Con
una legge elettorale come l’Italicum mi ero riproposto di saltare
il primo turno, per limitarmi a votare solo in caso di ballottaggio,
e in quel caso per votare chiunque sulla scheda mi sarei trovato
opposto a Matteo Renzi, anche un Beppe Grillo, anche un Matteo
Salvini, anche un Silvio Berlusconi. Intenzioni che almeno in parte
mi sento costretto da subito a rivedere per la decisione annunciata
oggi da Pippo Civati: al primo turno voterò lui, in qualsiasi lista
sarà candidato, qualunque sia il suo programma elettorale. Lo voterò perché la decisione di lasciare il gruppo
parlamentare del Pd e le motivazioni che accompagnano questo passo conferiscono alla
sua persona, seppur retrospettivamente, dimensioni eccezionali in
tutta la storiaccia che si è conclusa con l’approvazione
dell’Italicum, e so che può sembrare esagerato, ma si tenga conto
che il livello medio della dignità morale e politica espressa dai
parlamentari del Pd è stato pressappoco all’altezza
di un
Gennaro Migliore. Non farò mistero del fatto che dargli il mio voto servirà pure, e in buona misura, a risarcirlo di un’opinione non del tutto benevola che mi ero fatto sul suo conto: significa pure saldare un debito. Avrà tanti limiti, Civati, ma da oggi, almeno ai miei occhi, ha acquistato un merito enorme.
mercoledì 6 maggio 2015
Sull’analogia
Opinioni
che potremmo stringare in formule del tipo «quella
di Carminati è (o non è) mafia» o
«quello di Renzi è (o non è)
fascismo» sollevano sul piano
retorico la questione dell’uso
proprio (o improprio) dell’analogia.
A tal riguardo, com’è
buona regola in ogni controversia, occorre chiarire la natura e la
funzione di ciò che è in discussione,
rammentando che nel discorso l’analogia «differisce dalla proporzione puramente matematica, in quanto non pone
l’uguaglianza
di due rapporti, ma afferma una somiglianza di rapporti, [sicché]
mentre in algebra si
pone a/b=c/d, [e]
ciò consente di
affermare per simmetria che c/d=a/b e di effettuare su questi termini
operazioni matematiche che daranno luogo ad equazioni come ad-cb = 0,
nell’analogia
si afferma che “a”
sta a “b”
come “c”
sta a “d”,
[e]
dunque non si tratta più di una divisione, ma di un rapporto che
viene assimilato ad un altro rapporto, [di
modo che] fra la coppia
“a-b”
(il tema dell’analogia) e la coppia “c-d”
(il foro dell’analogia) non si afferma un’uguaglianza simmetrica,
ma un’assimilazione che ha per fine quello di chiarire, strutturare
e valutare il tema grazie a ciò che si sa del foro»
(Chaїm
Perelman, L’empire
rhétorique. Rhétorique et argumentation,
1977).
Posta questa premessa, dovrebbero cadere le obiezioni che
contestano le legittimità dell’analogia
nei casi sopra presi a esempio con controargomentazioni che potremmo stringare in formule del tipo «gli uomini di Carminati non
avevano coppola e lupara» o «Renzi non ha squadracce che
scorrazzano in lungo e in largo per l’Italia
con olio di ricino e manganello»: tema e foro non stanno in relazione
di uguaglianza, ma di proporzione, la quale, dunque, non cade dinanzi
all’ovvia
constatazione che nulla somigli mai del tutto a null’altro,
non foss’altro
perché nulla somiglia mai del tutto neppure a se stesso nel corso
del suo divenire, come
d’altronde è nel
caso della mafia e nel caso del fascismo.
L’analogia
– sarà il caso di dirlo in modo esplicito – non pretende che sia
attestata una peraltro sempre impossibile coincidenza, ma che sia
riconosciuta quella serie di elementi che realizzino una puntuale
relazione tra tema e foro, conservando per ciascuno una congrua
proporzione. L’analogia, insomma, cade solo con la dimostrazione che questo tipo di relazione non abbia sostegno, non già che non sia in grado di comprovare una perfetta coincidenza tra tema e foro. Rigettando la liceità della naturale funzione che l’analogia ha nel discorso, si dimostra
di temerne l’efficacia.
E il tentativo di delegittimarla come strumento improprio rivela
l’incapacità
di contestarne l’uso che una corretta argomentazione non le preclude.
martedì 5 maggio 2015
L’unica via
Dieci
anni fa, di questi tempi, infuriava la battaglia sulla legge 40...
Ok, «infuriava la battaglia» è bassa retorica, correggo subito...
Dieci anni fa, di questi tempi, mancavano pochi giorni al referendum
sulla legge 40, e da un lato c’era chi voleva ne fossero abrogati
almeno i punti che la rendevano tra le più stronze e crudeli della
storia repubblicana, sgolandosi ad urlare dello scempio che
infliggeva al buonsenso e alla Costituzione, mentre dall’altro
c’era chi l’aveva
voluta e, con assai miglior
polso del paese, sapendo bene che da un popolo di merda il consenso
non si ottiene invocando la logica e in nome dei principi, anzi,
puntò sul vincere la partita senza combatterla nemmeno, sommando
cinismo e strafottenza, per impedire che si raggiungesse il quorum.
Sappiamo come andò: il quorum non fu raggiunto, la legge restò in
vigore, e tutti, o quasi, a cantar lodi al cardinal Ruini, gran
figlio di puttana, e perciò politico sopraffino. Sappiamo pure che
fine ha fatto, in questi anni, la legge 40: smontata pezzo a pezzo da
una dozzina di sentenze della Cassazione, ne resta in piedi solo il
poco che sta a memoria della
feroce idiozia
che le diede vita.
Ma forse pure raccontarla a questo modo vuol dire
far dell’epica
dove non c’è
che cronaca. Andrebbe raccontata senza metterci passione, come
l’apologo di una delle tante leggi che si scoprono essere
incostituzionali solo dopo aver causato danni incalcolabili.
Leggi
approvate nell’indifferenza pressoché generale dell’opinione
pubblica, che rimane indifferente anche quando è chiamata a
esprimere un parere su di esse. Come è stato col Porcellum, no?
Anche in quel caso il referendum non interessò più di tanto, anche
in quel caso s’è dovuto aspettare una sentenza che lo dichiarasse
incostituzionale.
Non c’è dubbio che così sarà anche per
l’Italicum, la cui approvazione, oggi, incorona Renzi come gran
figlio di puttana, e perciò politico sopraffino. Lo schema – il
solito – si ripropone: un mascalzone scrive una legge a cazzo di
cane, una maggioranza parlamentare di insulse comparse l’approva,
una corte di ruffiani leva al cielo l’osanna
per cotanta vis legislativa, le opposizioni bestemmiano e raccolgono
firme per abrogare l’obbrobrio,
mentre il resto del paese se ne fotte, perché «capolista
bloccato»
è termine incomprensibile almeno quanto «ovocita
fecondato».
Per carità di Dio, raccoglietele, ’ste
firme, ché val la pena spendersi pure per le guerre perse in
partenza. Ma non sperate troppo in quella che chiamate «gente»,
perché ormai da tempo è plebe. Appena sarà pubblicato sulla Gazzetta
Ufficiale, sottoponete l’Italicum
alla Corte Costituzionale: l’unica
via è quella.
lunedì 4 maggio 2015
[...]
Quando
non trattato, l’ipotiroidismo
congenito porta inevitabilmente a gravi forme di ritardo mentale. È
una patetica arrampicata sugli specchi, dunque, concedere che cretino
derivi da cristiano
(fr. chrétien
→ crétin),
ma obiettare che in origine non venisse usato, come oggi accade, per
indicare un individuo di scarsa intelligenza, ma una persona affetta
da cretinismo,
termine che fino a qualche decennio fa era usato proprio per definire
il quadro clinico dell’ipotiroidismo
congenito non trattato. A conferma, tuttavia, che cretino
e cristiano
indichino
una consimile condizione di deficit mentale c’è
quella nota acquiescenza del cretino alle derive autoritarie che nel
cristiano trova ragione nel «non
c’è
autorità se non da Dio»
(Rm
13, 1). Certo, Paolo l’avrà
detto per dare un’aria
inoffensiva ai suoi e per strappare un po’
di tolleranza a Nerone, fatto sta che il monito a sottomettersi
all’autorità,
perché chi vi si oppone «si
oppone all’ordine
stabilito da Dio»
(Rm
13, 2), tornò utile dopo il patto stretto tra trono e altare, sicché
potremmo dire che da chrétien
si passa a crétin
quando l’acquiescenza
a questo o quel tiranno perde la funzione di trasporre l’intesa
tra Stato e Chiesa nella coincidenza di obbedienza nel suddito e nel
fedele, per diventare il riflesso condizionato che porta a vedere in
ogni dittatore un Uomo della Provvidenza. Quando questo passaggio si
è compiuto, non ha più alcuna rilevanza che il cretino sia anche
cristiano, perché sarà acquiescente alla dittatura anche in quei
rari casi in cui la Chiesa non vi avrà stretto un concordato, e
tuttavia in lui resta l’adorazione
della forza come manifestazione del divino. Il lungo ragionare per
venticinque secoli su come la forza si legittimi in potere, e su come
il potere si legittimi in autorità, non gli appartiene: ogni ipertiroideo gli sembra Dio.
domenica 3 maggio 2015
sabato 2 maggio 2015
[...]
L’idea
di cambiare il «siam
pronti alla morte»
dell’Inno
di Mameli
con
un «siam
pronti alla vita» è
d’una
imbecillità che s’apparenta
a quella di mettere la lancetta dei minuti all’orologio di Palazzo
Vecchio (ricordate?), dunque è probabile che l’Italia
renziana l’adotterà
in via definitiva. Resta la questione della rima con «stringiamci
a coorte»,
che così salta, ma, se tanto mi dà tanto, probabilmente si provvederà con un
«partiam per la gita» o un «la cena è servita».
venerdì 1 maggio 2015
L’uovo del serpente
Più
o meno un anno e mezzo fa ho scritto che sarebbe «buona
norma, quando si polemizza, essere onesti con gli altrui argomenti e
usare toni garbati»,
ma che purtroppo questo «non
sempre è possibile»,
perché «spesso
fallacia chiama fallacia, sarcasmo chiama sarcasmo, e qualche volta
la polemica degenera in rissa»,
sicché, «quando
voglio evitare che questo accada, e tuttavia sento irrinunciabile la
polemica avverso una tesi che ritengo insostenibile»,
ho l’abitudine
di «prendere
in considerazione solo gli argomenti che in sostegno di quella tesi
sono prodotti da persona di riprovata onestà intellettuale e
d’indole affabile».
Eccomi, dunque, a prendere in considerazione gli argomenti che
Formamentis
ritiene destituiscano di fondamento la mia convinzione che Matteo
Renzi costituisca un grave pericolo per la democrazia, non prima però
di confessare di essere lieto che Formamentis
abbia voluto che questo scambio di opinioni sia pubblico, per darmi
modo di ricalibrare meglio il giudizio estremamente duro che ho
espresso su chi la pensa come lui, e che mi ha procurato alcuni
severi rimproveri. Qualche giorno fa, infatti, ho scritto che
considero un «fiancheggiatore»
di Matteo Renzi chiunque minimizzi la gravità delle sue
scelleratezze, soprattutto poi se col sarcasmo nei confronti di chi
le ritenga articolate in un processo di deriva autoritaria teso a
fare della democrazia formale un guscio vuoto di ogni sostanza, né
sono riuscito a trovare attenuanti alla buona fede che concedevo
possa pure motivare questa complicità di fatto, perché l’ho
definita, seppur con sofficissime perifrasi, da fessi: quei fessi che
non sono mai mancati a sottovalutare i prodromi di ogni catastrofe,
pensando che bastasse toccarsi le palle per scongiurare i pericoli
segnalati da una Cassandra.
Bene,
per affrontare la questione, Formamentis
è l’interlocutore
ideale. Tutto è meno che fesso. Sa polemizzare senza incorrere in
scorrettezze. Nel
post col quale mi interpella,
poi, quasi a far presente che non ha alcuna intenzione di cedere al
sarcasmo, propone che la discussione abbia uno scanzonato registro
ironico e autoironico. Infatti attacca così: «Ne
discutevo oggi con Luigi: stiamo scivolando verso una dittatura
mascherata, finiremo come la Bielorussia? Questo non credo».
«Questo
non credo»:
nell’uso
di una frase che evoca il Razzi di Crozza vedo l’invito a toni
leggeri, che accetto con piacere. E dunque: (1) «che
ci sia in questo momento una posizione dominante di Renzi è
evidente, ma questo principalmente per la pochezza degli avversari»;
(2)
«quella
di Renzi non la vedo come un’egemonia
tale da impedire la riorganizzazione e la futura affermazione
dell’avversario,
[...] ma a questa alternativa si dovrà pur dare il tempo di
riorganizzarsi»;
(3) «io
penso che la democrazia oggi si trovi svuotata non tanto da Renzi
quanto dalle stringenti necessità del sistema economico e
finanziario con le quali si trova a fare i conti»;
(4) «mi
piacerebbe capire cos’è
democrazia per Luigi: quando possiamo sostanzialmente esserne certi,
quando da forma ridiventa sostanza».
Temo che l’ultimo
punto mi prenderà un po’
di tempo, ma per i primi tre credo si possa fare in fretta.
E dico
subito che sono d’accordo:
al momento, Renzi non ha avversari in grado di opporglisi
efficacemente. D’accordo,
ma questo in cosa costituirebbe argomento ad escludere che la sua
forza possa essere impiegata per renderne irreversibile la
preponderanza? Se io sono fisicamente assai più forte di
Formamentis,
questo renderà possibile o meno che io lo massacri di botte, tutt’è
vedere se lo faccio, se minaccio di farlo o se semplicemente abuso
della possibilità di farlo per impedirgli in qualche modo di
acquistare forza pari o superiore alla mia. È sulle azioni di Renzi,
dunque, che va valutato l’uso
che egli intenda fare della sua forza e a me pare che nel metodo e
nel merito sia indiscutibile che le intenzioni non siano delle
migliori. L’armamentario
caratteriale, attitudinale e comportamentale è quello del despota
cinico, spregiudicato, vendicativo, smisuratamente ambizioso, con una
irrefrenabile smania di accentramento del potere nella sua persona,
cui non manca neanche uno dei tratti che sono distintivi della
personalità pesantemente disturbata dalle caratteristiche pulsioni
del mentitore abituale, del manipolatore, del narcisista, del sadico,
che costituiscono la configurazione psicopatologica costante in ogni
dittatore. Se posso esprimermi con un’immagine,
direi che Renzi sia l’uovo
del serpente. Posso concordare anche sul fatto che a covarlo possano
essere state le circostanze storiche – certo, accade così per ogni
tiranno, non è che dipenda dal segno zodiacale – ma questo in cosa
lo rende meno pericoloso? Dovremmo trattarlo da epifenomeno e
tollerarlo come sintomo di un febbrone che deve fare il suo naturale
decorso? Non escludo che qualcuno possa obiettare che le suddette caratteristiche siano in vario grado riscontrabili in ogni professionista della politica e in ogni amministratore della cosa pubblica, per cui trovarle così marcatamente rappresentate in Renzi sarebbe prova dell’eccezionalità di doti che sono necessarie e intrinseche al ruolo. Bene, penso che questo sia il sintomo più grave della malattia sociale che per prognosi si dà lo stato organico, la coincidenza tra partito e stato, la proiezione di una nazione in un solo uomo. Più che Renzi, disprezzo chi lo ammira come politico. E il disprezzo diventa immenso se lo ammira pure come uomo.
Più
complessa è la risposta alla domanda con la quale Formamentis
chiude il suo post. Qui, dicevo, sarebbe necessario molto tempo, ma
mi rendo conto di aver tediato già abbastanza i nostri lettori,
perciò, con tutti i rischi del caso, mi limito a dire che per me la
democrazia è la condizione nella quale si realizzi la piena
rappresentatività di ogni cittadino nell’esercizio
della sovranità popolare, le cui linee direttrici devono fedelmente
riprodurre le proporzioni di volontà che concorrono a determinarle.
Tanto più la forma della democrazia si riempie di sostanza quanto
meno la rappresentatività venga sacrificata alla governabilità. In
altri termini: quanto meno ciò che la democrazia affida a tutti e a
ciascuno venga requisito da uno o da pochi – o a pochi o ad uno
ceduto – nella sospensione o nella illimitata dilazione della
funzione di controllo. Ma qui è assai probabile che la voglia di
stringere mi abbia fatto incorrere in qualche ambiguità di formula.
Ci ritornerò sopra.
giovedì 30 aprile 2015
La chute
«C’est
l’histoire d’une société qui tombe
et
qui au
fur et à
mesure de sa chute
se
répète sans cesse pour se rassurer:
“Jusqu’ici
tout va bien, jusqu’ici tout va bien,
jusqu’ici
tout va bien”. Mais l’important
n’est
pas la chute, c’est l’atterrissage»
La
Haine
(Mathieu Kassovitz, 1995)
Quel
che resta del disprezzo che va a Renzi spetta di diritto ai
fiancheggiatori che ne agevolano le scelleratezze minimizzandone la
gravità col sarcasmo di cui fanno oggetto chi invece la avverte e la
segnala. Naturale inclinazione all’acquiescenza,
strafottenza come surrogato di piena padronanza delle situazioni,
mera ignavia come esorcismo contro ogni genere di pericolo – poco importa
cosa li muova a sbertucciare, peraltro con piatta uniformità di
toni, chi nella migliore delle ipotesi considerano un malato d’ansia,
sennò un subdolo inoculatore di velenoso allarmismo. Nel più
plateale precipitare di peggio in peggio, questi miserabili continueranno sempre a
dire: «Jusqu’ici
tout va bien»,
fino alla
fine, e a reagire con un moto di fastidio a chi fa presente che tutto
precipita. Sarà una puttanata che «la
plus belle desruses
du Diable est
de vous persuader qu’il
n’existe
pas»
(Charles
Baudelaire),
di certo non c’è
dittatura che possa fare a meno del brodo di coltura che le dà
nutrimento con l’ottusa
indolenza di quanti si rifiutano di vederla, che poi sono gli stessi
che ingrassano nelle sue pieghe. Forse occorre risparmiare un po’
del disprezzo che va a Renzi per lasciarlo a loro.
mercoledì 29 aprile 2015
Solo artigianato
La
differenza tra un grande artista ed uno dei garzoni della sua bottega
che mai riuscirà a toccare i vertici espressivi del maestro,
rimanendo in eterno un «anonimo
della scuola di», non sta tanto
in un difetto della tecnica, che anzi può essere facilmente appresa,
laddove vi sia un minimo di applicazione, ma nella incapacità di
darle efficacia infondendo alla materia una qualità che la
trascenda, conferendole il potere di dare vita propria a ciò che
rappresenta.
Per semplificare potremmo dire che questa differenza fa
la distanza tra creazione e ricreazione, tra scoperta e invenzione,
tra respiro e insufflo, il che spiega come un apprendista possa
essere arrivato pure a riempire tre quarti di una tela, e con resa
ineccepibile, ma perché il quadro sia un capolavoro occorre che al
resto abbia pensato chi possedeva la superiore virtù di riuscire ad
animarlo.
Questo, tuttavia, neanche basta a poter dire che il garzone
sia mera proiezione dell’artista,
com’è dato constatare dalla
possibilità di riconoscere, almeno ad un’analisi
supportata da strumenti congrui allo scopo, due mani differenti in
quel quadro pur nella perfetta omogeneità del tutto.
È questo, in
definitiva, che consente, ovviamente a chi abbia tutta l’esperienza
necessaria per non cadere nell’infortunio
dell’errata attribuzione, di
poter riconoscere in un’opera di
un grande artista il contributo di un oscuro e pur valente
collaboratore.
Se
la premessa non vi ha sfiancato, passiamo a considerare Claudio Cerasa alla direzione de Il Foglio. Non
malaccio negli sfondi, nei panneggi e nelle anatomie,
ma quando mette mano alla filosofia politica – chiamiamola così –
il quadro diventa irrimediabilmente crosta.
Giuliano Ferrara si prostrava
in estasi davanti al Potere, non ha importanza in quale forma gli
apparisse, né da quale istinto procedesse, riuscendo a prodursi in
salmi di feroce cinismo che offriva a questo o quel fetente come
pergamene attestanti l’incontestabilità
di un titolo, ed erano pezzulli degni del più zelante dei sacerdoti
a guardia del Tempio, editoriali
di una brutalità che ardeva come arde il fuoco sacro che vorace
esige il tributo di una vittima, e tutto era in
ossequio alla
magnificenza dell’arbitrio solennemente legittimato in privilegio,
e con brillanti concessioni ad un immaginifico che pescava nei
registri alti e in quelli bassissimi... Insomma, leccava il culo al
potente di turno, ma ci metteva l’arte.
Cerasa, no. Quand’anche
sta sull’uscio di bottega in posa da titolare, Cerasa è destinato
ad essere garzone a vita. Lecca pure lui, ma non ci mette l’estasi:
si vede che per lui il Potere è solo forza meccanica, non energia
dinamica. Maramaldeggia pure lui i deboli, quello è naturale, fa parte dell’insegnamento e del lascito, ma
invece della lectio sulla necessità che il pesce grande mangi il
pesce piccolo, cui il vocione di Ferrara dava un bel cupo rotto solo
dalla folgore di un «così va il mondo, bellezza», Cerasa si limita
a spiegar loro che non
è tanto Renzi ad essere squalo quanto loro ad essere merluzzi: «La
democrazia viene sospesa quando le opposizioni non funzionano e non
rappresentano un’opzione» (Il
Foglio,
29.4.2015). Anche di pregio, insomma, ma solo artigianato.
Segnalibro
Tirando
giù dagli scaffali alti un po’
di materiale relativo alla «legge
truffa»,
l’ultimo
volume dell’Opera
Omnia di Luigi Sturzo si apre a caso sul disegno di legge n. 124 del
16 settembre 1958, che riguarda tutt’altro
tema, quello del profilo giuridico dei partiti politici, qui chiamato
in causa soprattutto per l’aspetto
relativo al loro finanziamento. C’entra
poco con quello che cercavo – gli estremi della polemica tra Sturzo
e De Gasperi sul premio di maggioranza – ma come segnalibro per
queste pagine può tornare utile in futuro.
martedì 28 aprile 2015
[...]
«Mi
auguro che il governo non metta il voto di fiducia sull’Italicum.
Se verrà messo, forse non risponderò all’appello, ma escludo di
votare no alla fiducia»,
così Rosy
Bindi (Piazza
Pulita – La7,
27.4.2015), e c’è da scommettere che questa sarà la linea di
quasi tutta la minoranza interna al Pd, quella che tanto ha
starnazzato fin qui su quanto l’Italicum faccia schifo e su quanto
faccia schifo metterci sopra il voto di fiducia: in sostanza, queste
patetiche figurine non renderanno mai i loro voti utili ad impedire
che la schifezza diventi legge dello Stato, neppure se schifoso
dovess’essere il modo in cui si arriverà alla sua approvazione.
Come volevasi dimostrare, anzi, anche peggio, perché ieri ho scritto
che, «se
passerà l’Italicum, sarà perché l’avrà votato un congruo
numero di deputati del Pd»,
e che «poco
importa quanto saranno stati i dissidenti che alle ragioni di
opportunità avranno opposto quelle di principio, perché vuol dire
che saranno stati comunque irrilevanti»:
qui
non solo le ragioni di principio si piegano a quelle di opportunità,
ma queste ultime vengono addirittura dichiarate indiscutibili. Non
c’è
un Pd buono e uno cattivo, ce n’è uno solo, ed è tutto –
volente o nolente – renziano. Sembra uno scontro interno, ma in fondo è solo un gioco delle parti.
lunedì 27 aprile 2015
È assai probabile che l’Italicum passi alla Camera
È
assai probabile che l’Italicum
passi alla Camera, e le probabilità aumentano col contingentamento
degli interventi cui si ricorrerà nel caso in cui la discussione in
aula slitti davvero di una settimana, come sembra nelle intenzioni di
Matteo Renzi, che pensa, e a ragione, di poterla utilizzare anche per
far cambiare idea a qualche deputato della minoranza interna del
Partito Democratico, che d’altronde
è assai poco compatta e ha già dato numerose prove di ambiguità
morale prima che politica verso il segretario del partito, oltre che
per raccattare consensi dalla fronda che in Forza Italia ha nostalgie
per il Patto del Nazareno, così sfruttando a suo vantaggio
l’eventualità
di un voto segreto.
Matteo Renzi, dunque, non ha torto nel sentirsi
relativamente sicuro che il mostro sarà infine partorito: nelle sue
smargiassate c’è
un bluff assai ben calcolato sull’evidenza
che i suoi avversari non hanno in mano carte forti. Certo, con una
straordinaria concordanza di eventi a suo sfavore potrebbe anche cadere
sul voto, e nel caso si trattasse di un voto di fiducia perderebbe
Palazzo Chigi, il che potrebbe pure ridimensionare in modo drastico
il suo peso all’interno
del suo partito, ma tutto questo, sulla base delle forze in campo, è
ipotesi che può coccolare solo chi pensa che Matteo Renzi sia un
mero accidente.
In realtà, si tratta del prodotto di una crisi della
democrazia che investe buona parte del mondo occidentale: se in
Italia assume il volto di un arrogante gradasso dai modi spicci, è
solo perché da noi la democrazia è sempre stata assai debole, tutta
formale, e a volte neanche. Un paese di merda merita per premier un
uomo di merda, tutto qui, e se è vero che le prove più dure
saggiano la reale natura di un popolo, rivelandone le virtù se ne
possiede, sennò portando a galla quello che nel fondo ha di peggio,
una crisi economica come quella che ha preso avvio nel 2008, ma che
si è solo limitata a rendere più esplicita ed acuta una debolezza
da decenni intrinseca al sistema, non poteva che generare tal genere
di mostruosità: l’ennesimo
avventuriero convinto di poter essere l’uomo
forte di cui il paese abbia l’inconfessato
bisogno.
Non a torto, occorre dire, perché, al netto della forza che
un borderline di questo tipo raccoglie a strascico gettando la sua
rete nel vasto mare del conformismo e dell’opportunismo,
e che in fondo non serve ad altro che a dargli una patina di
legittimità, il bisogno di essere guidati da un Uomo della
Provvidenza non risparmia le oligarchie che detengono il controllo
dell’economia,
con quanto ne consegue sugli strumenti che formano l’opinione
pubblica: bisogno che qui deriva dalla nota consuetudine a ritenere,
non senza ottime ragioni, che quando l’Uomo
della Provvidenza torni d’impiccio,
pur pagando il necessario e dovendo perderci un po’
di tempo, si può sempre sacrificarlo, dandolo in pasto ad una plebe
adeguatamente resa feroce.
E dunque Matteo Renzi è forte, seppur di
questo genere di forza. Sull’approvazione
dell’Italicum
dice di voler scommetter tutto ed è molto improbabile che perda la
partita. Che poi la Corte Costituzionale, tra tre anni o cinque o
sette, sentenzi che l’Italicum
debba fare la stessa fine del Porcellum, con quanto nel frattempo
grazie all’Italicum
sarà stato possibile far rendita, questo è tutt’un
altro paio di maniche. Al più, darà soddisfazione a quanti fin
d’ora
segnalano i patenti punti di incostituzionalità del ddl che la
Camera approverà entro la fine di maggio.
Su cosa questa legge
elettorale cambierà nell’attuale
assetto politico e, ancor più, in quello istituzionale, soprattutto
col combinato disposto di un Senato non elettivo, non sarà il caso
di intrattenerci troppo: su queste pagine se n’è
già parlato e commentatori molto più autorevoli hanno espresso
analogo parere, per giunta con argomentazioni di incommensurabile
rilievo tecnico. Nemmeno varrà la pena di intrattenerci troppo su
cosa cambierà nella percezione che il cittadino avrà dello Stato,
perché il progetto di cui l’Italicum
non è che un passaggio appare evidente in ogni singola sfaccettatura
dell’azione di questo governo, dall’idea di depotenziare gli
organi collegiali attualmente operanti nella scuola per creare una
figura di preside che delle sue decisioni su studenti e corpo
insegnante risponda al Ministero dell’Istruzione come un prefetto
era tenuto a rispondere al Ministero dell’Interno nel Ventennio
fascista, fino al tentativo, in buona parte già riuscito, di avocare
al potere esecutivo buona parte delle naturali prerogative di quello
legislativo e di quello giudiziario: in sostanza, avremo un’Italietta
piramidale che per base avrà una soggezione grata delle eventuali
briciole che pioveranno da un vertice che tradurrà in arbitrio il
consenso.
In nome della stabilità del sistema, si dice, e
infatti cosa c’è di più solido di un sistema autoritario, finché
regge? Oppure, come pure si dice, ma qui per quell’irrefrenabile inclinazione
all’ipocrisia che è il sintomo più genuino dell’istinto
antidemocratico rintanato nelle più fetide nicchie della democrazia
formale, in nome della governabilità.
Il lavoro per demolire questo
costrutto sarà arduo e ingrato, lungo e senza certezza di buon
esito. Ci attendono decenni che imporranno prezzi enormi a chi oserà
mettere in discussione l’Italia che sta per prender forma da una
legge elettorale come quella sulla quale è chiamata a esprimersi la
Camera. Una sola è la certezza: se passerà l’Italicum, sarà
perché l’avrà votato un congruo numero di deputati del Partito
Democratico. Poco importa quanto saranno stati i dissidenti che alle
ragioni di opportunità avranno opposto quelle di principio, perché
vuol dire che saranno stati comunque irrilevanti: volontariamente
irrilevanti, poi, se sceglieranno di restare in un partito la cui
maggioranza sia stata capace di approvare una simile legge
elettorale. Il Partito Democratico, insomma, potrà comunque essere
considerato in blocco il peggior nemico della democrazia. Chiunque
l’abbia a cuore sarà moralmente e politicamente autorizzato ad
ogni mezzo utile per precipitarlo nell’infamia e nella rovina, e
allora ben vengano le iniziative strumentali della magistratura
cosiddetta politicizzata: chiuderemo un occhio se peccheranno di qualche sbavatura procedurale. A brigante – dura lex, sed lex –
brigante e mezzo.
domenica 26 aprile 2015
[...]
Se
Michelangelo l’avesse
portata a termine, la Pietà
Rondanini
sarebbe stata senza dubbio quel capolavoro che si intuisce rimarrà
per sempre imprigionato in quel di più che restava da togliere al
blocco di marmo. Fatto sta che questa intuizione ci è data solo dal
sapere chi fosse Michelangelo e quanto sublime fosse la sua arte,
sicché dovremmo rivedere il giudizio che oggi diamo di quest’opera
incompiuta il giorno che scoprissimo non fosse sua, ipotetica che per
nostra fortuna è del terzo tipo, giacché le fonti che
gliel’attribuiscono
sono incontestabili. In sostanza, il nostro giudizio sulla Pietà
Rondanini
può dirsi al sicuro da ripensamenti perché sulla bravura di
Michelangelo non ci piove e perché è indiscutibile che a quel
blocco di marmo abbia lavorato proprio lui. Ovviamente questo
varrebbe anche se la Pietà
Rondanini
ci fosse giunta ad un grado di maggiore incompiutezza: se le gambe
del Cristo, per esempio, non ci fossero giunte così ben rifinite, il
gruppo marmoreo non ci commuoverebbe esattamente come ci commuove? E
allora credo si ponga una questione: immaginando di poter disporre di
un time-lapse video di Michelangelo al lavoro sulla Pietà
Rondanini e
di farlo
scorrere
a ritroso, quand’è
che l’opera michelangiolesca, seppur incompiuta, smetterebbe di esser tale per diventare un informe blocco di marmo? Qual è il colpo di scalpello che
farebbe la differenza tra l’una e l’altro?
O forse la questione può esser posta in altri termini: se abbiamo
detto che il nostro giudizio sulla Pietà
Rondanini
è tutto intuitivo, in che punto del time-lapse video lasciato
scorrere a ritroso l’intuizione
non troverebbe più alcun appiglio? È azzardato credere che dovremmo
arrivare fino alla prima scalpellata o che addirittura prima, nel
blocco di marmo ancora intatto, potremmo già vedere l’ennesimo
capolavoro di Michelangelo? In fondo, questo non è quello che teorizzava lo
stesso Michelangelo, quando affermava che l’opera
d’arte stia già tutta dentro la materia dalla quale non attende altro che di essere tirata
fuori? Fatto: col commuoverci dinanzi alla Pietà
Rondanini
siamo diventati artisti di livello michelangiolesco. Peccato, solo,
che Michelangelo non possa controfirmare il capolavoro che abbiamo
virtualmente scolpito.
[...]
«Soudainement, tout cet amour se tourna en haine,
un mot d’ordre
infernal circula: “Tuons-le!
C’est le bon tyran, le plus exécrable de tous,
puisqu’il
ne nous laisse pas même le droit à la révolte”»
Alphonse
Daudet, Port-Tarascon (1890)
Quello
che rovina la ricorrenza del 25 aprile a logora pantomima di una
guerra civile, come ne fosse la lunga e necessaria coda perché i
vincitori non hanno vinto appieno e i vinti non hanno perso del
tutto, è la retorica della narrazione epica. Accade, così, che ogni
anno si riaprano sempre le stesse polemiche, come ferite mai guarite, e in realtà si
tratta di mestruazioni artificiose, indotte dall’estroprogestinico
della storia come eterno ritorno, e allora eccoci tutti, o quasi
tutti, a ridiscutere se
l’Italia
sia stata liberata più dai partigiani che dagli Alleati, se la lotta
di liberazione abbia avuto pagine di infamia, se si possa fare della
data un momento di unità nazionale equiparando le ragioni dei vinti
a quelle dei vincitori e perfino se non fosse meglio che l’uscita
dal Ventennio fascista avesse transizione meno traumatica. Il fatto
è, mi pare, che il 25 aprile non si può più né idealizzare né
revisionare più di quanto sia già stato fatto, sicché ogni
polemica si è ridotta a mera ombra di una guerra civile tra chi è
stato antifascista fin dal 1922 e chi rimasto fascista anche dopo il
1945, mentre sullo sfondo brulica la massa che fu fascista solo dal
1922 al 1945, e della quale non si è estinto il patrimonio genetico
di vile conformismo e cinico opportunismo. Questa massa non riuscirà
mai a elaborare il fascismo come colpa, né l’antifascismo
come riscatto, ma pretenderà di poter rivendicare a pieno titolo il
diritto di dare il suo consenso, sempre, a chi è tanto forte da poterlo
pretendere: si tratta del paese che riesce a concepire la propria libertà solo in
questo cortocircuito della responsabilità, come qualcosa che gli spetti a gratis. L’opposto
di come la Germania vive il suo passato nazista, che dunque può dire
definitivamente archiviato. A noi italiani non è dato: chi non
riesce ad ammettere di aver sbagliato può solo proiettare il proprio
sbaglio.
venerdì 24 aprile 2015
Lutti, guai e figure di merda
Al
problema dei barconi carichi di disperati che dalle coste d'Africa
salpano per l'Italia non mi stupisco che un idiota mosso solo dalla
preoccupazione di raccattare consenso abbia trovato una soluzione
che già sulla carta, prim'ancora diventi operativa, si può esser
certi non darà alcun risultato utile, ma solo lutti, guai e figure di merda.
Si tratterebbe – è
l'annuncio – di affondare i barconi prima che prendano il largo e
di dar la caccia agli scafisti sul suolo libico. E quando si
dovrebbero affondare questi barconi? Non quando siano già carichi di
migranti, c'è da augurarsi: non farebbe alcuna differenza affondarli
a un miglio da Zuara, mezz'ora dopo la partenza, o a un miglio da
Lampedusa, mezz'ora prima dell'arrivo, perché affogherebbero
comunque. Affondarli, allora, prima che a bordo vi salgano i migranti, ma senza i migranti a bordo come si può essere sicuri che si tratti di natanti destinati alla traversata del Canale di Sicilia? Si
affondano tutti gli scafi che, così, a naso, possano sembrare
utilizzabili dagli scafisti? Poi, eventualmente, si risarciscono i pescatori ai quali si è distrutto il peschereccio? E come ci si comporta con i gommoni, che
di solito vengono gonfiati solo poco prima della partenza? Li si affonda
quando sono già carichi, o cosa?
Perplessità non minori per quanto attiene
alla caccia agli scafisti. È da tempo, infatti, che al timone dei
natanti che partono dalla Libia ci sia un povero cristo scelto
all'ultimo momento, spesso solo perché sa usare un navigatore
satellitare, e come unico compenso ha qualche centinaio di euro e il
viaggio a gratis: ne arresti cento ed altri cento sono pronti a
prendere il loro posto. Oppure per scafisti dobbiamo intendere i veri
boss che organizzano i carichi, quelli che molto impropriamente, e con evidente affanno retorico, adesso vengono chiamati schiavisti, negrieri, ecc.? Spesso sono sconosciuti ai loro
stessi agenti operanti in loco e poi, quand'anche se ne
acchiappassero due, tre o dieci, il business che gestiscono è così
fiorente che sarebbero rimpiazzati in meno di una settimana. Perché
una cosa sembra non esser chiara a chi pensa che le partenze dei
barconi per l'Italia siano sostenute da un'offerta piuttosto che da
una domanda: sulla domanda lucrano gli scafisti, ma anche le tribù
locali, gli emissari dell'Isis e gli eserciti irregolari che si
spartiscono la Libia tra la Cirenaica e la Tripolitana, con ampie
aree di sovrapposizione e coincidenza.
Basta un minimo di
informazione su cosa sia la Libia, oggi, per aver chiara la
situazione relativa all'afflusso di migranti dal resto dell'Africa e
dal Medioriente in direzione obbligata verso l'Italia, e basta un
minimo di logica per capire che bloccare le partenze affondando i
barconi sia più una formula esorcistica che un programma. Come si arriva,
allora, a una soluzione così cretina? Semplice: cedendo alla
pulsione di saziare due opposti umori dell'opinione pubblica alla
tragedia che qualche giorno fa ha segnato il record di annegati, e
cioè la compassione per i disperati che rischiano la vita pur di
tentare di raggiungere Lampedusa e il sordo egoismo del caritatevole
“restassero a casa loro”. Superfluo dire che una bestialità del
genere è possibile sono nella più cieca ignoranza dell'incoercibile
forza che muove il flusso migratorio e nella più ottusa presunzione
di potervi mettere un freno. Così, invece di pensare a una risposta
seria, ecco l'ennesimo ritrovato di furbizia scema a mettere una
pecetta sull'emergenza, nell'attesa che l'onda di emozione cali, che
i rutti degli xenofobi si attenuino e che i migranti, se proprio
devono continuare a morire, lo facciano alla spicciolata, a dozzine
invece che a centinaia. Poi, difficile dire quanto più tragico o più ridicolo, vantare il risparmio di 5-6 milioni di euro al mese su Mare nostrum, che sarebbe meno di un decimo di quanto la corruzione ancora costa al contribuente.
Ecco, non stupisce che un idiota come Matteo
Renzi offra una cagata del genere spacciandola per soluzione seria:
non risolverà la questione dei migranti, ma terrà buono, almeno per
un po', chi si commuove al pensiero di donne e bambini chiusi in una
stiva in fondo al mare e chi non vuole clandestini a svaligiare
ville e jihadisti a rovinarci l'Expo. Potrebbe stupire, eventualmente, che non sia stato preso a calci in culo al vertice europeo presentando una proposta del genere, ma
si tratta di una soluzione che al momento torna comoda a Francia e a
Germania: si dimostrasse fallimentare, il peso solo ricadrebbe su chi
l'ha pensata.
giovedì 23 aprile 2015
martedì 21 aprile 2015
Sì, ma chi?
La revoca del mandato a rappresentare il Pd nella commissione parlamentare che sta discutendo l’Italicum non stupisce tanto per il numero dei deputati raggiunti dal provvedimento (dieci, roba mai vista), e nemmeno per l’indubbio peso che hanno i nomi di alcuni tra questi (Bersani, Cuperlo, Bindi), men che meno, poi, per quello che la decisione rivela della personale concezione che Renzi ha dell’essere segretario di un partito politico (in fondo, qui, non fa che confermarla), e ancor meno, se possibile, per l’ennesima prova di arroganza offerta da questa merda d’uomo (qui da intendersi come titolo di merito: specchio fedele del suo tempo, stessa sostanza, stessa consistenza): no, assai di più stupisce come, anche stavolta, questo coglione dopato di autostima incassi tanto agevolmente la soggezione di quanti sono fatti oggetto delle sue miserabili soperchierie da gradasso. Oppure no, neanche questo è degno di stupore, perché chi finora da lui ha subìto umiliazioni e dileggi non si è mostrato in grado di reagire neanche a ciò che intanto di assai più grave si andava consumando, e cioè la riduzione di un partito a comitato per la cura delle ambizioni personali di un parvenu di provincia, cafone quanto mai, e ignorantello, per giunta pure sbruffoncello, figuriamoci afferrarlo per il bavero, mollargli due ceffoni e urlargli in faccia: «Provaci ancora e ti sventro». Figurine esangui che lo hanno lasciato fare, incapaci di ammazzare il mostro in culla, prima, e ora destinate solo a stargli dietro, frustrate e riluttanti, sennò ad uscire dal partito, e per far cosa? Ne hanno paura, e lui visibilmente gode a vederli schiumar rabbia: tutto sommato, almeno per gli amanti del genere, può pure essere arrapante. Due ceffoni, invece, soprattutto se assestati in pubblico, ridimensionerebbero sensibilmente il Fenomeno: si tratta del solito ologramma che sembra persona vera solo fino alla prima interferenza di fase significativa, e l’immaginario che fin qui si è costruito addosso può svaporare solo se sbatte il grugno contro chi sappia usare modi più brutali dei suoi.
Sì, ma chi? Non avrebbe senso se si trattasse dello psicopatico di turno, potrebbe addirittura tornargli comodo. Idem se si trattasse di un leghista o di un grillino, anzi, peggio. Poi, sia chiaro, dovrebbe trattarsi di ceffoni (uno sarebbe poco, più di due potrebbe essere controproducente): gavettoni, torte in faccia, palle di letame, peggio che niente. E l’ideale sarebbe qualcuno della minoranza interna al Pd. Niente donne: siamo un paese intensamente maschilista, la volenterosa sarebbe marchiata a fuoco come isterica e il giorno dopo lui le manderebbe pure un mazzo di rose, con un risultato catastrofico rispetto allo scopo. L’uomo migliore sarebbe Bersani, ma figuriamoci, è uno che ha detto: «Preferisco ricevere un torto piuttosto che farlo», e (ahilui!) è pateticamente credibile, non ci riuscirebbe mai, neanche se in sogno glielo ordinasse Giovanni XXIII. Di Cuperlo, che pure andrebbe bene, non ne parliamo proprio: l’idea di rovinarsi il manicure e la reputazione lo terrebbero sul cesso con la diarrea fin dal giorno prima, e dopo, ammesso e non concesso ci riuscisse, si sentirebbe in dovere di espiare, probabilmente suicidandosi. In quanto a Civati, non ha il physique du role, né la congrua apertura palmare: buono semmai a intrattenere i giornalisti, dopo, sottolineando il significato politico del gesto. Fassina, ecco, Fassina sarebbe quello giusto, meglio poi se al gesto sapesse imprimere un tono epico, chessò, gridando: «E mo ci ha rotto il cazzo, dittatorello da strapazzo!». Ma è inutile contarci, alla minoranza del Pd piace un sacco essere maltrattata. Sacrificarsi per il bene del paese, poi, solo a lasciar l’impronta di un culo su una poltrona.
lunedì 20 aprile 2015
[…]
Uggesuggesuggesù, ma questo non è il Fini della Bossi-Fini. Salvo piroetta finale con un bel «e tuttavia», questo è uno che, dopo essersi fatto sfilare Alleanza Nazionale da Silvio Berlusconi, cerca di fottersi Emergency da Gino Strada.
Pietrangelo Buttafuoco, Il Feroce Saracino, Bompiani 2015
Nel mettermi dinanzi alla pagina bianca per scrivere dell’ultimo libro di Pietrangelo Buttafuoco (Il Feroce Saracino, Bompiani 2015), irresistibile è la tentazione di chiarire la mia posizione di lettore parafrasando quell’«io di mio» che apre il XV capitolo («Io di mio ho un nome saraceno»), e poi il XVII («Io di mio ho questa lunga storia d’amore con questo ritrovarmi saraceno»), attaccando con un’avvertenza che mi protegga da possibili fraintendimenti da parte chi si appresta a leggere questo tentativo di recensione (vedrete quanto impossibile): io di mio ho orrore perfino della trascendenza che ubriaca da millenni l’occidente, figurarsi se me ne bevo una d’importazione.
Tentazione irresistibile, questa di chiarire che non la bevo, perché in questo libro, assai più che in quelli precedenti, dove pure l’Islam emanava tutto il suo impeto proselitario in puro incanto, don Pietro (ora Giafar al-Siqilli) usa quell’«io di mio» a offrirsi come una soluzione autobiografica che ci dà per culminata nel sereno ritorno ad una casa che è di tutti, e a questo «io di mio» non si può negare quell’intrinseca forza di fascinazione che chi narra del suo viaggio riesce ad esercitare su chi ascolta, quando ci riesce, sicché Itaca può diventare facilmente patria anche di chi è nato a Oslo. Se ogni recensione è sempre, almeno per metà, un parlare di se stessi – seccatura che solo il recensore professionale può evitare a se stesso e ai suoi lettori – qui mi preme sbrigare la faccenda il più velocemente possibile: l’Islam di Pietrangelo Buttafuoco sembra avere una sola ma vitale urgenza esistenziale, quella di chiarirci che l’jihad è sforzo tutto interno, e che la vittoria sul Nemico sta nel pieno abbandono di se stessi ad una Verità che nella rivelazione del Profeta trova solo la piena conclusione – ma lo si scusa volentieri non sia poco – di ciò che Dio ha rivelato ad Abramo, e poi a Mosè, e poi a Gesù. Non è così, ovviamente. Perché l’jihad è anche campagna di conquista, come è connaturato nel dna comune a tutti i monoteismi. Perché la Verità che si fa legge nel Corano non è meno diversa da quella che si fa legge nei Vangeli di quanto sia diversa da quella che si fa legge mosaica. Se un tratto comune le apparenta, procede per ebrei, cristiani e musulmani da quella pesca a strascico che da oriente a occidente raccoglie suggestioni ancestrali di ogni genere, dalle pendici del Tibet alla sorgente del Nilo.
Per capire come possa riuscirci affascinante l’Islam di Pietrangelo Buttafuoco, bisogna immaginarcelo come un cristiano che vada per le strade di Parigi a declamare il Discorso della Montagna mentre i cattolici sgozzano gli ugonotti. Uno lo ascolta e non può fare a meno di dire: caspiterina, che religione di pace! E senza ironia, perché Giafar al-Siqilli è sufi genuino, onesto e convincente (per dire, Franco Battiato ne sembra una caricatura che suona come un soldo di latta), e non vogliamo avere dubbi che la società organica della tradizione sciita sia di un corporativo così caritatevole da essere l’ombra pur fievole della legge del Misericordioso. E poi, via, non ci sono cristiani che si limitano a testimoniare Cristo come incontro, con la sola forza dell’esempio, trasfigurando il dogma in pura immagine del Sovrumano, la precettistica in diario intimo e la preghiera in canto? No, eh? E vabbè, fa niente, come non detto, tanto qui era discussione un musulmano. Uno solo, sia chiaro.
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