase sembra mettere gli uni e le altre nella
stessa relazione che regge uova e crepes (una fiera noncuranza ci consentirà di
trarre un vantaggio da qualsiasi attacco), ma mi scervello nel prendere in
considerazione ogni tipo di lampada (a olio, a gas, a petrolio, ad alcol, ad
acetilene, e alogena, fluorescente, a raggi ultravioletti, e quella
endoscopica, quella scialitica, perfino quella di Aladino) e non riesco a stabilire
alcun collegamento logico con un lacrimogeno, anche a voler prendere in
considerazione ogni possibile accezione dell’aggettivo sostantivato. Eppure
tutti sembrano aver colto cosa volesse dire. Per meglio dire, nessuno solleva
la questione. E a me resta il problema: «Possono
tirarci i lacrimogeni, li considereremo delle lampade». Ma i lacrimogeni,
poi, solitamente chi li tira, chi in piazza contesta il governo o la polizia su ordine del governo? Niente, non ne esco, buio totale. E neanche un’anima buona a spararmi un lacrimogeno.
[...]
In
premessa alla sua deliziosa Antologia
apocrifa (Bompiani, 1978) Paolo Vita-Finzi afferma che per una efficace
parodia letteraria è necessario innanzitutto individuare il «codice d’uso» dell’autore che si
intende scimmiottare. Questa raccomandazione mi è tornata in mente nell’apprestarmi a scrivere un editoriale à la Ferrara,
ispirato dal suo Quando la libertà è una
procedura schifosa e comoda di annientamento (Il Foglio, 24.11.2014), pezzullo in cui il suo «codice d’uso» è più scoperto del solito, come capita a chi si
segga dinanzi alla pagina bianca senza sapere di che cazzo scrivere e, per
chiudere il pezzo in tempo utile, ricorra ai suoi più collaudati automatismi,
meglio se su un tema già affrontato mille volte: ça va sans dire, qui, l’aborto, e usando i consueti frattali di perifrasi
che per modulo hanno la geremiade dell’anziana signora sull’autobus («non c’è più religione», «chissà di questo passo dove andremo a finire», «questa non è libertà, è
libertinaggio», ecc.). Tutto così
scontato, in questo suo editoriale, che mi è sembrato si parodiasse da solo,
sicché m’è passata la voglia di farlo io, tanto più che, sul mugugno che chiude il pezzo, l’anziana
signora m’ha dato un brivido: «Ogni tanto
mi sorprendo a sognare che questa libertà venga sommersa dal sacro islam, in mancanza
di argomenti migliori. E non escludo, io che non ho una fede confessionale, che
finisca proprio così, in uno scontro di assoluti in cui l’assoluto dell’io soccomba
di fronte all’assoluto di Dio». Passi dar del debosciato al giovanotto che
non le cede il posto a sedere, ma qui siamo al «le auguro di perdere le gambe sotto un treno» e al «ciu-ciuf, ciu-ciuf, ciu-ciuf» che dovrebbe farlo cagare addosso. Non è bello, ecco.
Prova a dargli torto
«Il mio partito – dice l’astensionista con un certo orgoglio – è assai più forte del tuo», e non ha importanza quale sia il partito del tizio cui si rivolge. «Alle ultime Europee – dice – eravamo più di 21 milioni, il 41,3%. Appena lo 0,5% in più del 40,8% andato a Renzi? Manco per niente, Renzi è stato votato da poco più di 11 milioni degli aventi diritto al voto, che fa il 23,3% del totale; meno di 6 milioni hanno votato Grillo, che fa poco più del 10%; e meno di 5 hanno votato Berlusconi, che dunque non ha superato il 9%; e per gli altri neanche spreco tempo a fare calcoli».
Non gli si può dar torto, e si capisce
l’orgoglio: «Negli ultimi vent’anni – dice – non siamo mai scesi al di sotto
del 15%, ma la crescita è stata costante e alle Politiche del 2013 abbiamo
sfiorato il 25%, diventando il primo partito». A renderlo tanto fiero, manco a
dirlo, sono i risultati che arrivano dalla Calabria e dall’Emilia Romagna, dove
il suo partito ha stravinto, con una maggioranza assoluta che supera di
parecchi punti il 50%, e tuttavia non dà segno di montarsi la testa, come fin
troppo spesso è dato osservare in chi si lascia andare a invereconde capriole
di giubilo per aver guadagnato appena una manciata di voti: «Erano elezioni
limitate solo a due Regioni, non ci illudiamo di poter riconfermare questo
exploit, e tuttavia – dice – si tratta di un risultato che consolida una linea
di tendenza che ci vede ormai da anni come il partito di gran lunga più amato
dagli italiani».
Non gli si può dar torto, ma provarci è un
dovere morale. Non ha importanza quale sia il partito del tizio che senta questo
dovere, ma all’astensionista arriva puntuale la regina delle obiezioni: «Quello
dell’astensionismo non è un partito». «Sì, vabbe’ – è la risposta – sarà
partito il tuo. Chiamalo comitato elettorale, chiamalo piede di porco per
forzare il coperchio dell’erario, chiamalo proprietà privata di un leader, ma
non chiamarlo partito».
«Ma il voto di chi non vota vale zero».
«Sì, perché il tuo vale qualcosa? Voti la lista bloccata di un cosiddetto
partito che non mantiene neanche la metà della metà della metà delle promesse
che ti ha fatto in campagna elettorale, e ti senti protagonista per il solo
fatto di aver lerciato una scheda con un frego?».
«Ma chi si astiene perde ogni diritto di
lamentarsi». «E uno dovrebbe votare solo per poterlo fare avendone pieno diritto?
Succede niente ad abusarne senza averne il diritto? E fa differenza col farlo
avendone il diritto? Il lamento, dico, è il premio di consolazione che spetta a
chi sa di fare una cazzata, e la fa?».
«Ma l’astensionismo è il buco nero che
inghiotte tutto e il contrario di tutto: rabbia e strafottenza, destra e
sinistra che hanno perso ogni rappresentanza, qualunquismo di andata e di
ritorno…». «Il partito che hai votato tu, invece, ha un’identità bella precisa,
vero? Non dico un’ideologia, che non si usa più. Non dico una classe o un
blocco sociale, che con lo sfarinamento generale sarebbe come parlar di fisica
delle particelle a un summit della ’ndrangheta. Mi limito a un elettorato che
abbia un minimo di omogeneità sul piano culturale… Ma che dico, culturale? Sul
piano della piana logica dove due più due fa quattro: forse che il tuo partito
ce l’ha?».
«Resta il fatto che non votare è da
irresponsabili». «E tu indicami quale sia il voto di cui un qualsiasi italiano
possa dirsi responsabile appena un istante dopo aver fatto cadere la sua scheda
nell’urna».
E prova a dargli torto.
domenica 23 novembre 2014
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Poco
prima di dimettersi, un Presidente della Repubblica va a conferire dal Papa, proprio
come, poco prima di dimettersi, un Presidente del Consiglio va a conferire dal
Presidente della Repubblica. Certe notizie sono così disgustose che si possono
punire solo negando loro ogni commento.
venerdì 21 novembre 2014
mercoledì 19 novembre 2014
Grattarsi il culo
Grattarsi
il culo è operazione che implica il movimento combinato di almeno tre dozzine
di muscoli, dal cingolo scapolare alle punte delle dita, e l’attivazione di almeno
sette aree neuronali, tra corteccia motoria, cervelletto e gangli della base. Per
grattarselo, tuttavia, non c’è bisogno di conoscere tutto il complesso
meccanismo che coordina le fasi dell’operazione, né a conoscerlo ce lo si
gratta meglio.
Le
cose vanno a questo modo anche con certi mezzucci retorici: volgari quanto
grattarsi il culo, non hanno minore complessità strutturale, che tuttavia non c’è
bisogno di conoscere per farne uso, perché quasi sempre vengono impiegati come risposta
immediata a un stimolo cogente, d’impulso, con lo stesso automatismo che porta la
mano al culo, quando prude.
Un
esempio: «Ci sono due modi di stare in un
talk show televisivo. Il primo è quello prono al pubblico […] Poi c’è il
secondo modo. Provare a dire la verità. […]
Quando vado in un talk show in tv o alla radio io scelgo sempre la
seconda strada. […] Non ho mai cercato il consenso per il consenso. Preferisco la
verità». Si tratta della struttura portante di un lunghissimo post col quale
Mario Adinolfi prova a trarsi d’impaccio dalle obiezioni che gli sono state
rivolte dal pubblico in studio a L’aria
che tira (La7, 18.11.2014).
È
il mezzuccio retorico che mira a neutralizzare la sostanza delle obiezioni
eludendole e opponendo ad esse una «verità»
che sarebbe tale solo perché trova dissenso in quanto irritante, e che perciò
non avrebbe bisogno di altro argomento. In pratica: ho ragione per il solo
fatto di essere irritante. Espediente retorico tutt’altro che lineare, ma il
cui impiego non necessita di alcuna conoscenza del meccanismo che può renderlo efficace: ti prude, te lo gratti, ti passa.
martedì 18 novembre 2014
[...]
Un
tempo le organizzazioni criminali avevano altro stile. Se volevano qualcosa da
te, prima di passare alle brutte maniere ti mandavano un omino mite che
esponeva la richiesta con allusioni sfuggenti e con modi perfino eccessivamente
cortesi. Tutto è cambiato, oggi mandano un energumeno che prima ti rompe il
muso e poi ti espone la richiesta, e non c’è cosca che faccia eccezione, tutt’al
più ti mandano uno che sembrerebbe un omino mite, ma che in realtà è un
energumeno.
Beh, questa era la presentazione, adesso ecco l’intervista che
Sandro Magister ha concesso a ItaliaOggi. Da brividi. Alla prossima, Bergoglio
si ritrova il cianuro nel mate.
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