All’opinione
largamente prevalente che siano i cosiddetti valori a dare fondamento ad una società
si oppone quella di chi ritiene che essi ne siano solo il prodotto, peraltro
assai tardivo rispetto alla sua fondazione, che dunque deve attribuirsi ad
altro, in primo luogo ai cosiddetti bisogni. Nel primo caso, non è mai
abbastanza chiaro donde vengano, questi valori, né cosa riesca a renderli
fondativi in certi casi e in altri no, cioè cosa sia in grado di renderli
ampiamente condivisi o no, perché almeno una cosa è chiara: alcuni valori assumono
forza nella misura in cui sono assunti come tali a discapito di altri, e non c’è
accordo unanime su quali sarebbero fondativi e quali no, tutto dipende dal tipo
di società che esalta questi e degrada quelli. Tutto è più chiaro col ritenere
che una società li assuma in funzione dell’opinione che ha di se stessa, in
pratica che li produca – se mi è consentito esprimermi con un ossimoro – come moventi a posteriori, rappresentazioni
(non di rado sublimate) di ciò che l’ha resa tale. In quest’ottica i valori
stanno alla società come lo stemma sta a una nobile casata, rivestendo di
simboli la sua origine e i suoi caratteri, ma in fieri.
È chiaro che Giorgio Napolitano propenda per la prima
ipotesi, e questo un po’ stupisce, perché la sua formazione culturale dovrebbe
portarlo a propendere per la seconda. Però stupisce solo un po’, perché la
tradizione di scuola marxista incorre spesso in contraddizione quando distingue
tra struttura e sovrastruttura. Così riusciamo a chiudere un occhio quando
afferma: «Nella prima metà del secolo
scorso c’è stata in larga misura, nella nostra Europa, un’eclisse di quei
valori, democratici e solidaristici, determinata dall’avvento e dal feroce
dominio del nazifascismo. E ciò di cui discutiamo e ci preoccupiamo oggi è, sia
pure in ben altro contesto, di nuovo un oscuramento di parametri essenziali del
comune vivere civile, tra i quali il rispetto della cultura e la cultura del
rispetto: rispetto, innanzitutto, delle istituzioni e delle persone. Rischiamo,
nella fase attuale, il logoramento e la perdita delle conquiste del periodo di
riscatto e di avanzamento conosciuto dall’Europa nella seconda metà del
Novecento».
È un’analisi che ci attenderemo da un crociano: la storia come
manifestazione di uno spirito immanentizzato, il progresso come sua intrinseca
natura, l’«oscuramento» come
parentesi, come incidente, come transitorio smarrimento di valori che sono
assoluti e non il risultato di ciò che una società elabora in forma di consapevolezza.
Una relazione tra società e valori come quella che sembra suggerirci Giorgio
Napolitano porta inevitabilmente a fraintendere la portata degli eventi che
sono in gioco in una crisi (dando al
termine il significato che assume in ambito scientifico): si fa una madornale
confusione tra cause ed effetti, come appare evidente dalla necessità di dover
ricorrere ad una peraltro non meglio definita «patologia dell’anti-politica» per spiegare – arrivando fin quasi a
giustificare – le colpe della politica.
È di tutta evidenza che un sintomo
venga considerato agente patogeno, ma quello che maggiormente sconcerta,
tuttavia, è il ricorso ad una categoria come quella dell’«anti-politica», che appartiene alla più becera pubblicistica.
Volendo riprendere l’allegoria che qui ci viene proposta, sembra che Giorgio
Napolitano pensi che l’organismo soffra a causa della febbre, senza porsi il
problema di quale microrganismo l’abbia causata, tantomeno afferrando la funzione
che la febbre ha in un organismo affetto da un processo infettivo. Giacché
sarebbe vilipendio del Capo dello Stato anche il semplice sospetto che si sia
bevuto il cervello, si è costretti a pensare che Giorgio Napolitano voglia
continuare a esorbitare dai poteri che contempla la Costituzione, anche agli
sgoccioli del suo mandato, come a lasciare un protocollo d’intesa alle forze
politiche che fanno sistema: liquidare come «patologia
eversiva» ogni momento di critica allo status quo.
Di fatto, dalla crisi sarebbe possibile uscire solo col
recupero di quei valori che sarebbero stati smarriti proprio dai partiti che
fanno sistema. Perché li avrebbero smarriti? Non si sa, a stento ci viene
suggerito il come. Ci sarebbe stato «uno
spegnimento delle occasioni di formazione e di approfondimento offerte nel
passato dai partiti in quanto soggetti collettivi dotati di strumenti specifici
e qualificati. È stato questo un fattore decisivo anche di impoverimento
morale. Perché la moralità di chi fa politica poggia sull’adesione profonda,
non superficiale, a valori e fini alla cui affermazione concorrere col pensiero
e con l’azione. Altrimenti l’esercizio di funzioni politiche può franare nella
routine burocratica, nel carrierismo personale, nella ricerca di soluzioni
spicciole per i problemi della comunità, se non nella più miserevole
compravendita di favori, nella scia di veri e propri circoli di torbido
affarismo e sistematica corruzione».
Con tutto quello che ha firmato in
questi ultimi otto anni, Giorgio Napolitano si sente innocente? Ma come si
possono recuperare questi valori? Non si sa, a stento ci viene suggerito che si
dovrebbe «dare nuova vita e capacità
diffusiva a quei valori [con] una
larga mobilitazione collettiva volta a demistificare e mettere in crisi le
posizioni distruttive ed eversive dell’anti-politica, e insieme, s’intende, a
sollecitare un’azione sistematica di riforma delle istituzioni e delle regole
che definiscono il ruolo e il profilo della politica». Come nella premessa
posta all’inizio: donde verrebbero ripresi questi valori? E come potrebbero
essere rivivificati con una riforma delle istituzioni e delle regole che porta quanto
mai lontano dal modello di società che li produsse? Non si capisce.