lunedì 2 marzo 2015
Corrispondenze
Questo
post è una lettera aperta in risposta a chi mi ha scritto dicendo che mi stima
tanto, mi legge sempre con piacere, bla bla bla, ma s’incazza quando nego che
le radici d’Europa siano cristiane, perché gli sembra che io voglia chiudere gli
occhi su una realtà di fatto, e questo gli dispiace, perché gli pare che in
questo modo io faccia torto alla mia intelligenza. Capirete bene che non posso
lasciare nell’afflizione un lettore che mi insulta in modo così carino, dunque eccomi
qui. Sarà un post lungo e noioso, che almeno a chi mi legge già da tempo
consiglio di
saltare senza indugio, perché qui ripeterò cose già dette.
Ciò
premesso, caro ***, vogliamo innanzitutto metterci d’accordo su quello che
debba intendersi con «cristiano»? Da quello che mi scrivi («in Europa ogni due
passi c’è una chiesa, l’arte è piena di cristi e di madonne…») devo supporre tu
voglia intendere quanto attiene al cristianesimo, dunque si tratterebbe di
radici non più vecchie di venti secoli. Ammesso e non concesso che prima, col
mondo greco e con quello romano, non si potesse propriamente parlare di Europa
o che, in subordine, il mondo greco e quello romano siano stati solo il terreno
dal quale le radici di cui parliamo abbiano tratto un qualche nutrimento, di
quale cristianesimo parliamo?
Non
di quello primitivo, suppongo, che nasce in Palestina, terra che con l’Europa
c’entra assai poco, come corrente dell’ebraismo, in opposizione alla gerarchia
che reggeva il Tempio di Gerusalemme, e nemmeno è detto ancora cristianesimo.
Ti risparmio la sinossi delle convinzioni che nutrivano i primi seguaci del
movimento, d’altronde ci sarebbe da perderci la testa per le differenze anche
marcate riscontrabili tra una comunità e l’altra. Mi limito a dirti che solo un
buontempone potrebbe intravvedere in quell’embrione qualcosa che abbia a che
fare con quella che a quei tempi già si chiamava Europa, men che meno con
quella che sarà l’Europa nei secoli successivi, e perfino con lo stesso cristianesimo
di là a qualche decennio.
E
allora sarà che le radici cristiane dell’Europa debbano essere cercate nel cristianesimo
del II secolo? Nemmeno. In quel secolo il cristianesimo è ben diverso da quello
che verrà dopo: è religione di classi agiate che si predispongono alla fine dei
tempi, che è attesa da un momento all’altro. Ha già avuto qualche
contaminazione con l’ellenismo, ma rimane ancora una profezia biblica, nella
quale nessuna Europa precedente o da venire è neppure rappresentabile. Solo
verso l’inizio del III secolo, visto che la fine dei tempi non arriva, i
cristiani tornano a una vita più o meno normale, mentre si dovrà aspettare
ancora un altro secolo perché il cristianesimo si faccia cristianità, comunità
unitaria e gerarchizzata che mira a un’espansione senza limiti e a un controllo
pieno di tutte le attività sociali. Fino a qualche decennio prima, i cristiani
si disponevano sereni al martirio pur di non essere reclutati in un esercito,
mentre da qui in poi sarà prevista la scomunica per quelli che abbandonano il
servizio militare.
È
in questo periodo, con Costantino, che il cristianesimo si fa europeo,
innestandosi sul mondo romano, sulle sue tradizioni, la sua cultura, la sua
storia, parassitando radici che erano già lì da almeno una dozzina di secoli. A
parte, potremmo discutere di quanto il cristianesimo sia realmente cosa nuova o
originale: in realtà, nasce già come momento sincretico tra l’ebraismo e i movimenti
religiosi del più vicino oriente. Altrettanto a lungo si potrebbe discutere di
quanto questo parassitamento abbia cambiato la natura delle radici greche e
romane dell’Europa, ma, se dobbiamo leggere la storia senza usare la lente dal
verso sbagliato, dal III secolo in poi troviamo più romanità nel cristianesimo
che viceversa, d’altronde tutta la Patristica altro non è esegesi evangelica funzionale
alla sovrapposizione della Chiesa sull’Impero.
È
da questo punto in poi che viene meno la tolleranza verso le innumerevoli
varianti dottrinarie che convivono nel mondo cristiano e che inizia la lotta a
quelle che così diventano eresie. Di pari passo comincia a prender forma quella
imperializzazione del cristianesimo che sarà fatto compiuto solo tra il V e il
VI secolo, quando, neutralizzato per assorbimento quanto è riutilizzabile e non
sopprimibile del paganesimo, la cristianità assume i caratteri distintivi che,
con gli aggiustamenti del caso, manterrà fino a quando non si comincerà a
metterla in discussione.
Il
cristianesimo impone il suo segno sulle bandiere d’Europa per soli dieci
secoli, dodici a volerci mantenere larghi. Dieci-dodici secoli nei quali può godere della pienezza dei mezzi necessari a
impregnare di sé la vita di milioni di individui, dalla culla alla tomba, con
la pervasività di una violenza che non risparmia niente. Non si tratta di
«radici», caro ***, si tratta di rami e foglie che non lasciano spazio ad
altro, e fra i quali ogni nido assume la forma del bozzolo, fuori dal quale è
semplicemente negata la possibilità di vita e di pensiero. Nessuno nega che lo
spazio storico e geografico detto Europa sia ingombro di questa vegetazione –
non io, mai fatto, anzi – ma affermare che l’Europa o sia cristiana o non sia,
onestamente, mi pare una bestialità.
In
quanto al fatto che la sostanza antropologica solitamente detta Europa rechi il
segno indelebile del cristianesimo, che neanche il suo avanzato stadio di
secolarizzazione è fin qui riuscito a rendere indistinguibile, nulla quaestio:
si tratta di quanto resta di una conquista, di tratta nel marchio a fuoco
impresso sulle carni dell’animale. Cosa diversa è voler dare a questo segno un
senso diverso: le assurdità, le ambiguità e le contraddizioni che usque ab ovo
troviamo nel cristianesimo, e che pure acquistano una loro logica nel darsi in
elementi dialettici all’interno di una storia, restano quel che sono anche nel
loro precipitato, e dunque prefigurano la crisi del cristianesimo per cause che
gli sono intrinseche, prima fra tutte il nodo tra immanenza e trascendenza
stretto nel dogma dell’incarnazione, perché un Dio che s’incarna non può che
fare una brutta fine, anche dichiarandone la resurrezione. In secondo luogo, dare
al Dio unico un carattere trinitario: torna utile a inverare nella storia il
suo corpo mistico, ma lo espone pure a pulsioni disgreganti.
Come
vedi, caro ***, parlare di «radici cristiane dell’Europa» è un’operazione
storiografica – insieme – ingenua e strumentale. Che di tanto in tanto venga riproposta, francamente, che palle.
P.S.
Ho cercato di contattarti per avere il permesso di riprodurre il testo della
tua lettera insieme a questa risposta, ma non mi hai dato cenno, così mi sono
risolto a sintetizzarne il contenuto della premessa e a lasciarti nell’anonimato.
domenica 1 marzo 2015
[...]
Quarantaquattro
tra deputati e senatori dei gruppi del Pd (trentadue), di Area popolare
(cinque), di Per l’Italia-Cd (cinque), di Scelta civica (uno) e di Lega Nord e
autonomie (uno) scrivono una lunga lettera a Matteo Renzi, oggi sulle pagine di
Avvenire, perché nel «Piano per la buona scuola» che il governo si appresta a
portare in Parlamento vi siano misure di sostegno economico alla scuola privata,
rammentandogli che fanno parte della maggioranza che sostiene il governo e
producendo gli argomenti, i soliti, che fin qui sono bastati ad eludere l’art. 33 della
Costituzione, laddove esso recita che «enti e privati hanno il diritto di
istituire scuole ed istituti di educazione, [ma] senza oneri per lo Stato».
Non
c’è dubbio che analoga iniziativa sarà presa anche da un nutrito numero di
parlamentari del centrodestra, e che gli argomenti saranno identici, non
escluso quello usato ogni volta che al governo c’è una coalizione almeno
nominalmente di centrosinistra, e che torna anche in questa lettera, preso di
peso da un articolo di Antonio Gramsci, pubblicato su Il Grido del Popolo il 14
settembre 1918, come ad ingiungere di onorare la fedeltà ad una prestigiosa tradizione
culturale e politica: «Noi socialisti – scriveva Antonio Gramsci – dobbiamo
essere propugnatori della scuola libera, della scuola lasciata all’iniziativa
privata e ai comuni. La libertà nella scuola [è possibile solo se la scuola] è indipendente
dal controllo dello Stato» (tra parentesi quanto è tagliato nella lettera
pubblicata su Avvenire).
Orbene, occorre far presente che di denaro pubblico in
favore di questa libertà non v’è traccia, né in questo passaggio, né nel resto
dell’articolo. Anzi, a dire il vero, quanto precede il brano citato dagli
appellanti chiarisce il contesto dal quale è estrapolata l’affermazione di
Antonio Gramsci, dandole il suo corretto significato: «Ferve nei giornali e
nelle riviste cattoliche la discussione sulla scuola libera. I cattolici
propugnano l’abolizione del monopolio di stato sulla scuola, perché sperano che
il monopolio passi nelle loro mani. Noi crediamo che i cattolici sbaglino nel
fare i conti: è vero che i preti, in quanto godono di uno stipendio e hanno
tutta la giornata libera, si troverebbero in condizione di partenza privilegiata
nel gioco della concorrenza. Ma appunto il pericolo di un assorbimento dell’attività
scolastica da parte dei cattolici metterebbe automaticamente in discussione il
problema del fondo culti e porterebbe all’abolizione di questo istituto feudale».
Niente denaro pubblico alle scuole private, dunque, ma addirittura necessità di
mettere in discussione l’erogazione dei fondi che per altre ragioni lo stato concede
al clero, ad evitare che tale privilegio lo possa avvantaggiare in una
concorrenza che altrimenti sarebbe sleale. E tuttavia è probabile che Matteo
Renzi accoglierà gli argomenti degli appellanti e tra tutti troverà che quello
più forte, almeno sul piano della comunicazione ai gonzi di cui si parlava nel post qui sotto, sia proprio quello di Antonio Gramsci, dai firmatari della lettera
usato in modo mistificatorio, ma da Matteo Renzi riusato per mera ignoranza. A
stento avrà letto il Manuale delle Giovani Marmotte, figuriamoci gli scritti di
Antonio Gramsci.
I gonzi di una volta e i gonzi d’oggi
Può
darsi sia l’età a ingannarmi, ma a me pare che i gonzi di una volta fossero più
furbi dei gonzi d’oggi. Sempre gonzi erano, sia chiaro, ma mi sembra che sapessero
difendersi meglio da chi intendesse infinocchiarli. Non di troppo, a dire il
vero, ma mi pare che la differenza sia sensibile, e cosa faccia questa
differenza, è presto detto: dinanzi a un tentativo di infinocchiamento non del
tutto consentaneo, i gonzi di una volta presentivano d’esserlo, subodoravano –
poi, semmai, serviva a poco, ma chi voleva infinocchiarli doveva metterci più
impegno, e almeno la partita diventata interessante – mentre quelli d’oggi
respingono con forza ogni presentimento, consentendo che l’infinocchiamento sia
comunque efficace, e spesso allora non c’è partita. Direi che i gonzi d’oggi,
insomma, siano più gonzi di quelli di un tempo perché peccano di un maggiore orgoglio
e che questo – paradossalmente – dipenda dai deleteri effetti di quella che si
è solita chiamare istruzione di massa, che poi è cosa che con l’istruzione c’entra
poco, tanto meno con l’intelligenza, men che meno con l’intelligenza che riesce
a dare la misura dei propri limiti, riducendosi per lo più all’acquisizione di
quell’illusoria sensazione di una padronanza di se stessi che nei fatti
accentua la vulnerabilità ai congegni persuasivi dell’infinocchiatore: il gonzo
di una volta era ignorante, e sapeva di esserlo, e non aveva nessuna difficoltà
ad ammetterlo, e questa consapevolezza si traduceva in una maggiore cautela;
oggi, invece, il gonzo fa difficoltà ad ammettere i propri limiti anche se
stesso, e ostenta sicurezza, con quanto ne consegue nel darsi interamente al
proprio istinto, che ovviamente è l’istinto del gonzo.
Prendete, per esempio,
la questione del volontariato. L’istruzione di massa ha convinto il gonzo che
lo stato non può – e forse neanche deve – far fronte ai bisogni essenziali dei
miserabili, e che a questo può – addirittura preferibilmente deve – supplire l’attività
benevolente del volontariato, che tuttavia non può farsene interamente carico,
sicché necessita di un aiuto, e da chi se non dallo stato? Al gonzo si fa
credere che questo si traduca comunque in un risparmio, e il gonzo, oggi, ci
crede. Al gonzo d’una volta, invece, mancava il concetto di sussidiarietà: alla
richiesta di denaro pubblico per fare beneficenza avrebbe drizzato le antennine,
fottendosene altissimamente di poter apparire cinico, ancor meno di rivelarsi
ignorante sul ruolo dei cosiddetti corpi intermedi. Il gonzo d’oggi non se lo
può permettere.
[...]
Tutto
secondo natura, a quanto pare, ma mettendomi nei panni di un Ferrara o di un
Adinolfi – diversa sartoria, ma stessa stoffa, stesso taglio, stessa taglia, stesso drop – la notizia mi dà una
fastidiosa inquietudine: c’è questa depravata sovrapposizione di tempi che
dovrebbero essere ben distanti, e poi, metti caso che la mamma abbia partorito
anche solo un quarto d’ora dopo la figlia, viene a crearsi la vertigine di uno
zio più giovane del nipote, e queste sono cose che in quei panni danno un
irritante fremere di ciccia.
giovedì 26 febbraio 2015
E so che suona come una bestemmia
Le
schifezze che Matteo Renzi si rivela in grado di far approvare da un Parlamento, la cui maggioranza è stata eletta con un programma che non le conteneva, sono le
stesse che erano nel programma di un centrodestra che non era in grado di
farle diventare leggi, nemmeno quando stravinceva le elezioni, perciò, se Silvio
Berlusconi riesce a mettere insieme il quanto basta per avere una concreta possibilità
di battere Matteo Renzi, faccio un serio pensierino all’eventualità di dargli
il mio voto, e so che suona come una bestemmia, non è il caso di farmelo presente, ma meglio sorbirsi in ascensore la scoreggia di uno che mangia solo topi morti o essere suo ospite a colazione?
Dedalo di specchi
Daniele
Luttazzi non ha ancora pienamente elaborato il trauma della gogna che subì
cinque anni fa, ma pare sia intenzionato a risolvere la cosa sublimando
piuttosto che rimuovendo e poi fare i conti con una fastidiosa nevrosi, almeno
questa sembra l’operazione che affida a Bloom
(Edizione Il Fatto Quotidiano, 2015), plagio (che non può dirsi plagio) di un
Omero che si riprende il suo Ulisse dal
plagio (che non può dirsi plagio) di Joyce. Gioco di specchi, anche molto ben
fatto, in cui ci si dovrebbe ritrovare, ma solo a patto di perdersi davvero, onestamente
incapaci di dire dove finisca l’aedo e dove cominci il rapsodo. D’altronde
neanche si è certi che Omero sia davvero esistito, tutto il nero su
bianco l’avrà messo uno che ha spizzicato qui l’orecchiamento di un inno, lì il passaparola di
un mito. Ora, se usiamo lo strumento che ci consente di parcheggiare l’auto in un dedalo di specchi senza sfiorarne neanche uno (e qui cito lo spot pubblicitario
di una nota casa automobilistica, meglio dichiarare che la paternità della
metafora non è mia), toccherebbe a Joyce riprendersi l’Omero di Daniele
Luttazzi, e a Daniele Luttazzi toccherebbe stare zitto, senza lamentarsi d’essere
stato plagiato. Il cerchio quadrerebbe e potremmo finalmente riavere quello che
abbiamo perso cinque anni fa, che oggi è ancora perso in 105 pagine di note al
testo e in 103 voci bibliografiche.
L’avviso è il seguente
L’avviso
è il seguente: «A partire dal 23 marzo
2015 non sarà possibile condividere pubblicamente immagini e video sessualmente
espliciti o che mostrano nudità su Blogger. Le immagini di nudità sono
consentite se il contenuto è di pubblica utilità, ad esempio in un contesto
artistico, didattico, documentario o scientifico».
È uno di quei casi in
cui legislatore e giudice coincidono e quindi ogni possibile interpretazione della
norma non ammette contestazioni. Perché solo «immagini e video»? Se posto il file audio di un porno, altrettanto
«sessualmente esplicito», non incorro
in alcuna sanzione? E se il contenuto «sessualmente
esplicito» sta in un testo scritto? E quali sono i parametri che delimitano
i confini di ciò che è «artistico»
rispetto a ciò che non lo è? Chi avesse l’intenzione di postare un ciclo di
lezioni sul coito anale, naturalmente con supporto video, può legittimamente ritenersi
in ambito «didattico»? Saremmo ancora
in ambito «documentario o scientifico»
con un post che avesse l’intenzione di smontare la bufala della minzione
spacciata per squirting, giocoforza utilizzando spezzoni di film a luci rosse? E
poi quand’è che «immagini di nudità»
sono o meno «di pubblica utilità»?
Domande che naturalmente non ha senso porsi a
priori, perché a posteriori ha
forza di legge la discrezionale libertà di giudizio, che Blogger si riserva
grazie all’inevitabile ambiguità della norma. Inevitabile perché la materia ha
per sua natura contorni oggettivamente indefinibili, ma soggettivamente
nettissimi, anche se pure la soggettività è estremamente mobile sull’oggetto in
questione.
Penso sarebbe stato più onesto formulare l’avviso in questo modo: «A partire dal 23 marzo 2015 Blogger si
riserverà di censurare quanto ritenga possa provocarle noie. Giacché il sesso,
anche latamente inteso, è materia assai sensibile, comportatevi di conseguenza, ché
non vi sarà consentito sollevare obiezioni. D’altronde la pagina vi è offerta a
gratis, dunque cercate di non rompere il cazzo».
mercoledì 25 febbraio 2015
Massimo Fini, Una vita, Marsilio 2015
È
il suo libro migliore, davvero molto bello, a tratti commovente, ma d’una
commozione mai umida, mai ruffiana. Alla scrittura, da sempre d’ottima qualità,
qui s’unisce la materia, ricchissima, estremamente varia, sapientemente
ricomposta. Come per ogni autobiografia, e anche questa non fa certo eccezione,
si potrebbe, volendo, star lì a perdere un’infinità di tempo a dissezionare e a
catalogare reticenze che velano e iperboli che sparacchiano, ma la compiutezza
del narrato fa passare la voglia: Massimo Fini si racconta e si fa prendere
sulla parola. Una pessima copertina, occorre dire. Un sottotitolo fin troppo
indisponente, che scimmiotta – chissà se ironicamente o no – lo Zarathustra
nietzschiano, e dunque è civettuosamente depistante. Un indice dei nomi, poi, che in fondo a un’autobiografia sta sempre troppo come a piedistallo. Tolto questo, un libro eccezionale. Complimenti. E grazie.
martedì 24 febbraio 2015
O-oh!
O-oh!
A chi gli fa presente che sta a Palazzo Chigi senza essere passato per le urne,
il Cazzaro risponde che la nostra è una democrazia parlamentare, e che il
Presidente del Consiglio non viene eletto dal popolo, ma nominato dal
Presidente della Repubblica. Non sono passati neanche due anni da quando, a
Daria Bignardi che gli chiedeva: «Lei non
vorrebbe governare questo Paese?», rispondeva: «Sì, ma passando dalle elezioni, non dagli inciuci di Palazzo» (Le Invasioni Barbariche, 17.4.2013):
deve aver scoperto che non è indispensabile, ma solo dopo aver inciuciato il
necessario. Ora – o-oh! – scopre che la nostra è una democrazia parlamentare, ma
solo dopo aver scritto una riforma del Senato e una legge elettorale che
riducono il Parlamento a un vidimatore di decreti del Governo, per giunta con l’obbligo
di doverli vidimare prim’ancora di poterli leggere, sennò tutti a casa, e niente
ricandidatura, perché nella lista bloccata c’entri solo se vuole il Segretario
del Partito, che incidentalmente è pure Presidente del Consiglio: scopre che la
Costituzione esiste solo dopo averla ignorata, il Cazzaro. Come in certi paesini
siciliani, come presso certe tribù afghane: prima stupri la ragazza che ti
piace, e poi la chiedi in sposa.
lunedì 23 febbraio 2015
Li accarezzava come figli
Volevo
scherzare un po’ sulla faccenda confezionando uno di quei video della durata di
uno o due minuti ai quali mi lascio andare di tanto in tanto, ma poi ci ho
ripensato e ho buttato nel cestino tutto il materiale, salvando solo un fotogramma,
quello che ho riprodotto qui sopra. La faccenda nasce dall’Ansa Magazine #49 dello scorso 17 febbraio, a firma di Michela
Suglia, dal titolo Li accarezzava come
figli (Viaggio tra libri e cimeli del fondo Fallaci), e in particolare dall’intervista
al bibliotecario della Pontificia Università Lateranense, depositaria del
lascito che Oriana Fallaci ha espressamente destinato a quell’ateneo prima di
morire: «li accarezzava come figli» è
frase che esce di bocca proprio a lui e, almeno nel contesto in cui è
pronunciata, sembra che abbia a oggetto tutti i volumi della biblioteca della
scrittrice.
Ora non è che io voglia mettere in discussione l’amore che la
Fallaci potesse realmente avere per quei libri, ma credo che considerasse figli
solo quelli scritti da lei, peraltro presenti in diverse traduzioni tra i 627
volumi del fondo, sicché è lecito pensare che quelli di altri autori non superino i 500-550. L’espressione, d’altronde, torna in due interviste del 1990 e
del 1991 che è facile trovare su Youtube e in cui la scrittrice racconta, più o meno con le stesse parole, di come abbia inizialmente perso tempo prezioso nella sua lotta contro il cancro per dedicarsi alla traduzione
in inglese del suo Insciallah, ma che
non se ne pente, perché «tra me e i miei
libri c’è un rapporto materno e, tra la propria salute e quella del proprio
figlio, quale madre non sceglie la salute del proprio figlio?». Possibile
che tale affetto fosse pari a quello riservato ai libri di cui era in possesso
e di cui non era autrice? Non si può escludere, ma è più verosimile che la
Fallaci abbia espresso lo stesso concetto anche al bibliotecario della
Lateranense e che questi abbia equivocato l’affermazione come estesa a tutti i
volumi della sua biblioteca.
Sia lecito stupirci, en passant, del fatto che
fossero assai meno di quanti ci saremmo aspettati in possesso di chi posava a
vestale della civiltà giudaicocristiana. Neppure sulla qualità dei volumi, poi, sembra si possano rilevare elementi notevoli, se il volume più prezioso è una
malconcia copia del Delle rivoluzioni d’Italia
di Carlo Denina, per giunta in un’edizione posteriore alla morte dell’autore.
Il valore del lascito, insomma, sembra tutto e solo nel fatto che questi libri
siano stati di proprietà della Fallaci, e che qualcuno rechi qualche nota
autografa, qualche altro un post-it a far da segnalibro. Il sospetto è che si
voglia accrescerne il pregio spacciandoli come figli, mentre dei veri figli erano
tutt’al più compagni di scaffale.
[...]
Se
non avesse rotto il patto del Nazareno, «errore
blu» che lo ha lasciato senza uno «scudo»
politico, ora Silvio Berlusconi non rischierebbe «la gogna della galera» che la Procura di Milano potrebbe
infliggergli con una nuova accusa, quella di aver pagato i testi chiamati a
deporre nel processo d’appello sul caso Ruby, «coriacea e subdola riproposizione del teorema dell’Arcinemico, del
male assoluto, dell’uomo da sfasciare», che alla vigilia della pronuncia
della Cassazione sull’assoluzione impone una «nuova intimidazione con procedure oggettive, ai sensi del codice»,
il che implica necessariamente «il “pentimento”,
cioè la resa al pm, di qualche teste utile a reimpostare il caso».
Così Giuliano
Ferrara (Il Foglio, 23.2.2015), ma
chi vuol bene a Silvio Berlusconi può star sereno, perché a difenderlo, nel
caso venga incriminato, sarà quasi certamente Franco Coppi, il quale si
guarderà bene dall’inguaiarlo con argomenti così idioti. Provate a immaginare: «Signori della Corte, il mio assistito è
chiamato a rispondere delle accuse che gli vengono mosse solo perché ha avuto
qualche ruggine con Matteo Renzi, sennò col cazzo che il pm avrebbe osato metterlo
in galera, sarebbe bastata una telefonatina e oggi non sarebbe in quest’aula,
ma a riscrivere la Costituzione insieme al Royal Baby». C’è da supporre che il processo non avrebbe storia.
[...]
Nel
caso dei tweet di Gasparri in risposta alle dichiarazioni di Renzi sulla
ventura riforma della Rai, c’è da rammaricarsi che, dalla preistoria ad oggi, la
disputa a colpi di selce aguzza con la quale i nostri progenitori si sfondavano
a vicenda il cranio sia diventata un inoffensivo scambio di battute: invece
della povertà dei rispettivi argomenti sarebbe assai più edificante veder da quelle zucche schizzare la pupù, così non rimarremmo nel dubbio su quale ne contenga di più.
Dominus Iesus, 15 anni dopo
Al
pari di ogni altro strumento, anche la parola muta nel tempo la specifica funzione
per la quale è stata creata per l’ampliarsi o il ridursi delle occasioni in cui
ne è richiesto l’uso. Così è per la vis
che sta in violentus, dove l’-olentus è quasi pleonastico ad indicare
l’eccesso di energia. A differenza della fortia,
infatti, che si esprime nella capacità di sostenere un peso e di resistere ad
una spinta, e perciò trova sinonimo nella solidità e nella fermezza che
implicano uno sforzo isometrico, la vis
è eminentemente dinamica, sicché la violenza
non sta in una forza che sia solo «soverchia,
[ma che sia pure necessariamente] messa
in moto» (Niccolò Tommaseo), per lo più nell’impeto di un attacco potenzialmente
distruttivo di tutto ciò che le si oppone.
Ciò detto, come altrimenti che
violenta potremmo definire la fede che si dà mandato di far trionfare una
verità su tutte? Non si ha, questo trionfo, senza che ogni altra verità venga distrutta
riducendola a menzogna, e questo rende ineluttabilmente violento il mezzo
efficace al conseguimento di tal fine, anche quando è dichiarato esclusivamente
persuasivo.
Si prenda il Corano: «Non v’è
costrizione nella religione, giacché la retta via ben si distingue dall’errore»
(2, 256); «Se Dio volesse, tutti
crederebbero in Lui. Tu pensi sia necessario costringerli?» (10, 99); «A chi porta la parola di Dio spetta solo il
trasmetterla» (5, 99). Si tratta di versetti che solo in apparenza
contraddicono i tratti dell’jihad che si fa truculento quando da lotta
interiore per raggiungere il perfetto grado della fede diventa guerra santa
contro gli infedeli, perché il dinamismo della vis proselitaria è sempre per sua natura pleomorfo e opportunista.
Si pensi al Manuele II Paleologo caro a Ratzinger: afferma che «chi vuole condurre qualcuno alla fede ha
bisogno della capacità di parlare bene e di ragionare correttamente, non invece
della violenza» (Dialoghi con un persiano,
VII, 93), ma nella storia del cristianesimo questo sta senza eccessivo
imbarazzo accanto ai battesimi forzati di ebrei, indios e neonati.
Tutto sta,
in fondo, nella forma che assume la violenza e nella sensibilità a coglierla
quando è dissimulata. Così, mentre si preferisce definire «guerra santa» la
catena degli eventi che scuotono il mondo islamico, dimentichiamo che tra
qualche mese ricorre il 15° anniversario della Dichiarazione «Dominus Iesus» della Congregazione per
la Dottrina della Fede, riaffermazione della legittimità della vis proselitaria che la Chiesa di Roma
non ha mai rinunciato a esercitare al fine di estendere κατά όλος il suo credo, giacché la sua missione non si esaurisce
nell’annuncio evangelico, ma nell’«instaurarlo
tra tutte le genti» (18).
Certo, «al
termine del secondo millennio cristiano questa missione è ancora lontana dal
suo compimento» (2), per giunta certi strumenti del passato sono diventati
inutilizzabili. Si pensi a come, per secoli, colonialismo ed evangelizzazione sono
andati a braccetto e si prenda atto che non è più possibile: occorre che la vis perda il dinamismo
della conquista militare e potenzi il carattere isometrico della fortia che resiste alla conquista
militare dei competitori.
«Circa il modo
in cui la grazia salvifica di Dio […] [possa] arriva[re con profitto] ai
singoli non cristiani [in queste mutate condizioni storiche]» (21), occorre
constatare che le cose si son fatte assai più difficili: giocoforza si deve ripiegare
sul dialogo, ma senza dimenticare che «la
parità, presupposto del dialogo, si riferisce alla pari dignità personale delle
parti, non ai contenuti dottrinali» (22). Siamo alla constatazione che «lavorare per il Regno vuol dire riconoscere
e favorire il dinamismo divino», ma che i tempi costringono al sospiro del «vorrei ma non posso». Poi, come sempre, ci si può far prendere dall’abbrivio, e allora si può arrivare a bestialità del tipo «la Chiesa non fa proselitismo» (Ratzinger, 13.7.2007).
[...]
Più
di mille musulmani, a Oslo, fanno da scudo umano ad una sinagoga, scandendo lo
slogan «no all’antisemitismo, no all’islamofobia». È una ben strana guerra di
religione, quella in corso.
domenica 22 febbraio 2015
Graziano Delrio, finissimo biblista
«Il
Signore gli disse: “Questa è la terra che ho promesso ad Abramo, a Isacco, a
Giacobbe, e che darò alla tua discendenza. Ho voluto che i tuoi occhi la
vedessero, ma tu non vi entrerai”. […] Quando morì, Mosè aveva centoventi anni»
Dt
34, 4-7
Radiomonitor
Pauroso
calo degli ascolti di Radio Maria. Fatta eccezione per il programma mattutino
di quel maestro della satira agrodolce che è padre Livio Fanzaga, sempre seguitissimo, pare che il restante
palinsesto abbia scassato la uallera a una discreta percentuale di
radioascoltatori.
sabato 21 febbraio 2015
Altro che figlio di Silvio Berlusconi
Abbiamo fatto un grosso torto a Matteo Renzi nel ritenerlo un cazzaro privo di una qualsiasi Weltanschauung: i decreti attuativi del suo Jobs Act rivelano che una visione del mondo ce l’ha ed è quella del ragazzotto che ha visto il babbo condannato sette volte tra cause civili e del lavoro per contributi non pagati, licenziamenti illegittimi, lavoro irregolare e roba simile. Da ingenui stavamo lì a tenerlo sotto la lente per cogliere i tratti genetici che lo rivelassero come figlio di Silvio Berlusconi, lasciandoci sfuggire l’ovvio, cioè che il nostro Presidente del Consiglio altro non è che il figlio di un furbastrello di provincia, uno che la sera, tornato a casa, affliggeva moglie e figli coi mugugni per le rotture di cazzo che gli procuravano i dipendenti. Altro non è che il figlio di Tiziano Renzi, il nostro Presidente del Consiglio, la Weltanschauung è quella.
Immaginate che uno storico...
Immaginate
che uno storico vi faccia una lezioncina sul ventennio che ha insanguinato l’Irlanda
del Nord nella seconda metà del Novecento spiegandovelo come una feroce disputa
tra cattolici e protestanti sulla natura della Grazia, sull’esistenza o meno
del Purgatorio e sull’argomento dell’autorità sufficiente delle Scritture:
suppongo che lo mandereste a fare in culo, vero? Avreste tutta la mia
comprensione, ma per un attimo fate finta di essere personcine educate, di quelle
che non mandano mai a fare in culo nessuno, e dite: come controargomentereste?
Probabilmente
direste che in campo, in quel caso, c’erano senza dubbio cattolici e
protestanti, ma che da qui ad affermare che tutto quel sangue – oltre tremila
morti su poco più di un milione di irlandesi – sia stato versato per motivi
religiosi ci vuole una gran testa di cazzo, perché pure per le personcine
educate, alla fin fine, est modus in rebus. Cattolici e protestanti, in Irlanda del Nord, si
sono massacrati a vicenda per contendersi un territorio, né più né meno come
hanno fatto nel resto d’Europa per oltre due secoli, tra il XVI e il XVII.
Passano alla storia come guerre di religione, certo, ma c’è qualche storico che
azzarda a dire siano state combattute tra chi sosteneva che per la salvezza
eterna può bastare la sola fede e chi affermava che invece sono indispensabili
le opere?
Ora, se lo sforzo di immaginazione non vi affatica troppo, fate finta
di essere a Parigi all’alba del 24 agosto del 1572, quando le strade erano
ingombre dei cadaveri di oltre 8.000 protestanti sgozzati dai cattolici (almeno
altri 15.000 saranno massacrati nei giorni seguenti, in città e nel resto della
Francia), e dite: definireste quella carneficina il risultato di una contesa
teologica? Certo, nella cattedrale di Notre Dame si canta il Salmo 138 («Non
odio forse, o Signore, quelli che ti odiano e non detesto forse i tuoi nemici?
Li detesto con odio implacabile come se fossero miei stessi nemici»), ma questo
vi può bastare per poter ragionevolmente concludere che la strage degli
ugonotti consumatasi la notte prima sia espressione di una fede barbara e
sanguinaria? Se il conflitto che oggi va consumandosi tra sciiti e sunniti vi
pare trovi ragion sufficiente in alcuni passi di alcune sure del Corano, vi
potrà bastare. Ma poi chiedete scusa allo storico che avreste mandato a fare in
culo.
venerdì 20 febbraio 2015
«Santità, che bell’anello!»
La
notiziola del bambino autistico di Valmontone cui si è impedito di seguire il
resto della scolaresca in visita al Vaticano mi fa tornare in mente la
barzelletta del ragazzo gay che il parroco non vuole portare all’udienza papale
temendo che le sue eloquenti movenze possano causare qualche increscioso imbarazzo, ma che alla fine
riesce a strappare il consenso, giurando che saprà contenersi. Tutto fila liscio fino a quando il ragazzo non
arriva dinanzi al papa, s’inginocchia e, baciandogli la mano, esclama con tono fin troppo esageratemente effeminato:
«Santità, che bell’anello!», e il papa gli risponde: «Non me ne parlare, sapessi come sono belli gli orecchini che gli fanno da parure, ma questi stronzi non me li fanno mai mettere». Nel caso del bambino
autistico, il motivo del divieto alla visita in Vaticano è stato il fatto –
dicono – che il caso fosse ingestibile. Come se Bergoglio non desse alla Curia
le stesse preoccupazioni.
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