C’è
chi sostiene che il prossimo Presidente della Repubblica conterà infinitamente meno
di quanto ha contato quello attuale, perché riforma del Senato e nuova legge
elettorale rafforzeranno di fatto a tal modo i poteri dell’esecutivo da far venir
meno ogni ragione che ha costretto Giorgio Napolitano ad assumere un ruolo che
a molti è parso esorbitare dalle prerogative che la Costituzione assegna al
Capo dello Stato. Volendo, si può dire pure in altro modo: l’instabilità
politica ha offerto a Giorgio Napolitano il pretesto di esorbitare tanto spesso
dalle prerogative che la Costituzione assegna al Capo dello Stato al punto da poter
dettare una sua agenda, e che questa ha portato ad un riassetto istituzionale
che si traduce in un presidenzialismo di fatto, con un Presidente del Consiglio
che potrà contare su un enorme premio di maggioranza e un Parlamento ad una
sola Camera in cui siederà una maggioranza di nominati, e nominati da lui. Volesse
o non volesse questo, Giorgio Napolitano l’ha reso possibile, perciò suonano
francamente scandalose le affermazioni che ha fatto nel suo discorso alla cerimonia
per lo scambio degli auguri di fine anno con i rappresentanti delle
istituzioni, delle forze politiche e della società civile, l’altrieri.
«Gli
auguri che quest’anno ci scambiamo s’intrecciano strettamente con gli impegni
che tutti condividiamo per il superamento degli aspetti più critici della
situazione economica e sociale del Paese. E qui si collocano le difficoltà che
ancora si oppongono alla realizzazione dei cambiamenti di indirizzo e
strutturali programmati dal governo e sottoposti al vaglio delle Camere». Chi
ha deciso questi cambiamenti, e in virtù di quale investitura del voto
popolare? Dov’è la maggioranza del Paese che si è mai espressa in favore del
presidenzialismo e del bipartitismo come soluzioni degli aspetti più critici
della situazione economica e sociale dell’Italia? Ed è corretto definire
difficoltà le resistenze che in Parlamento si oppongono a questo disegno?
«Non
credo sia stata arbitraria la percezione, certo non solo da parte mia, che in
quest’anno abbiamo ragionato, discusso e operato in una dimensione unica, italiana
ed europea. I problemi dell’Italia, e le responsabilità del soggetto politico e
istituzionale Italia, hanno fatto oggetto di serrata attenzione in sede
europea, e discutendo tra noi dei nostri problemi non abbiamo potuto separarli
dal contesto europeo di cui pure ci sentiamo protagonisti». Sì, ma chi ha
deciso quale fosse il ruolo che l’Italia dovesse giocare in Europa? Che fine ha
fatto la tanto sbandierata intenzione di ridefinire i nostri impegni in sede
europea che è servita a Renzi per fronteggiare in termini concorrenziali le
spinte euroscettiche di Lega e M5S? Ci sentiamo protagonisti del contesto
europeo, ma non lo siamo. Se non abbiamo potuto separare i nostri problemi da
quel contesto, è perché in esso prendevano forma e dimensione in relazione a un
ruolo che non era affatto da protagonista.
«Il
forte consenso espressosi nelle elezioni del 25 maggio per il partito che guida
il governo italiano ha oggettivamente garantito accresciuto ascolto e autorità
all'Italia nel concerto europeo, come si è visto nel peso esercitato dal
Presidente del Consiglio Matteo Renzi nel concorrere a soluzioni unitarie e
significative nella definizione dei nuovi vertici dell’Unione, e innanzitutto
nella composizione e nella guida della nuova Commissione. E lì si è anche
espresso un rilevante riconoscimento per il ruolo del nostro Paese nella
persona del ministro degli esteri Federica Mogherini chiamata a rappresentare,
a far crescere e a dirigere la politica estera e di sicurezza comune europea».
Cazzate, medaglie di latta: contiamo pochissimo in Europa, e non meritiamo di
contare di più, perché, di là dai maquillages, debito, fisco e spesa pubblica
sono piaghe, e il pil ristagna, e la crescita è sotto zero, e siamo fermi da
più di vent’anni, e la colpa è di una classe politica che Giorgio Napolitano
trova ancora il coraggio di difendere.
«Il
tema delle riforme necessarie per determinare condizioni idonee allo sviluppo
degli investimenti, alla creazione di nuovo lavoro, alla maggior produttività e
competitività delle nostre economie, è stato, in un passato anche recente,
prospettato con qualche nebulosità in ripetute discussioni nelle istituzioni
europee, ma ha oramai assunto dei contorni precisi, un’ampia articolazione
concreta. E in questo senso bisogna considerare il programma di riforme messo a
fuoco dal Presidente Renzi e dal suo governo. Riforme su cui ogni forza
politica potesse misurarsi, senza pregiudiziali e in termini di confronto tra
visioni e approcci seriamente sostenibili. Si tratta di un programma vasto, da
scaglionare nel tempo complessivo che lo stesso governo ha voluto assegnarsi:
ma che ha dato il senso di quale cambiamento fosse divenuto indispensabile, e
non più eludibile o rinviabile». In quale punto della Costituzione sta scritto
che il Presidente della Repubblica, da rappresentante dell’unità nazionale, può
farsi garante presso la Nazione di un esecutivo guidato da un tizio che non ha
mai avuto un solo voto in un’elezione politica e ha raccolto solo il 23,3% dei
consensi tra gli aventi diritto al voto per delle consultazioni europee? Non è
un avallo costituzionalmente nullo e politicamente illegittimo?
Sul
resto non vale neanche la pena di spendere un commento: lessico da attore
politico della Prima Repubblica speso in favore di una Terza Repubblica da
incubo, nella quale Palazzo Chigi governa a colpi di decreti in bianco. Prima
Giorgio Napolitano si dimetterà e meglio sarà: il peggio che poteva fare, l’ha
fatto, e con questo discorso l’ha vidimato. Se poi il suo successore conterà
assai meno, sarà un bene, come minimo ci risparmieremo di vedere ancora il
Quirinale come regia politica. Ma sarà un bene che avremo pagato carissimo.