Ho
voluto che passasse qualche giorno dalla diffusione del video che documenta la distruzione delle opere d’arte conservate nel Museo di Mosul ad opera degli
uomini dell’Isis, perché quello che avevo da dire era fuori tema rispetto alle
questioni sollevate, che d’altronde erano pienamente legittime, ma a mio
modesto avviso superficiali, e per superficiali non intendo dire vacue o
frivole, ma – letteralmente – poste in superficie al problema vero, che –
voglio dirlo subito – è relativo all’esegesi biblica di Es 20, 4.
Innanzitutto c’era da descrivere, più che discutere,
tutte le sfumature dell’orrore che un occidentale prova alla sola idea che un’opera
d’arte dell’antichità vada distrutta per mano d’uomo. Sacrosanto orrore,
indubbiamente. Fatta eccezione per il movimento futurista, infatti, e al
momento non mi viene in mente altro, tutta la storia dell’occidente è storia di
un vero e proprio culto delle opere d’arte del passato. E tuttavia mi è parso
che questo orrore sia stato solo la trama emozionale sulla quale venivano
intessute le questioni ritenute degne di attenzione. Erano originali, quelle
statue, o copie? Qual era il fine ultimo di quel video? E appena un po’ più sotto
a quell’orrore, ma ancora ben distante dal cuore del problema: tanta barbarie poteva
dirsi aderente al dettato coranico, dunque propria della natura dell’islam, o invece
era da considerare come ennesimo saggio di una lettura fondamentalista del Corano? Questione
un po’ più seria, questa, ma solo in apparenza, perché il Museo di Mosul è
stato costruito da musulmani, e da musulmani è sempre stato gestito, il che
naturalmente ci dice poco o nulla sulla correttezza della lettura che essi
hanno fatto del Corano relativamente al punto che vieterebbe la rappresentazione
di persone e animali («O voi che credete,
in verità, il vino, il gioco d’azzardo, gli idoli, le frecce divinatorie, sono
immonde opere di Satana» - Corano 5, 90), anche se un’idea possiamo farcela
sapendo che «idoli» è espresso dal
termine «ansab», che letteralmente è «pietra eretta» (statua, stele, obelisco),
e che nel Libro questa relativa agli «idoli»
non trova la solita ripetizione che è tipica di tutte le più importanti prescrizioni.
La faccenda è ancora più ambigua alla lettura degli hadith, che, com’è noto, sono
le sentenze che cercano di far chiarezza sui versetti del Corano che si
prestano ad interpretazioni controverse: secondo epoca e luogo, «ansab» conserva il significato
restrittivo del termine o accoglie estensivamente tutto ciò che è «immagine», con un ventaglio normativo relativamente
ampio, dalla tolleranza dell’«ansab»,
ma col divieto di produrlo, alla sua condanna, fino all’ordine di distruggerlo
(e in quest’ultimo caso siamo nella piena tradizione degli hadith di scuola
salafita).
Ciò detto, occorre chiederci donde possa trarre giustificazione
esegetica la distruzione delle immagini di persone e animali. Qui, senza entrare
troppo nello specifico, possiamo limitarci a dire ciò che vale in innumerevoli
altre occasioni: il Dio del musulmano è lo stesso Dio dell’ebreo e del
cristiano, come d’altra parte ebrei e cristiani non fanno fatica a riconoscere,
anche se le differenze – e significative – sorgono quando si tratta di dargli i
connotati del legislatore. L’islam, poi, si sente momento compiuto della vera fede che nell’ebraismo e nel cristianesimo vede stadi anteriori e ancora imperfetti.
Bene, nel caso del divieto di produrre «immagini», la primigenia fonte islamica è il Vecchio Testamento («Non ti farai idolo né immagine alcuna di quanto è lassù nel cielo né di quanto è quaggiù sulla terra, né di ciò che è nelle acque sotto la terra» - Es 20, 4). Si tratta del passaggio della consegna delle Tavole della Legge a Mosè, ed è stranoto che, mentre la tradizione che da Filone Alessandrino e Giuseppe Flavio è passata alla Chiesa antica, e dunque a quella greca-ortodossa e a quella riformata, fa del versetto un comandamento a sé stante, quella che la tradizione cattolica romana prende dalla lettura biblica di Agostino d’Ippona lo incorpora nel primo comandamento («Non avrai altri dei di fronte a me» - Es 20, 3), sicché «idolo» e «immagine» diventano «riproduzione di altra divinità che non sia io», e questo pone qualche problema con «quanto è quaggiù sulla terra» e «ciò che è nelle acque sotto la terra», laddove non si tratti di entità divinizzate. D’altronde è questa problematicità a prestarsi come argomento alla furia degli iconoclasti cristiani del VII e dell’VIII secolo. C’è da pensare che distruggessero opere d’arte antiche come abbiamo visto gli uomini dell’Isis distruggere quelle custodite nel Museo di Mosul. In entrambi i casi, anche se per vie diverse, l’ordine veniva dal Monte Sinai.
Bene, nel caso del divieto di produrre «immagini», la primigenia fonte islamica è il Vecchio Testamento («Non ti farai idolo né immagine alcuna di quanto è lassù nel cielo né di quanto è quaggiù sulla terra, né di ciò che è nelle acque sotto la terra» - Es 20, 4). Si tratta del passaggio della consegna delle Tavole della Legge a Mosè, ed è stranoto che, mentre la tradizione che da Filone Alessandrino e Giuseppe Flavio è passata alla Chiesa antica, e dunque a quella greca-ortodossa e a quella riformata, fa del versetto un comandamento a sé stante, quella che la tradizione cattolica romana prende dalla lettura biblica di Agostino d’Ippona lo incorpora nel primo comandamento («Non avrai altri dei di fronte a me» - Es 20, 3), sicché «idolo» e «immagine» diventano «riproduzione di altra divinità che non sia io», e questo pone qualche problema con «quanto è quaggiù sulla terra» e «ciò che è nelle acque sotto la terra», laddove non si tratti di entità divinizzate. D’altronde è questa problematicità a prestarsi come argomento alla furia degli iconoclasti cristiani del VII e dell’VIII secolo. C’è da pensare che distruggessero opere d’arte antiche come abbiamo visto gli uomini dell’Isis distruggere quelle custodite nel Museo di Mosul. In entrambi i casi, anche se per vie diverse, l’ordine veniva dal Monte Sinai.