Se
la generalizzazione è quello strumento della conoscenza del reale che sfrutta la
funzione del cosiddetto attenuatore di varietà per semplificare e velocizzare
il processo cognitivo ma per dare risultati spesso assai insoddisfacenti e
talvolta tragici, c’è una condizione del reale che ha in sé un intrinseco attenuatore di varietà che fa della generalizzazione lo strumento più efficace a coglierla,
e questo è il caso, sempre tragico, in cui la varietà si pone a ostacolo della
necessità di semplificare e velocizzare la costruzione della norma che si
ritenga necessario informi il reale. Accade quando il reale pone un problema di
difficile soluzione, con la tentazione di trovarla nella ridefinizione del
problema, adeguandolo a una soluzione già pronta, considerata quella buona per
ogni problema, e che si è soliti chiamare «soluzione di forza», dove la «forza»
non è quella che risolve il problema, ma quella che impone come migliore
soluzione quella di ridefinirlo, per lo più eludendone il senso, poco importa se in buona o in cattiva fede, per mera ignoranza o per disonestà intellettuale. Quando questa «forza» risulti efficace, il
cosiddetto attenuatore di varietà avrà per tempo avuto effetti su quanti si
saranno persuasi che questa sia la migliore soluzione: la generalizzazione sarà
nei fatti, non nel processo cognitivo che li prende a oggetto. Ecco perché è possibile
generalizzare, e dire, senza far loro alcun torto, che, al netto della faccia
più o meno di cazzo, i renziani sono tutti uguali: in essi la «soluzione di
forza» non è tanto agente, ma agita. Presto ancora, invece, per dire renziana la
stagione politica che attraversiamo: sarebbe una generalizzazione, che tuttavia
potrebbe realizzarsi nei fatti, se entrasse a regime l’attenuatore di varietà
ancora in fase di collaudo.
giovedì 12 marzo 2015
mercoledì 11 marzo 2015
Un’alta onda di merda
I
357 deputati che ieri hanno votato la più schifosa delle riforme costituzionali
possibili rappresentano meno di un terzo degli aventi diritto al voto, ma nella
Camera sono maggioranza in virtù di una legge elettorale che li ha portati in
Parlamento neanche da eletti, ma da nominati. Ricattabili come tutti i gregari
che non hanno altro peso se non quello che dà loro omogeneità di massa, oggi,
alle viste della legge elettorale che sostituirà quella vecchia, già dichiarata
incostituzionale, sono ancora più ricattabili di quanto lo fossero al momento
di entrare in Parlamento, buoni solo a dire sì quando gli è chiesto, meglio se
mostrandosi entusiasti, sennò giusto a mugugnare un poco e a dire sì lo stesso,
in nome della fedeltà alla banda, se non al capobanda. Solo per questo
dovrebbero vergognarsi di aver stravolto una Carta scritta da una Costituente
eletta col proporzionale, e che dunque era espressione di tutto il Paese, nella
quale peraltro sedevano uomini di cui un solo pelo del cazzo valeva più quanto oggi
valgano tre dozzine di renziani. E tuttavia si sa che i gregari sono capaci di
tutto tranne che di vergognarsi, sicché è del tutto inutile rammentare al
grosso di questi scellerati che nel loro programma elettorale non vi fosse
traccia di alcuna riforma costituzionale, men che meno di una che facesse tanto
schifo quanto quella votata ieri. Un’alta onda di merda passa sul Paese, sulla
sua cresta una tavola da surf, e sopra, al momento in perfetto equilibrio, un
imbecille drogato di autostima.
lunedì 9 marzo 2015
domenica 8 marzo 2015
[...]
Ecco l’ennesimo
cretino, stavolta prestigiosissimo, a sostenere che don Giussani odorava di giaggiolo
e di mughetto, mentre Cl ormai puzza di cacca. Oddio, non proprio in questi
termini, ma insomma, tenuto conto che l’occasione era un’udienza concessa ai
ciellini nel decimo anniversario della morte di don Giussani, sentirsi dire da
Bergoglio che «io sono di Cl» fa «spiritualità di etichetta» è come beccarsi l’aspersorio
sui denti.
Sia chiaro, almeno qui si è solidali con Cl: avendo letto tutto ciò
che don Giussani ha scritto, troviamo che la dolce mafiosità di Cl, a metà tra
holding e setta, sia fedelmente conseguente al suo
insegnamento. E perciò esprimiamo il nostro più sincero apprezzamento a Luigi
Amicone, che, intervistato da Virginia Della Sala per Il Fatto Quotidiano, con
le gengive ancora gonfie, abbozza come si conviene e molto giussanianamente ribadisce:
«Ci sono stati scandali, però non rinunciamo al potere». Che poi, alla faccia di ’sti cafoni che arrivano dalla fine del mondo a propinarci la loro catechesi da buzzurri, è sintesi perfetta di ciò che don Giussani ha misteriosoficamente celato in All’origine della pretesa cristiana (Jaka Book, 1988). Bravo Amicone! Io ci avrei messo pure un «a la mierda, hijo de puta», ma pure così va benone, ché i papi passano, ma la Compagnia delle Opere resta.
[...]
C’è
una vulgata di pretto stampo reazionario che in chi contesta i guasti e le ingiustizie
di un sistema vuole sia prudente sospettare il malintenzionato che vuole
costruirsene uno nuovo, a sua misura, non meno ingiusto, forse ancor più
guasto, e che perciò sui suoi argomenti debba pesare sempre il sospetto che un
domani migliore dell’oggi possa costare un dopodomani assai peggiore. È vulgata
che assume ruolo ancillare nella difesa dello status quo, e come tale, al pari
di ogni vulgata di pretto stampo reazionario, fa leva sulla diffidenza che è
propria di una visione pessimistica della natura umana, libera solo di
decadere, degradare, con ciò svelando la pericolosità, prim’ancora che l’illusorietà,
del progredire. Tutto molto tetro, non c’è dubbio, d’altronde l’esperienza ci
insegna che tanti fasulli innovatori sarebbe stato meglio abortirli quand’erano
ancora in pancia allo status quo, ma poi si sa che l’esperienza serve sempre a
poco o a niente, sicché non resta che far finta possa tornarci utile in un’altra
occasione, che peraltro non ci è data mai.
Il
lettore smaliziato avrà capito che queste riflessioni nascono a margine di una
lettura, e probabilmente si starà chiedendo chi sia l’autore di un libro capace
di istigare pensieri tanto insalubri. Dávila? Evola? Strauss? Macché, leggevo A viso aperto (Polistampa, 2008), di
Matteo Renzi: «Le norme di selezione per
i parlamentari – scriveva – assomigliano
pericolosamente ai criteri di alcune trasmissioni tv, ma la casa degli italiani
non è la casa del Grande Fratello, è il Parlamento della Repubblica. Ridateci
le preferenze, tenetevi la vostra Isola dei Famosi». E poco oltre: «Dentro al partito farò una battaglia per il
ritorno delle preferenze. È un diritto dei cittadini scegliere le persone e non
vedersele imposte». A quei tempi sarebbe bastato un ferro da calza, oggi
non basterebbe una divisione di alabardieri.
venerdì 6 marzo 2015
[...]
Riprendendo
la via per non so più quale paesino papà aveva deciso valesse la pena andare a
villeggiare – mi pare fosse Allumiere – gli chiesi perché non avesse dato un
cazzotto sul naso a quello scostumato che ci aveva trattato peggio che se
fossimo stati dei criminali. Si sarà espresso sicuramente con altre parole, ma la
risposta fu più o meno questa: «Lui’, fino a due giorni fa quello portava le pezze
al culo, e oggi indossa una divisa da carabiniere: non c’è da stupirsi che sia
un poco screanzato quando chiede libretto e patente: la vertiginosa ascesa da
morto di fame a rappresentante dello stato gli ha fatto perdere il controllo
della misura. Più che indispettire, intenerisce, via». Ripensandoci, a un
bimbetto di sette o otto anni sarebbe stato meglio dire che un cazzotto a quel carabiniere ci avrebbe rovinato la villeggiatura, e spiegando il perché. Voglio immaginare
dipenda da questa esperienza infantile il fatto che dinanzi all’arroganza e
alla prepotenza di chi rappresenta lo stato, prima di indignarmi e protestare,
io sia portato a cercare di spiegarmi quale sia il problema psicologico che le
genera. Questo mi pare possa essere il motivo per cui da queste pagine non ho
mai contestato nulla alla Boldrini: fino a due giorni fa era una comunistella
di Sel, e oggi è alla Presidenza della Camera, c’è da capirla quando sbaglia, passando oltre.
Lo stile
Ieri
sera, da Santoro, Faraone somigliava in modo impressionante al Cuffaro che in
un Maurizio Costanzo Show d’annata polemizzava con Falcone. Dev’esserci una
scuola che sforna quello stile, e lo stile è il manico della brocca.
giovedì 5 marzo 2015
In entrambi i casi, anche se per vie diverse
Ho
voluto che passasse qualche giorno dalla diffusione del video che documenta la distruzione delle opere d’arte conservate nel Museo di Mosul ad opera degli
uomini dell’Isis, perché quello che avevo da dire era fuori tema rispetto alle
questioni sollevate, che d’altronde erano pienamente legittime, ma a mio
modesto avviso superficiali, e per superficiali non intendo dire vacue o
frivole, ma – letteralmente – poste in superficie al problema vero, che –
voglio dirlo subito – è relativo all’esegesi biblica di Es 20, 4.
Innanzitutto c’era da descrivere, più che discutere,
tutte le sfumature dell’orrore che un occidentale prova alla sola idea che un’opera
d’arte dell’antichità vada distrutta per mano d’uomo. Sacrosanto orrore,
indubbiamente. Fatta eccezione per il movimento futurista, infatti, e al
momento non mi viene in mente altro, tutta la storia dell’occidente è storia di
un vero e proprio culto delle opere d’arte del passato. E tuttavia mi è parso
che questo orrore sia stato solo la trama emozionale sulla quale venivano
intessute le questioni ritenute degne di attenzione. Erano originali, quelle
statue, o copie? Qual era il fine ultimo di quel video? E appena un po’ più sotto
a quell’orrore, ma ancora ben distante dal cuore del problema: tanta barbarie poteva
dirsi aderente al dettato coranico, dunque propria della natura dell’islam, o invece
era da considerare come ennesimo saggio di una lettura fondamentalista del Corano? Questione
un po’ più seria, questa, ma solo in apparenza, perché il Museo di Mosul è
stato costruito da musulmani, e da musulmani è sempre stato gestito, il che
naturalmente ci dice poco o nulla sulla correttezza della lettura che essi
hanno fatto del Corano relativamente al punto che vieterebbe la rappresentazione
di persone e animali («O voi che credete,
in verità, il vino, il gioco d’azzardo, gli idoli, le frecce divinatorie, sono
immonde opere di Satana» - Corano 5, 90), anche se un’idea possiamo farcela
sapendo che «idoli» è espresso dal
termine «ansab», che letteralmente è «pietra eretta» (statua, stele, obelisco),
e che nel Libro questa relativa agli «idoli»
non trova la solita ripetizione che è tipica di tutte le più importanti prescrizioni.
La faccenda è ancora più ambigua alla lettura degli hadith, che, com’è noto, sono
le sentenze che cercano di far chiarezza sui versetti del Corano che si
prestano ad interpretazioni controverse: secondo epoca e luogo, «ansab» conserva il significato
restrittivo del termine o accoglie estensivamente tutto ciò che è «immagine», con un ventaglio normativo relativamente
ampio, dalla tolleranza dell’«ansab»,
ma col divieto di produrlo, alla sua condanna, fino all’ordine di distruggerlo
(e in quest’ultimo caso siamo nella piena tradizione degli hadith di scuola
salafita).
Ciò detto, occorre chiederci donde possa trarre giustificazione
esegetica la distruzione delle immagini di persone e animali. Qui, senza entrare
troppo nello specifico, possiamo limitarci a dire ciò che vale in innumerevoli
altre occasioni: il Dio del musulmano è lo stesso Dio dell’ebreo e del
cristiano, come d’altra parte ebrei e cristiani non fanno fatica a riconoscere,
anche se le differenze – e significative – sorgono quando si tratta di dargli i
connotati del legislatore. L’islam, poi, si sente momento compiuto della vera fede che nell’ebraismo e nel cristianesimo vede stadi anteriori e ancora imperfetti.
Bene, nel caso del divieto di produrre «immagini», la primigenia fonte islamica è il Vecchio Testamento («Non ti farai idolo né immagine alcuna di quanto è lassù nel cielo né di quanto è quaggiù sulla terra, né di ciò che è nelle acque sotto la terra» - Es 20, 4). Si tratta del passaggio della consegna delle Tavole della Legge a Mosè, ed è stranoto che, mentre la tradizione che da Filone Alessandrino e Giuseppe Flavio è passata alla Chiesa antica, e dunque a quella greca-ortodossa e a quella riformata, fa del versetto un comandamento a sé stante, quella che la tradizione cattolica romana prende dalla lettura biblica di Agostino d’Ippona lo incorpora nel primo comandamento («Non avrai altri dei di fronte a me» - Es 20, 3), sicché «idolo» e «immagine» diventano «riproduzione di altra divinità che non sia io», e questo pone qualche problema con «quanto è quaggiù sulla terra» e «ciò che è nelle acque sotto la terra», laddove non si tratti di entità divinizzate. D’altronde è questa problematicità a prestarsi come argomento alla furia degli iconoclasti cristiani del VII e dell’VIII secolo. C’è da pensare che distruggessero opere d’arte antiche come abbiamo visto gli uomini dell’Isis distruggere quelle custodite nel Museo di Mosul. In entrambi i casi, anche se per vie diverse, l’ordine veniva dal Monte Sinai.
Bene, nel caso del divieto di produrre «immagini», la primigenia fonte islamica è il Vecchio Testamento («Non ti farai idolo né immagine alcuna di quanto è lassù nel cielo né di quanto è quaggiù sulla terra, né di ciò che è nelle acque sotto la terra» - Es 20, 4). Si tratta del passaggio della consegna delle Tavole della Legge a Mosè, ed è stranoto che, mentre la tradizione che da Filone Alessandrino e Giuseppe Flavio è passata alla Chiesa antica, e dunque a quella greca-ortodossa e a quella riformata, fa del versetto un comandamento a sé stante, quella che la tradizione cattolica romana prende dalla lettura biblica di Agostino d’Ippona lo incorpora nel primo comandamento («Non avrai altri dei di fronte a me» - Es 20, 3), sicché «idolo» e «immagine» diventano «riproduzione di altra divinità che non sia io», e questo pone qualche problema con «quanto è quaggiù sulla terra» e «ciò che è nelle acque sotto la terra», laddove non si tratti di entità divinizzate. D’altronde è questa problematicità a prestarsi come argomento alla furia degli iconoclasti cristiani del VII e dell’VIII secolo. C’è da pensare che distruggessero opere d’arte antiche come abbiamo visto gli uomini dell’Isis distruggere quelle custodite nel Museo di Mosul. In entrambi i casi, anche se per vie diverse, l’ordine veniva dal Monte Sinai.
martedì 3 marzo 2015
Vicienzo ’a Funtanella
Sorprende,
se non è di maniera, la sorpresa che i media riservano alla vittoria riportata
alle primarie del Pd da Vincenzo De Luca (Vicienzo ’a Funtanella, per gli amici, a
causa dei ridondanti spruzzetti di saliva che schizza quando il tono gli va
sullo stentoreo): tenuto conto di cosa siano le primarie in una regione come la
Campania, anche quando siano regolari, visto che le primarie, di per se stesse,
hanno regole così lasche che tra l’una e l’altra ci passa pure un cane di
grossa taglia portando una scopa in bocca; tenuto conto di chi erano i
concorrenti, vuoi quello che s’è ritirato, più che altro per non inaugurare l’entrata nel Pd con una figura di merda, vuoi quello che ci ha provato, più
che altro sacrificandosi per dare un minimo di pathos a una partita che tutti
sapevano non avesse storia; tenuto conto di chi è Vicienzo, inteso come mito, e
di come sono fatti gli elettori ai quali chiedeva il voto, inteso come tributo al
mito; tenuto conto, soprattutto, di come butta la politica di questi ultimi tempi, la sua vittoria era largamente
prevista, alla faccia della legge Severino, alla faccia del partito che lo
implorava di fare un passo indietro, alla faccia della faccia di Gennaro
Migliore, che per calarsi al meglio nella parte del candidato unitario unico s’era
pure cambiato la montatura degli occhiali, che manco più sembrava un comunista,
ma un amico d’infanzia di Matteo Renzi, quello che gli passava il compito di
matematica. Una furia, Vicienzo, e cotanta cazzimma, cotanta guapparia, cotanta
sfaccimma d’uomo – uomo, per giunta, di cotanta conseguenza – in Campania fanno
il deus ex machina. Interdetto dai pubblici uffici, ma, come il tizio cui fai
presente che corre come un pazzo e contromano, «e che è, ho acciso a quaccuno?».
Benemerito della caccia alla puttana e al rom, piglio da federale col bastone
animato, patrono dell’urbanistica in scala 1:1, mandibola da pugile, retorica
ipertiroidea – e come poteva non vincere, Vicienzo? Non resta che vederlo menar
le mani con Stefano Caldoro, ma già sembra di vederlo. «Giovinotto, ma è vero
che andate coi trans? Non vi offendete, ohinè, era voce che girava tra i vostri
amici di partito, io mi limito a darvi modo di smentirla».
lunedì 2 marzo 2015
Corrispondenze
Questo
post è una lettera aperta in risposta a chi mi ha scritto dicendo che mi stima
tanto, mi legge sempre con piacere, bla bla bla, ma s’incazza quando nego che
le radici d’Europa siano cristiane, perché gli sembra che io voglia chiudere gli
occhi su una realtà di fatto, e questo gli dispiace, perché gli pare che in
questo modo io faccia torto alla mia intelligenza. Capirete bene che non posso
lasciare nell’afflizione un lettore che mi insulta in modo così carino, dunque eccomi
qui. Sarà un post lungo e noioso, che almeno a chi mi legge già da tempo
consiglio di
saltare senza indugio, perché qui ripeterò cose già dette.
Ciò
premesso, caro ***, vogliamo innanzitutto metterci d’accordo su quello che
debba intendersi con «cristiano»? Da quello che mi scrivi («in Europa ogni due
passi c’è una chiesa, l’arte è piena di cristi e di madonne…») devo supporre tu
voglia intendere quanto attiene al cristianesimo, dunque si tratterebbe di
radici non più vecchie di venti secoli. Ammesso e non concesso che prima, col
mondo greco e con quello romano, non si potesse propriamente parlare di Europa
o che, in subordine, il mondo greco e quello romano siano stati solo il terreno
dal quale le radici di cui parliamo abbiano tratto un qualche nutrimento, di
quale cristianesimo parliamo?
Non
di quello primitivo, suppongo, che nasce in Palestina, terra che con l’Europa
c’entra assai poco, come corrente dell’ebraismo, in opposizione alla gerarchia
che reggeva il Tempio di Gerusalemme, e nemmeno è detto ancora cristianesimo.
Ti risparmio la sinossi delle convinzioni che nutrivano i primi seguaci del
movimento, d’altronde ci sarebbe da perderci la testa per le differenze anche
marcate riscontrabili tra una comunità e l’altra. Mi limito a dirti che solo un
buontempone potrebbe intravvedere in quell’embrione qualcosa che abbia a che
fare con quella che a quei tempi già si chiamava Europa, men che meno con
quella che sarà l’Europa nei secoli successivi, e perfino con lo stesso cristianesimo
di là a qualche decennio.
E
allora sarà che le radici cristiane dell’Europa debbano essere cercate nel cristianesimo
del II secolo? Nemmeno. In quel secolo il cristianesimo è ben diverso da quello
che verrà dopo: è religione di classi agiate che si predispongono alla fine dei
tempi, che è attesa da un momento all’altro. Ha già avuto qualche
contaminazione con l’ellenismo, ma rimane ancora una profezia biblica, nella
quale nessuna Europa precedente o da venire è neppure rappresentabile. Solo
verso l’inizio del III secolo, visto che la fine dei tempi non arriva, i
cristiani tornano a una vita più o meno normale, mentre si dovrà aspettare
ancora un altro secolo perché il cristianesimo si faccia cristianità, comunità
unitaria e gerarchizzata che mira a un’espansione senza limiti e a un controllo
pieno di tutte le attività sociali. Fino a qualche decennio prima, i cristiani
si disponevano sereni al martirio pur di non essere reclutati in un esercito,
mentre da qui in poi sarà prevista la scomunica per quelli che abbandonano il
servizio militare.
È
in questo periodo, con Costantino, che il cristianesimo si fa europeo,
innestandosi sul mondo romano, sulle sue tradizioni, la sua cultura, la sua
storia, parassitando radici che erano già lì da almeno una dozzina di secoli. A
parte, potremmo discutere di quanto il cristianesimo sia realmente cosa nuova o
originale: in realtà, nasce già come momento sincretico tra l’ebraismo e i movimenti
religiosi del più vicino oriente. Altrettanto a lungo si potrebbe discutere di
quanto questo parassitamento abbia cambiato la natura delle radici greche e
romane dell’Europa, ma, se dobbiamo leggere la storia senza usare la lente dal
verso sbagliato, dal III secolo in poi troviamo più romanità nel cristianesimo
che viceversa, d’altronde tutta la Patristica altro non è esegesi evangelica funzionale
alla sovrapposizione della Chiesa sull’Impero.
È
da questo punto in poi che viene meno la tolleranza verso le innumerevoli
varianti dottrinarie che convivono nel mondo cristiano e che inizia la lotta a
quelle che così diventano eresie. Di pari passo comincia a prender forma quella
imperializzazione del cristianesimo che sarà fatto compiuto solo tra il V e il
VI secolo, quando, neutralizzato per assorbimento quanto è riutilizzabile e non
sopprimibile del paganesimo, la cristianità assume i caratteri distintivi che,
con gli aggiustamenti del caso, manterrà fino a quando non si comincerà a
metterla in discussione.
Il
cristianesimo impone il suo segno sulle bandiere d’Europa per soli dieci
secoli, dodici a volerci mantenere larghi. Dieci-dodici secoli nei quali può godere della pienezza dei mezzi necessari a
impregnare di sé la vita di milioni di individui, dalla culla alla tomba, con
la pervasività di una violenza che non risparmia niente. Non si tratta di
«radici», caro ***, si tratta di rami e foglie che non lasciano spazio ad
altro, e fra i quali ogni nido assume la forma del bozzolo, fuori dal quale è
semplicemente negata la possibilità di vita e di pensiero. Nessuno nega che lo
spazio storico e geografico detto Europa sia ingombro di questa vegetazione –
non io, mai fatto, anzi – ma affermare che l’Europa o sia cristiana o non sia,
onestamente, mi pare una bestialità.
In
quanto al fatto che la sostanza antropologica solitamente detta Europa rechi il
segno indelebile del cristianesimo, che neanche il suo avanzato stadio di
secolarizzazione è fin qui riuscito a rendere indistinguibile, nulla quaestio:
si tratta di quanto resta di una conquista, di tratta nel marchio a fuoco
impresso sulle carni dell’animale. Cosa diversa è voler dare a questo segno un
senso diverso: le assurdità, le ambiguità e le contraddizioni che usque ab ovo
troviamo nel cristianesimo, e che pure acquistano una loro logica nel darsi in
elementi dialettici all’interno di una storia, restano quel che sono anche nel
loro precipitato, e dunque prefigurano la crisi del cristianesimo per cause che
gli sono intrinseche, prima fra tutte il nodo tra immanenza e trascendenza
stretto nel dogma dell’incarnazione, perché un Dio che s’incarna non può che
fare una brutta fine, anche dichiarandone la resurrezione. In secondo luogo, dare
al Dio unico un carattere trinitario: torna utile a inverare nella storia il
suo corpo mistico, ma lo espone pure a pulsioni disgreganti.
Come
vedi, caro ***, parlare di «radici cristiane dell’Europa» è un’operazione
storiografica – insieme – ingenua e strumentale. Che di tanto in tanto venga riproposta, francamente, che palle.
P.S.
Ho cercato di contattarti per avere il permesso di riprodurre il testo della
tua lettera insieme a questa risposta, ma non mi hai dato cenno, così mi sono
risolto a sintetizzarne il contenuto della premessa e a lasciarti nell’anonimato.
domenica 1 marzo 2015
[...]
Quarantaquattro
tra deputati e senatori dei gruppi del Pd (trentadue), di Area popolare
(cinque), di Per l’Italia-Cd (cinque), di Scelta civica (uno) e di Lega Nord e
autonomie (uno) scrivono una lunga lettera a Matteo Renzi, oggi sulle pagine di
Avvenire, perché nel «Piano per la buona scuola» che il governo si appresta a
portare in Parlamento vi siano misure di sostegno economico alla scuola privata,
rammentandogli che fanno parte della maggioranza che sostiene il governo e
producendo gli argomenti, i soliti, che fin qui sono bastati ad eludere l’art. 33 della
Costituzione, laddove esso recita che «enti e privati hanno il diritto di
istituire scuole ed istituti di educazione, [ma] senza oneri per lo Stato».
Non
c’è dubbio che analoga iniziativa sarà presa anche da un nutrito numero di
parlamentari del centrodestra, e che gli argomenti saranno identici, non
escluso quello usato ogni volta che al governo c’è una coalizione almeno
nominalmente di centrosinistra, e che torna anche in questa lettera, preso di
peso da un articolo di Antonio Gramsci, pubblicato su Il Grido del Popolo il 14
settembre 1918, come ad ingiungere di onorare la fedeltà ad una prestigiosa tradizione
culturale e politica: «Noi socialisti – scriveva Antonio Gramsci – dobbiamo
essere propugnatori della scuola libera, della scuola lasciata all’iniziativa
privata e ai comuni. La libertà nella scuola [è possibile solo se la scuola] è indipendente
dal controllo dello Stato» (tra parentesi quanto è tagliato nella lettera
pubblicata su Avvenire).
Orbene, occorre far presente che di denaro pubblico in
favore di questa libertà non v’è traccia, né in questo passaggio, né nel resto
dell’articolo. Anzi, a dire il vero, quanto precede il brano citato dagli
appellanti chiarisce il contesto dal quale è estrapolata l’affermazione di
Antonio Gramsci, dandole il suo corretto significato: «Ferve nei giornali e
nelle riviste cattoliche la discussione sulla scuola libera. I cattolici
propugnano l’abolizione del monopolio di stato sulla scuola, perché sperano che
il monopolio passi nelle loro mani. Noi crediamo che i cattolici sbaglino nel
fare i conti: è vero che i preti, in quanto godono di uno stipendio e hanno
tutta la giornata libera, si troverebbero in condizione di partenza privilegiata
nel gioco della concorrenza. Ma appunto il pericolo di un assorbimento dell’attività
scolastica da parte dei cattolici metterebbe automaticamente in discussione il
problema del fondo culti e porterebbe all’abolizione di questo istituto feudale».
Niente denaro pubblico alle scuole private, dunque, ma addirittura necessità di
mettere in discussione l’erogazione dei fondi che per altre ragioni lo stato concede
al clero, ad evitare che tale privilegio lo possa avvantaggiare in una
concorrenza che altrimenti sarebbe sleale. E tuttavia è probabile che Matteo
Renzi accoglierà gli argomenti degli appellanti e tra tutti troverà che quello
più forte, almeno sul piano della comunicazione ai gonzi di cui si parlava nel post qui sotto, sia proprio quello di Antonio Gramsci, dai firmatari della lettera
usato in modo mistificatorio, ma da Matteo Renzi riusato per mera ignoranza. A
stento avrà letto il Manuale delle Giovani Marmotte, figuriamoci gli scritti di
Antonio Gramsci.
I gonzi di una volta e i gonzi d’oggi
Può
darsi sia l’età a ingannarmi, ma a me pare che i gonzi di una volta fossero più
furbi dei gonzi d’oggi. Sempre gonzi erano, sia chiaro, ma mi sembra che sapessero
difendersi meglio da chi intendesse infinocchiarli. Non di troppo, a dire il
vero, ma mi pare che la differenza sia sensibile, e cosa faccia questa
differenza, è presto detto: dinanzi a un tentativo di infinocchiamento non del
tutto consentaneo, i gonzi di una volta presentivano d’esserlo, subodoravano –
poi, semmai, serviva a poco, ma chi voleva infinocchiarli doveva metterci più
impegno, e almeno la partita diventata interessante – mentre quelli d’oggi
respingono con forza ogni presentimento, consentendo che l’infinocchiamento sia
comunque efficace, e spesso allora non c’è partita. Direi che i gonzi d’oggi,
insomma, siano più gonzi di quelli di un tempo perché peccano di un maggiore orgoglio
e che questo – paradossalmente – dipenda dai deleteri effetti di quella che si
è solita chiamare istruzione di massa, che poi è cosa che con l’istruzione c’entra
poco, tanto meno con l’intelligenza, men che meno con l’intelligenza che riesce
a dare la misura dei propri limiti, riducendosi per lo più all’acquisizione di
quell’illusoria sensazione di una padronanza di se stessi che nei fatti
accentua la vulnerabilità ai congegni persuasivi dell’infinocchiatore: il gonzo
di una volta era ignorante, e sapeva di esserlo, e non aveva nessuna difficoltà
ad ammetterlo, e questa consapevolezza si traduceva in una maggiore cautela;
oggi, invece, il gonzo fa difficoltà ad ammettere i propri limiti anche se
stesso, e ostenta sicurezza, con quanto ne consegue nel darsi interamente al
proprio istinto, che ovviamente è l’istinto del gonzo.
Prendete, per esempio,
la questione del volontariato. L’istruzione di massa ha convinto il gonzo che
lo stato non può – e forse neanche deve – far fronte ai bisogni essenziali dei
miserabili, e che a questo può – addirittura preferibilmente deve – supplire l’attività
benevolente del volontariato, che tuttavia non può farsene interamente carico,
sicché necessita di un aiuto, e da chi se non dallo stato? Al gonzo si fa
credere che questo si traduca comunque in un risparmio, e il gonzo, oggi, ci
crede. Al gonzo d’una volta, invece, mancava il concetto di sussidiarietà: alla
richiesta di denaro pubblico per fare beneficenza avrebbe drizzato le antennine,
fottendosene altissimamente di poter apparire cinico, ancor meno di rivelarsi
ignorante sul ruolo dei cosiddetti corpi intermedi. Il gonzo d’oggi non se lo
può permettere.
[...]
Tutto
secondo natura, a quanto pare, ma mettendomi nei panni di un Ferrara o di un
Adinolfi – diversa sartoria, ma stessa stoffa, stesso taglio, stessa taglia, stesso drop – la notizia mi dà una
fastidiosa inquietudine: c’è questa depravata sovrapposizione di tempi che
dovrebbero essere ben distanti, e poi, metti caso che la mamma abbia partorito
anche solo un quarto d’ora dopo la figlia, viene a crearsi la vertigine di uno
zio più giovane del nipote, e queste sono cose che in quei panni danno un
irritante fremere di ciccia.
giovedì 26 febbraio 2015
E so che suona come una bestemmia
Le
schifezze che Matteo Renzi si rivela in grado di far approvare da un Parlamento, la cui maggioranza è stata eletta con un programma che non le conteneva, sono le
stesse che erano nel programma di un centrodestra che non era in grado di
farle diventare leggi, nemmeno quando stravinceva le elezioni, perciò, se Silvio
Berlusconi riesce a mettere insieme il quanto basta per avere una concreta possibilità
di battere Matteo Renzi, faccio un serio pensierino all’eventualità di dargli
il mio voto, e so che suona come una bestemmia, non è il caso di farmelo presente, ma meglio sorbirsi in ascensore la scoreggia di uno che mangia solo topi morti o essere suo ospite a colazione?
Dedalo di specchi
Daniele
Luttazzi non ha ancora pienamente elaborato il trauma della gogna che subì
cinque anni fa, ma pare sia intenzionato a risolvere la cosa sublimando
piuttosto che rimuovendo e poi fare i conti con una fastidiosa nevrosi, almeno
questa sembra l’operazione che affida a Bloom
(Edizione Il Fatto Quotidiano, 2015), plagio (che non può dirsi plagio) di un
Omero che si riprende il suo Ulisse dal
plagio (che non può dirsi plagio) di Joyce. Gioco di specchi, anche molto ben
fatto, in cui ci si dovrebbe ritrovare, ma solo a patto di perdersi davvero, onestamente
incapaci di dire dove finisca l’aedo e dove cominci il rapsodo. D’altronde
neanche si è certi che Omero sia davvero esistito, tutto il nero su
bianco l’avrà messo uno che ha spizzicato qui l’orecchiamento di un inno, lì il passaparola di
un mito. Ora, se usiamo lo strumento che ci consente di parcheggiare l’auto in un dedalo di specchi senza sfiorarne neanche uno (e qui cito lo spot pubblicitario
di una nota casa automobilistica, meglio dichiarare che la paternità della
metafora non è mia), toccherebbe a Joyce riprendersi l’Omero di Daniele
Luttazzi, e a Daniele Luttazzi toccherebbe stare zitto, senza lamentarsi d’essere
stato plagiato. Il cerchio quadrerebbe e potremmo finalmente riavere quello che
abbiamo perso cinque anni fa, che oggi è ancora perso in 105 pagine di note al
testo e in 103 voci bibliografiche.
L’avviso è il seguente
L’avviso
è il seguente: «A partire dal 23 marzo
2015 non sarà possibile condividere pubblicamente immagini e video sessualmente
espliciti o che mostrano nudità su Blogger. Le immagini di nudità sono
consentite se il contenuto è di pubblica utilità, ad esempio in un contesto
artistico, didattico, documentario o scientifico».
È uno di quei casi in
cui legislatore e giudice coincidono e quindi ogni possibile interpretazione della
norma non ammette contestazioni. Perché solo «immagini e video»? Se posto il file audio di un porno, altrettanto
«sessualmente esplicito», non incorro
in alcuna sanzione? E se il contenuto «sessualmente
esplicito» sta in un testo scritto? E quali sono i parametri che delimitano
i confini di ciò che è «artistico»
rispetto a ciò che non lo è? Chi avesse l’intenzione di postare un ciclo di
lezioni sul coito anale, naturalmente con supporto video, può legittimamente ritenersi
in ambito «didattico»? Saremmo ancora
in ambito «documentario o scientifico»
con un post che avesse l’intenzione di smontare la bufala della minzione
spacciata per squirting, giocoforza utilizzando spezzoni di film a luci rosse? E
poi quand’è che «immagini di nudità»
sono o meno «di pubblica utilità»?
Domande che naturalmente non ha senso porsi a
priori, perché a posteriori ha
forza di legge la discrezionale libertà di giudizio, che Blogger si riserva
grazie all’inevitabile ambiguità della norma. Inevitabile perché la materia ha
per sua natura contorni oggettivamente indefinibili, ma soggettivamente
nettissimi, anche se pure la soggettività è estremamente mobile sull’oggetto in
questione.
Penso sarebbe stato più onesto formulare l’avviso in questo modo: «A partire dal 23 marzo 2015 Blogger si
riserverà di censurare quanto ritenga possa provocarle noie. Giacché il sesso,
anche latamente inteso, è materia assai sensibile, comportatevi di conseguenza, ché
non vi sarà consentito sollevare obiezioni. D’altronde la pagina vi è offerta a
gratis, dunque cercate di non rompere il cazzo».
mercoledì 25 febbraio 2015
Massimo Fini, Una vita, Marsilio 2015
È
il suo libro migliore, davvero molto bello, a tratti commovente, ma d’una
commozione mai umida, mai ruffiana. Alla scrittura, da sempre d’ottima qualità,
qui s’unisce la materia, ricchissima, estremamente varia, sapientemente
ricomposta. Come per ogni autobiografia, e anche questa non fa certo eccezione,
si potrebbe, volendo, star lì a perdere un’infinità di tempo a dissezionare e a
catalogare reticenze che velano e iperboli che sparacchiano, ma la compiutezza
del narrato fa passare la voglia: Massimo Fini si racconta e si fa prendere
sulla parola. Una pessima copertina, occorre dire. Un sottotitolo fin troppo
indisponente, che scimmiotta – chissà se ironicamente o no – lo Zarathustra
nietzschiano, e dunque è civettuosamente depistante. Un indice dei nomi, poi, che in fondo a un’autobiografia sta sempre troppo come a piedistallo. Tolto questo, un libro eccezionale. Complimenti. E grazie.
martedì 24 febbraio 2015
O-oh!
O-oh!
A chi gli fa presente che sta a Palazzo Chigi senza essere passato per le urne,
il Cazzaro risponde che la nostra è una democrazia parlamentare, e che il
Presidente del Consiglio non viene eletto dal popolo, ma nominato dal
Presidente della Repubblica. Non sono passati neanche due anni da quando, a
Daria Bignardi che gli chiedeva: «Lei non
vorrebbe governare questo Paese?», rispondeva: «Sì, ma passando dalle elezioni, non dagli inciuci di Palazzo» (Le Invasioni Barbariche, 17.4.2013):
deve aver scoperto che non è indispensabile, ma solo dopo aver inciuciato il
necessario. Ora – o-oh! – scopre che la nostra è una democrazia parlamentare, ma
solo dopo aver scritto una riforma del Senato e una legge elettorale che
riducono il Parlamento a un vidimatore di decreti del Governo, per giunta con l’obbligo
di doverli vidimare prim’ancora di poterli leggere, sennò tutti a casa, e niente
ricandidatura, perché nella lista bloccata c’entri solo se vuole il Segretario
del Partito, che incidentalmente è pure Presidente del Consiglio: scopre che la
Costituzione esiste solo dopo averla ignorata, il Cazzaro. Come in certi paesini
siciliani, come presso certe tribù afghane: prima stupri la ragazza che ti
piace, e poi la chiedi in sposa.
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