mercoledì 6 maggio 2015

Avrà tanti limiti, Civati

Con una legge elettorale come l’Italicum mi ero riproposto di saltare il primo turno, per limitarmi a votare solo in caso di ballottaggio, e in quel caso per votare chiunque sulla scheda mi sarei trovato opposto a Matteo Renzi, anche un Beppe Grillo, anche un Matteo Salvini, anche un Silvio Berlusconi. Intenzioni che almeno in parte mi sento costretto da subito a rivedere per la decisione annunciata oggi da Pippo Civati: al primo turno voterò lui, in qualsiasi lista sarà candidato, qualunque sia il suo programma elettorale. Lo voterò perché la decisione di lasciare il gruppo parlamentare del Pd e le motivazioni che accompagnano questo passo conferiscono alla sua persona, seppur retrospettivamente, dimensioni eccezionali in tutta la storiaccia che si è conclusa con l’approvazione dell’Italicum, e so che può sembrare esagerato, ma si tenga conto che il livello medio della dignità morale e politica espressa dai parlamentari del Pd è stato pressappoco allaltezza di un Gennaro Migliore. Non farò mistero del fatto che dargli il mio voto servirà pure, e in buona misura, a risarcirlo di un’opinione non del tutto benevola che mi ero fatto sul suo conto: significa pure saldare un debito. Avrà tanti limiti, Civati, ma da oggi, almeno ai miei occhi, ha acquistato un merito enorme.  

Sull’analogia

Opinioni che potremmo stringare in formule del tipo «quella di Carminati è (o non è) mafia» o «quello di Renzi è (o non è) fascismo» sollevano sul piano retorico la questione delluso proprio (o improprio) dellanalogia. A tal riguardo, comè buona regola in ogni controversia, occorre chiarire la natura e la funzione di ciò che è in discussione, rammentando che nel discorso lanalogia «differisce dalla proporzione puramente matematica, in quanto non pone luguaglianza di due rapporti, ma afferma una somiglianza di rapporti, [sicché] mentre in algebra si pone a/b=c/d, [e] ciò consente di affermare per simmetria che c/d=a/b e di effettuare su questi termini operazioni matematiche che daranno luogo ad equazioni come ad-cb = 0, nellanalogia si afferma che a sta a b” come “c” sta a “d”, [e] dunque non si tratta più di una divisione, ma di un rapporto che viene assimilato ad un altro rapporto, [di modo che] fra la coppia “a-b” (il tema dell’analogia) e la coppia “c-d” (il foro dell’analogia) non si afferma un’uguaglianza simmetrica, ma un’assimilazione che ha per fine quello di chiarire, strutturare e valutare il tema grazie a ciò che si sa del foro» (Chaїm Perelman, Lempire rhétorique. Rhétorique et argumentation, 1977).
Posta questa premessa, dovrebbero cadere le obiezioni che contestano le legittimità dellanalogia nei casi sopra presi a esempio con controargomentazioni che potremmo stringare in formule del tipo «gli uomini di Carminati non avevano coppola e lupara» o «Renzi non ha squadracce che scorrazzano in lungo e in largo per lItalia con olio di ricino e manganello»: tema e foro non stanno in relazione di uguaglianza, ma di proporzione, la quale, dunque, non cade dinanzi allovvia constatazione che nulla somigli mai del tutto a nullaltro, non fossaltro perché nulla somiglia mai del tutto neppure a se stesso nel corso del suo divenire, come d’altronde è nel caso della mafia e nel caso del fascismo.
Lanalogia – sarà il caso di dirlo in modo esplicito – non pretende che sia attestata una peraltro sempre impossibile coincidenza, ma che sia riconosciuta quella serie di elementi che realizzino una puntuale relazione tra tema e foro, conservando per ciascuno una congrua proporzione. L’analogia, insomma, cade solo con la dimostrazione che questo tipo di relazione non abbia sostegno, non già che non sia in grado di comprovare una perfetta coincidenza tra tema e foro. Rigettando la liceità della naturale funzione che l’analogia ha nel discorso, si dimostra di temerne lefficacia. E il tentativo di delegittimarla come strumento improprio rivela lincapacità di contestarne l’uso che una corretta argomentazione non le preclude. 

martedì 5 maggio 2015

L’unica via

Dieci anni fa, di questi tempi, infuriava la battaglia sulla legge 40... Ok, «infuriava la battaglia» è bassa retorica, correggo subito...
Dieci anni fa, di questi tempi, mancavano pochi giorni al referendum sulla legge 40, e da un lato c’era chi voleva ne fossero abrogati almeno i punti che la rendevano tra le più stronze e crudeli della storia repubblicana, sgolandosi ad urlare dello scempio che infliggeva al buonsenso e alla Costituzione, mentre dall’altro c’era chi laveva voluta e, con assai miglior polso del paese, sapendo bene che da un popolo di merda il consenso non si ottiene invocando la logica e in nome dei principi, anzi, puntò sul vincere la partita senza combatterla nemmeno, sommando cinismo e strafottenza, per impedire che si raggiungesse il quorum. Sappiamo come andò: il quorum non fu raggiunto, la legge restò in vigore, e tutti, o quasi, a cantar lodi al cardinal Ruini, gran figlio di puttana, e perciò politico sopraffino. Sappiamo pure che fine ha fatto, in questi anni, la legge 40: smontata pezzo a pezzo da una dozzina di sentenze della Cassazione, ne resta in piedi solo il poco che sta a memoria della feroce idiozia che le diede vita.
Ma forse pure raccontarla a questo modo vuol dire far dellepica dove non c’è che cronaca. Andrebbe raccontata senza metterci passione, come l’apologo di una delle tante leggi che si scoprono essere incostituzionali solo dopo aver causato danni incalcolabili.
Leggi approvate nell’indifferenza pressoché generale dell’opinione pubblica, che rimane indifferente anche quando è chiamata a esprimere un parere su di esse. Come è stato col Porcellum, no? Anche in quel caso il referendum non interessò più di tanto, anche in quel caso s’è dovuto aspettare una sentenza che lo dichiarasse incostituzionale.
Non c’è dubbio che così sarà anche per l’Italicum, la cui approvazione, oggi, incorona Renzi come gran figlio di puttana, e perciò politico sopraffino. Lo schema – il solito – si ripropone: un mascalzone scrive una legge a cazzo di cane, una maggioranza parlamentare di insulse comparse lapprova, una corte di ruffiani leva al cielo losanna per cotanta vis legislativa, le opposizioni bestemmiano e raccolgono firme per abrogare lobbrobrio, mentre il resto del paese se ne fotte, perché «capolista bloccato» è termine incomprensibile almeno quanto «ovocita fecondato».
Per carità di Dio, raccoglietele, ste firme, ché val la pena spendersi pure per le guerre perse in partenza. Ma non sperate troppo in quella che chiamate «gente», perché ormai da tempo è plebe. Appena sarà pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale, sottoponete lItalicum alla Corte Costituzionale: lunica via è quella.

lunedì 4 maggio 2015

[...]

Quando non trattato, lipotiroidismo congenito porta inevitabilmente a gravi forme di ritardo mentale. È una patetica arrampicata sugli specchi, dunque, concedere che cretino derivi da cristiano (fr. chrétiencrétin), ma obiettare che in origine non venisse usato, come oggi accade, per indicare un individuo di scarsa intelligenza, ma una persona affetta da cretinismo, termine che fino a qualche decennio fa era usato proprio per definire il quadro clinico dellipotiroidismo congenito non trattato. A conferma, tuttavia, che cretino e cristiano indichino una consimile condizione di deficit mentale cè quella nota acquiescenza del cretino alle derive autoritarie che nel cristiano trova ragione nel «non cè autorità se non da Dio» (Rm 13, 1). Certo, Paolo lavrà detto per dare unaria inoffensiva ai suoi e per strappare un po di tolleranza a Nerone, fatto sta che il monito a sottomettersi allautorità, perché chi vi si oppone «si oppone allordine stabilito da Dio» (Rm 13, 2), tornò utile dopo il patto stretto tra trono e altare, sicché potremmo dire che da chrétien si passa a crétin quando lacquiescenza a questo o quel tiranno perde la funzione di trasporre lintesa tra Stato e Chiesa nella coincidenza di obbedienza nel suddito e nel fedele, per diventare il riflesso condizionato che porta a vedere in ogni dittatore un Uomo della Provvidenza. Quando questo passaggio si è compiuto, non ha più alcuna rilevanza che il cretino sia anche cristiano, perché sarà acquiescente alla dittatura anche in quei rari casi in cui la Chiesa non vi avrà stretto un concordato, e tuttavia in lui resta ladorazione della forza come manifestazione del divino. Il lungo ragionare per venticinque secoli su come la forza si legittimi in potere, e su come il potere si legittimi in autorità, non gli appartiene: ogni ipertiroideo gli sembra Dio.

domenica 3 maggio 2015

sabato 2 maggio 2015

[...]

Lidea di cambiare il «siam pronti alla morte» dellInno di Mameli con un «siam pronti alla vita» è duna imbecillità che sapparenta a quella di mettere la lancetta dei minuti all’orologio di Palazzo Vecchio (ricordate?), dunque è probabile che lItalia renziana ladotterà in via definitiva. Resta la questione della rima con «stringiamci a coorte», che così salta, ma, se tanto mi dà tanto, probabilmente si provvederà con un «partiam per la gita» o un «la cena è servita».

venerdì 1 maggio 2015

L’uovo del serpente

Più o meno un anno e mezzo fa ho scritto che sarebbe «buona norma, quando si polemizza, essere onesti con gli altrui argomenti e usare toni garbati», ma che purtroppo questo «non sempre è possibile», perché «spesso fallacia chiama fallacia, sarcasmo chiama sarcasmo, e qualche volta la polemica degenera in rissa», sicché, «quando voglio evitare che questo accada, e tuttavia sento irrinunciabile la polemica avverso una tesi che ritengo insostenibile», ho l’abitudine di «prendere in considerazione solo gli argomenti che in sostegno di quella tesi sono prodotti da persona di riprovata onestà intellettuale e d’indole affabile». Eccomi, dunque, a prendere in considerazione gli argomenti che Formamentis ritiene destituiscano di fondamento la mia convinzione che Matteo Renzi costituisca un grave pericolo per la democrazia, non prima però di confessare di essere lieto che Formamentis abbia voluto che questo scambio di opinioni sia pubblico, per darmi modo di ricalibrare meglio il giudizio estremamente duro che ho espresso su chi la pensa come lui, e che mi ha procurato alcuni severi rimproveri. Qualche giorno fa, infatti, ho scritto che considero un «fiancheggiatore» di Matteo Renzi chiunque minimizzi la gravità delle sue scelleratezze, soprattutto poi se col sarcasmo nei confronti di chi le ritenga articolate in un processo di deriva autoritaria teso a fare della democrazia formale un guscio vuoto di ogni sostanza, né sono riuscito a trovare attenuanti alla buona fede che concedevo possa pure motivare questa complicità di fatto, perché lho definita, seppur con sofficissime perifrasi, da fessi: quei fessi che non sono mai mancati a sottovalutare i prodromi di ogni catastrofe, pensando che bastasse toccarsi le palle per scongiurare i pericoli segnalati da una Cassandra.
Bene, per affrontare la questione, Formamentis è l’interlocutore ideale. Tutto è meno che fesso. Sa polemizzare senza incorrere in scorrettezze. Nel post col quale mi interpella, poi, quasi a far presente che non ha alcuna intenzione di cedere al sarcasmo, propone che la discussione abbia uno scanzonato registro ironico e autoironico. Infatti attacca così: «Ne discutevo oggi con Luigi: stiamo scivolando verso una dittatura mascherata, finiremo come la Bielorussia? Questo non credo». «Questo non credo»: nelluso di una frase che evoca il Razzi di Crozza vedo l’invito a toni leggeri, che accetto con piacere. E dunque: (1) «che ci sia in questo momento una posizione dominante di Renzi è evidente, ma questo principalmente per la pochezza degli avversari»; (2) «quella di Renzi non la vedo come unegemonia tale da impedire la riorganizzazione e la futura affermazione dellavversario, [...] ma a questa alternativa si dovrà pur dare il tempo di riorganizzarsi»; (3) «io penso che la democrazia oggi si trovi svuotata non tanto da Renzi quanto dalle stringenti necessità del sistema economico e finanziario con le quali si trova a fare i conti»; (4) «mi piacerebbe capire cosè democrazia per Luigi: quando possiamo sostanzialmente esserne certi, quando da forma ridiventa sostanza». Temo che lultimo punto mi prenderà un po di tempo, ma per i primi tre credo si possa fare in fretta.
E dico subito che sono d’accordo: al momento, Renzi non ha avversari in grado di opporglisi efficacemente. Daccordo, ma questo in cosa costituirebbe argomento ad escludere che la sua forza possa essere impiegata per renderne irreversibile la preponderanza? Se io sono fisicamente assai più forte di Formamentis, questo renderà possibile o meno che io lo massacri di botte, tuttè vedere se lo faccio, se minaccio di farlo o se semplicemente abuso della possibilità di farlo per impedirgli in qualche modo di acquistare forza pari o superiore alla mia. È sulle azioni di Renzi, dunque, che va valutato luso che egli intenda fare della sua forza e a me pare che nel metodo e nel merito sia indiscutibile che le intenzioni non siano delle migliori. Larmamentario caratteriale, attitudinale e comportamentale è quello del despota cinico, spregiudicato, vendicativo, smisuratamente ambizioso, con una irrefrenabile smania di accentramento del potere nella sua persona, cui non manca neanche uno dei tratti che sono distintivi della personalità pesantemente disturbata dalle caratteristiche pulsioni del mentitore abituale, del manipolatore, del narcisista, del sadico, che costituiscono la configurazione psicopatologica costante in ogni dittatore. Se posso esprimermi con unimmagine, direi che Renzi sia luovo del serpente. Posso concordare anche sul fatto che a covarlo possano essere state le circostanze storiche – certo, accade così per ogni tiranno, non è che dipenda dal segno zodiacale – ma questo in cosa lo rende meno pericoloso? Dovremmo trattarlo da epifenomeno e tollerarlo come sintomo di un febbrone che deve fare il suo naturale decorso? Non escludo che qualcuno possa obiettare che le suddette caratteristiche siano in vario grado riscontrabili in ogni professionista della politica e in ogni amministratore della cosa pubblica, per cui trovarle così marcatamente rappresentate in Renzi sarebbe prova delleccezionalità di doti che sono necessarie e intrinseche al ruolo. Bene, penso che questo sia il sintomo più grave della malattia sociale che per prognosi si dà lo stato organico, la coincidenza tra partito e stato, la proiezione di una nazione in un solo uomo. Più che Renzi, disprezzo chi lo ammira come politico. E il disprezzo diventa immenso se lo ammira pure come uomo.
Più complessa è la risposta alla domanda con la quale Formamentis chiude il suo post. Qui, dicevo, sarebbe necessario molto tempo, ma mi rendo conto di aver tediato già abbastanza i nostri lettori, perciò, con tutti i rischi del caso, mi limito a dire che per me la democrazia è la condizione nella quale si realizzi la piena rappresentatività di ogni cittadino nellesercizio della sovranità popolare, le cui linee direttrici devono fedelmente riprodurre le proporzioni di volontà che concorrono a determinarle. Tanto più la forma della democrazia si riempie di sostanza quanto meno la rappresentatività venga sacrificata alla governabilità. In altri termini: quanto meno ciò che la democrazia affida a tutti e a ciascuno venga requisito da uno o da pochi – o a pochi o ad uno ceduto – nella sospensione o nella illimitata dilazione della funzione di controllo. Ma qui è assai probabile che la voglia di stringere mi abbia fatto incorrere in qualche ambiguità di formula. Ci ritornerò sopra.

giovedì 30 aprile 2015

[...]


La chute

«C’est l’histoire d’une société qui tombe
et qui au fur et à mesure de sa chute
se répète sans cesse pour se rassurer:
Jusqu’ici tout va bien, jusqu’ici tout va bien,
jusqu’ici tout va bien”. Mais limportant
n’est pas la chute, c’est l’atterrissage»

La Haine (Mathieu Kassovitz, 1995)


Quel che resta del disprezzo che va a Renzi spetta di diritto ai fiancheggiatori che ne agevolano le scelleratezze minimizzandone la gravità col sarcasmo di cui fanno oggetto chi invece la avverte e la segnala. Naturale inclinazione all’acquiescenza, strafottenza come surrogato di piena padronanza delle situazioni, mera ignavia come esorcismo contro ogni genere di pericolo – poco importa cosa li muova a sbertucciare, peraltro con piatta uniformità di toni, chi nella migliore delle ipotesi considerano un malato d’ansia, sennò un subdolo inoculatore di velenoso allarmismo. Nel più plateale precipitare di peggio in peggio, questi miserabili continueranno sempre a dire: «Jusqu’ici tout va bien», fino alla fine, e a reagire con un moto di fastidio a chi fa presente che tutto precipita. Sarà una puttanata che «la plus belle desruses du Diable est de vous persuader quil nexiste pas» (Charles Baudelaire), di certo non cè dittatura che possa fare a meno del brodo di coltura che le dà nutrimento con lottusa indolenza di quanti si rifiutano di vederla, che poi sono gli stessi che ingrassano nelle sue pieghe. Forse occorre risparmiare un po del disprezzo che va a Renzi per lasciarlo a loro. 

mercoledì 29 aprile 2015

Solo artigianato

La differenza tra un grande artista ed uno dei garzoni della sua bottega che mai riuscirà a toccare i vertici espressivi del maestro, rimanendo in eterno un «anonimo della scuola di», non sta tanto in un difetto della tecnica, che anzi può essere facilmente appresa, laddove vi sia un minimo di applicazione, ma nella incapacità di darle efficacia infondendo alla materia una qualità che la trascenda, conferendole il potere di dare vita propria a ciò che rappresenta.
Per semplificare potremmo dire che questa differenza fa la distanza tra creazione e ricreazione, tra scoperta e invenzione, tra respiro e insufflo, il che spiega come un apprendista possa essere arrivato pure a riempire tre quarti di una tela, e con resa ineccepibile, ma perché il quadro sia un capolavoro occorre che al resto abbia pensato chi possedeva la superiore virtù di riuscire ad animarlo.
Questo, tuttavia, neanche basta a poter dire che il garzone sia mera proiezione dellartista, comè dato constatare dalla possibilità di riconoscere, almeno ad unanalisi supportata da strumenti congrui allo scopo, due mani differenti in quel quadro pur nella perfetta omogeneità del tutto.
È questo, in definitiva, che consente, ovviamente a chi abbia tutta lesperienza necessaria per non cadere nellinfortunio dellerrata attribuzione, di poter riconoscere in unopera di un grande artista il contributo di un oscuro e pur valente collaboratore.

Se la premessa non vi ha sfiancato, passiamo a considerare Claudio Cerasa alla direzione de Il Foglio. Non malaccio negli sfondi, nei panneggi e nelle anatomie, ma quando mette mano alla filosofia politica – chiamiamola così – il quadro diventa irrimediabilmente crosta.
Giuliano Ferrara si prostrava in estasi davanti al Potere, non ha importanza in quale forma gli apparisse, né da quale istinto procedesse, riuscendo a prodursi in salmi di feroce cinismo che offriva a questo o quel fetente come pergamene attestanti lincontestabilità di un titolo, ed erano pezzulli degni del più zelante dei sacerdoti a guardia del Tempio, editoriali di una brutalità che ardeva come arde il fuoco sacro che vorace esige il tributo di una vittima, e tutto era in ossequio alla magnificenza dell’arbitrio solennemente legittimato in privilegio, e con brillanti concessioni ad un immaginifico che pescava nei registri alti e in quelli bassissimi... Insomma, leccava il culo al potente di turno, ma ci metteva l’arte.
Cerasa, no. Quand’anche sta sull’uscio di bottega in posa da titolare, Cerasa è destinato ad essere garzone a vita. Lecca pure lui, ma non ci mette l’estasi: si vede che per lui il Potere è solo forza meccanica, non energia dinamica. Maramaldeggia pure lui i deboli, quello è naturale, fa parte dellinsegnamento e del lascito, ma invece della lectio sulla necessità che il pesce grande mangi il pesce piccolo, cui il vocione di Ferrara dava un bel cupo rotto solo dalla folgore di un «così va il mondo, bellezza», Cerasa si limita a spiegar loro che non è tanto Renzi ad essere squalo quanto loro ad essere merluzzi: «La democrazia viene sospesa quando le opposizioni non funzionano e non rappresentano un’opzione» (Il Foglio, 29.4.2015). Anche di pregio, insomma, ma solo artigianato.

Segnalibro

Tirando giù dagli scaffali alti un po di materiale relativo alla «legge truffa», lultimo volume dell’Opera Omnia di Luigi Sturzo si apre a caso sul disegno di legge n. 124 del 16 settembre 1958, che riguarda tuttaltro tema, quello del profilo giuridico dei partiti politici, qui chiamato in causa soprattutto per laspetto relativo al loro finanziamento. Centra poco con quello che cercavo – gli estremi della polemica tra Sturzo e De Gasperi sul premio di maggioranza – ma come segnalibro per queste pagine può tornare utile in futuro.


martedì 28 aprile 2015

[...]

«Mi auguro che il governo non metta il voto di fiducia sull’Italicum. Se verrà messo, forse non risponderò all’appello, ma escludo di votare no alla fiducia», così Rosy Bindi (Piazza Pulita – La7, 27.4.2015), e c’è da scommettere che questa sarà la linea di quasi tutta la minoranza interna al Pd, quella che tanto ha starnazzato fin qui su quanto l’Italicum faccia schifo e su quanto faccia schifo metterci sopra il voto di fiducia: in sostanza, queste patetiche figurine non renderanno mai i loro voti utili ad impedire che la schifezza diventi legge dello Stato, neppure se schifoso dovess’essere il modo in cui si arriverà alla sua approvazione. Come volevasi dimostrare, anzi, anche peggio, perché ieri ho scritto che, «se passerà l’Italicum, sarà perché l’avrà votato un congruo numero di deputati del Pd», e che «poco importa quanto saranno stati i dissidenti che alle ragioni di opportunità avranno opposto quelle di principio, perché vuol dire che saranno stati comunque irrilevanti»: qui non solo le ragioni di principio si piegano a quelle di opportunità, ma queste ultime vengono addirittura dichiarate indiscutibili. Non c’è un Pd buono e uno cattivo, ce n’è uno solo, ed è tutto – volente o nolente – renziano. Sembra uno scontro interno, ma in fondo è solo un gioco delle parti.

lunedì 27 aprile 2015

È assai probabile che l’Italicum passi alla Camera

È assai probabile che lItalicum passi alla Camera, e le probabilità aumentano col contingentamento degli interventi cui si ricorrerà nel caso in cui la discussione in aula slitti davvero di una settimana, come sembra nelle intenzioni di Matteo Renzi, che pensa, e a ragione, di poterla utilizzare anche per far cambiare idea a qualche deputato della minoranza interna del Partito Democratico, che daltronde è assai poco compatta e ha già dato numerose prove di ambiguità morale prima che politica verso il segretario del partito, oltre che per raccattare consensi dalla fronda che in Forza Italia ha nostalgie per il Patto del Nazareno, così sfruttando a suo vantaggio leventualità di un voto segreto.
Matteo Renzi, dunque, non ha torto nel sentirsi relativamente sicuro che il mostro sarà infine partorito: nelle sue smargiassate cè un bluff assai ben calcolato sullevidenza che i suoi avversari non hanno in mano carte forti. Certo, con una straordinaria concordanza di eventi a suo sfavore potrebbe anche cadere sul voto, e nel caso si trattasse di un voto di fiducia perderebbe Palazzo Chigi, il che potrebbe pure ridimensionare in modo drastico il suo peso allinterno del suo partito, ma tutto questo, sulla base delle forze in campo, è ipotesi che può coccolare solo chi pensa che Matteo Renzi sia un mero accidente.
In realtà, si tratta del prodotto di una crisi della democrazia che investe buona parte del mondo occidentale: se in Italia assume il volto di un arrogante gradasso dai modi spicci, è solo perché da noi la democrazia è sempre stata assai debole, tutta formale, e a volte neanche. Un paese di merda merita per premier un uomo di merda, tutto qui, e se è vero che le prove più dure saggiano la reale natura di un popolo, rivelandone le virtù se ne possiede, sennò portando a galla quello che nel fondo ha di peggio, una crisi economica come quella che ha preso avvio nel 2008, ma che si è solo limitata a rendere più esplicita ed acuta una debolezza da decenni intrinseca al sistema, non poteva che generare tal genere di mostruosità: lennesimo avventuriero convinto di poter essere luomo forte di cui il paese abbia linconfessato bisogno.
Non a torto, occorre dire, perché, al netto della forza che un borderline di questo tipo raccoglie a strascico gettando la sua rete nel vasto mare del conformismo e dellopportunismo, e che in fondo non serve ad altro che a dargli una patina di legittimità, il bisogno di essere guidati da un Uomo della Provvidenza non risparmia le oligarchie che detengono il controllo delleconomia, con quanto ne consegue sugli strumenti che formano lopinione pubblica: bisogno che qui deriva dalla nota consuetudine a ritenere, non senza ottime ragioni, che quando lUomo della Provvidenza torni dimpiccio, pur pagando il necessario e dovendo perderci un po di tempo, si può sempre sacrificarlo, dandolo in pasto ad una plebe adeguatamente resa feroce.
E dunque Matteo Renzi è forte, seppur di questo genere di forza. Sullapprovazione dellItalicum dice di voler scommetter tutto ed è molto improbabile che perda la partita. Che poi la Corte Costituzionale, tra tre anni o cinque o sette, sentenzi che lItalicum debba fare la stessa fine del Porcellum, con quanto nel frattempo grazie allItalicum sarà stato possibile far rendita, questo è tuttun altro paio di maniche. Al più, darà soddisfazione a quanti fin dora segnalano i patenti punti di incostituzionalità del ddl che la Camera approverà entro la fine di maggio.
Su cosa questa legge elettorale cambierà nellattuale assetto politico e, ancor più, in quello istituzionale, soprattutto col combinato disposto di un Senato non elettivo, non sarà il caso di intrattenerci troppo: su queste pagine se nè già parlato e commentatori molto più autorevoli hanno espresso analogo parere, per giunta con argomentazioni di incommensurabile rilievo tecnico. Nemmeno varrà la pena di intrattenerci troppo su cosa cambierà nella percezione che il cittadino avrà dello Stato, perché il progetto di cui l’Italicum non è che un passaggio appare evidente in ogni singola sfaccettatura dell’azione di questo governo, dall’idea di depotenziare gli organi collegiali attualmente operanti nella scuola per creare una figura di preside che delle sue decisioni su studenti e corpo insegnante risponda al Ministero dell’Istruzione come un prefetto era tenuto a rispondere al Ministero dell’Interno nel Ventennio fascista, fino al tentativo, in buona parte già riuscito, di avocare al potere esecutivo buona parte delle naturali prerogative di quello legislativo e di quello giudiziario: in sostanza, avremo un’Italietta piramidale che per base avrà una soggezione grata delle eventuali briciole che pioveranno da un vertice che tradurrà in arbitrio il consenso.
In nome della stabilità del sistema, si dice, e infatti cosa c’è di più solido di un sistema autoritario, finché regge? Oppure, come pure si dice, ma qui per quell’irrefrenabile inclinazione all’ipocrisia che è il sintomo più genuino dell’istinto antidemocratico rintanato nelle più fetide nicchie della democrazia formale, in nome della governabilità.
Il lavoro per demolire questo costrutto sarà arduo e ingrato, lungo e senza certezza di buon esito. Ci attendono decenni che imporranno prezzi enormi a chi oserà mettere in discussione l’Italia che sta per prender forma da una legge elettorale come quella sulla quale è chiamata a esprimersi la Camera. Una sola è la certezza: se passerà l’Italicum, sarà perché l’avrà votato un congruo numero di deputati del Partito Democratico. Poco importa quanto saranno stati i dissidenti che alle ragioni di opportunità avranno opposto quelle di principio, perché vuol dire che saranno stati comunque irrilevanti: volontariamente irrilevanti, poi, se sceglieranno di restare in un partito la cui maggioranza sia stata capace di approvare una simile legge elettorale. Il Partito Democratico, insomma, potrà comunque essere considerato in blocco il peggior nemico della democrazia. Chiunque l’abbia a cuore sarà moralmente e politicamente autorizzato ad ogni mezzo utile per precipitarlo nell’infamia e nella rovina, e allora ben vengano le iniziative strumentali della magistratura cosiddetta politicizzata: chiuderemo un occhio se peccheranno di qualche sbavatura procedurale. A brigante – dura lex, sed lex – brigante e mezzo.

domenica 26 aprile 2015

[...]


Se Michelangelo lavesse portata a termine, la Pietà Rondanini sarebbe stata senza dubbio quel capolavoro che si intuisce rimarrà per sempre imprigionato in quel di più che restava da togliere al blocco di marmo. Fatto sta che questa intuizione ci è data solo dal sapere chi fosse Michelangelo e quanto sublime fosse la sua arte, sicché dovremmo rivedere il giudizio che oggi diamo di questopera incompiuta il giorno che scoprissimo non fosse sua, ipotetica che per nostra fortuna è del terzo tipo, giacché le fonti che glielattribuiscono sono incontestabili. In sostanza, il nostro giudizio sulla Pietà Rondanini può dirsi al sicuro da ripensamenti perché sulla bravura di Michelangelo non ci piove e perché è indiscutibile che a quel blocco di marmo abbia lavorato proprio lui. Ovviamente questo varrebbe anche se la Pietà Rondanini ci fosse giunta ad un grado di maggiore incompiutezza: se le gambe del Cristo, per esempio, non ci fossero giunte così ben rifinite, il gruppo marmoreo non ci commuoverebbe esattamente come ci commuove? E allora credo si ponga una questione: immaginando di poter disporre di un time-lapse video di Michelangelo al lavoro sulla Pietà Rondanini e di farlo scorrere a ritroso, quandè che lopera michelangiolesca, seppur incompiuta, smetterebbe di esser tale per diventare un informe blocco di marmo? Qual è il colpo di scalpello che farebbe la differenza tra luna e laltro? O forse la questione può esser posta in altri termini: se abbiamo detto che il nostro giudizio sulla Pietà Rondanini è tutto intuitivo, in che punto del time-lapse video lasciato scorrere a ritroso lintuizione non troverebbe più alcun appiglio? È azzardato credere che dovremmo arrivare fino alla prima scalpellata o che addirittura prima, nel blocco di marmo ancora intatto, potremmo già vedere lennesimo capolavoro di Michelangelo? In fondo, questo non è quello che teorizzava lo stesso Michelangelo, quando affermava che lopera d’arte stia già tutta dentro la materia dalla quale non attende altro che di essere tirata fuori? Fatto: col commuoverci dinanzi alla Pietà Rondanini siamo diventati artisti di livello michelangiolesco. Peccato, solo, che Michelangelo non possa controfirmare il capolavoro che abbiamo virtualmente scolpito.

[...]

«Soudainement, tout cet amour se tourna en haine,
un mot d’ordre infernal circula: Tuons-le!
C’est le bon tyran, le plus exécrable de tous,
puisqu’il ne nous laisse pas même le droit à la révolte»

Alphonse Daudet, Port-Tarascon (1890)



Quello che rovina la ricorrenza del 25 aprile a logora pantomima di una guerra civile, come ne fosse la lunga e necessaria coda perché i vincitori non hanno vinto appieno e i vinti non hanno perso del tutto, è la retorica della narrazione epica. Accade, così, che ogni anno si riaprano sempre le stesse polemiche, come ferite mai guarite, e in realtà si tratta di mestruazioni artificiose, indotte dallestroprogestinico della storia come eterno ritorno, e allora eccoci tutti, o quasi tutti, a ridiscutere se lItalia sia stata liberata più dai partigiani che dagli Alleati, se la lotta di liberazione abbia avuto pagine di infamia, se si possa fare della data un momento di unità nazionale equiparando le ragioni dei vinti a quelle dei vincitori e perfino se non fosse meglio che luscita dal Ventennio fascista avesse transizione meno traumatica. Il fatto è, mi pare, che il 25 aprile non si può più né idealizzare né revisionare più di quanto sia già stato fatto, sicché ogni polemica si è ridotta a mera ombra di una guerra civile tra chi è stato antifascista fin dal 1922 e chi rimasto fascista anche dopo il 1945, mentre sullo sfondo brulica la massa che fu fascista solo dal 1922 al 1945, e della quale non si è estinto il patrimonio genetico di vile conformismo e cinico opportunismo. Questa massa non riuscirà mai a elaborare il fascismo come colpa, né l’antifascismo come riscatto, ma pretenderà di poter rivendicare a pieno titolo il diritto di dare il suo consenso, sempre, a chi è tanto forte da poterlo pretendere: si tratta del paese che riesce a concepire la propria libertà solo in questo cortocircuito della responsabilità, come qualcosa che gli spetti a gratis. Lopposto di come la Germania vive il suo passato nazista, che dunque può dire definitivamente archiviato. A noi italiani non è dato: chi non riesce ad ammettere di aver sbagliato può solo proiettare il proprio sbaglio.

venerdì 24 aprile 2015

Lutti, guai e figure di merda

Al problema dei barconi carichi di disperati che dalle coste d'Africa salpano per l'Italia non mi stupisco che un idiota mosso solo dalla preoccupazione di raccattare consenso abbia trovato una soluzione che già sulla carta, prim'ancora diventi operativa, si può esser certi non darà alcun risultato utile, ma solo lutti, guai e figure di merda.
Si tratterebbe – è l'annuncio – di affondare i barconi prima che prendano il largo e di dar la caccia agli scafisti sul suolo libico. E quando si dovrebbero affondare questi barconi? Non quando siano già carichi di migranti, c'è da augurarsi: non farebbe alcuna differenza affondarli a un miglio da Zuara, mezz'ora dopo la partenza, o a un miglio da Lampedusa, mezz'ora prima dell'arrivo, perché affogherebbero comunque. Affondarli, allora, prima che a bordo vi salgano i migranti, ma senza i migranti a bordo come si può essere sicuri che si tratti di natanti destinati alla traversata del Canale di Sicilia? Si affondano tutti gli scafi che, così, a naso, possano sembrare utilizzabili dagli scafisti? Poi, eventualmente, si risarciscono i pescatori ai quali si è distrutto il peschereccio? E come ci si comporta con i gommoni, che di solito vengono gonfiati solo poco prima della partenza? Li si affonda quando sono già carichi, o cosa?
Perplessità non minori per quanto attiene alla caccia agli scafisti. È da tempo, infatti, che al timone dei natanti che partono dalla Libia ci sia un povero cristo scelto all'ultimo momento, spesso solo perché sa usare un navigatore satellitare, e come unico compenso ha qualche centinaio di euro e il viaggio a gratis: ne arresti cento ed altri cento sono pronti a prendere il loro posto. Oppure per scafisti dobbiamo intendere i veri boss che organizzano i carichi, quelli che molto impropriamente, e con evidente affanno retorico, adesso vengono chiamati schiavisti, negrieri, ecc.? Spesso sono sconosciuti ai loro stessi agenti operanti in loco e poi, quand'anche se ne acchiappassero due, tre o dieci, il business che gestiscono è così fiorente che sarebbero rimpiazzati in meno di una settimana. Perché una cosa sembra non esser chiara a chi pensa che le partenze dei barconi per l'Italia siano sostenute da un'offerta piuttosto che da una domanda: sulla domanda lucrano gli scafisti, ma anche le tribù locali, gli emissari dell'Isis e gli eserciti irregolari che si spartiscono la Libia tra la Cirenaica e la Tripolitana, con ampie aree di sovrapposizione e coincidenza.
Basta un minimo di informazione su cosa sia la Libia, oggi, per aver chiara la situazione relativa all'afflusso di migranti dal resto dell'Africa e dal Medioriente in direzione obbligata verso l'Italia, e basta un minimo di logica per capire che bloccare le partenze affondando i barconi sia più una formula esorcistica che un programma. Come si arriva, allora, a una soluzione così cretina? Semplice: cedendo alla pulsione di saziare due opposti umori dell'opinione pubblica alla tragedia che qualche giorno fa ha segnato il record di annegati, e cioè la compassione per i disperati che rischiano la vita pur di tentare di raggiungere Lampedusa e il sordo egoismo del caritatevole “restassero a casa loro”. Superfluo dire che una bestialità del genere è possibile sono nella più cieca ignoranza dell'incoercibile forza che muove il flusso migratorio e nella più ottusa presunzione di potervi mettere un freno. Così, invece di pensare a una risposta seria, ecco l'ennesimo ritrovato di furbizia scema a mettere una pecetta sull'emergenza, nell'attesa che l'onda di emozione cali, che i rutti degli xenofobi si attenuino e che i migranti, se proprio devono continuare a morire, lo facciano alla spicciolata, a dozzine invece che a centinaia. Poi, difficile dire quanto più tragico o più ridicolo, vantare il risparmio di 5-6 milioni di euro al mese su Mare nostrum, che sarebbe meno di un decimo di quanto la corruzione ancora costa al contribuente.
Ecco, non stupisce che un idiota come Matteo Renzi offra una cagata del genere spacciandola per soluzione seria: non risolverà la questione dei migranti, ma terrà buono, almeno per un po', chi si commuove al pensiero di donne e bambini chiusi in una stiva in fondo al mare e chi non vuole clandestini a svaligiare ville e jihadisti a rovinarci l'Expo. Potrebbe stupire, eventualmente, che non sia stato preso a calci in culo al vertice europeo presentando una proposta del genere, ma si tratta di una soluzione che al momento torna comoda a Francia e a Germania: si dimostrasse fallimentare, il peso solo ricadrebbe su chi l'ha pensata.

giovedì 23 aprile 2015

martedì 21 aprile 2015

Sì, ma chi?

La revoca del mandato a rappresentare il Pd nella commissione parlamentare che sta discutendo l’Italicum non stupisce tanto per il numero dei deputati raggiunti dal provvedimento (dieci, roba mai vista), e nemmeno per l’indubbio peso che hanno i nomi di alcuni tra questi (Bersani, Cuperlo, Bindi), men che meno, poi, per quello che la decisione rivela della personale concezione che Renzi ha dell’essere segretario di un partito politico (in fondo, qui, non fa che confermarla), e ancor meno, se possibile, per l’ennesima prova di arroganza offerta da questa merda d’uomo (qui da intendersi come titolo di merito: specchio fedele del suo tempo, stessa sostanza, stessa consistenza): no, assai di più stupisce come, anche stavolta, questo coglione dopato di autostima incassi tanto agevolmente la soggezione di quanti sono fatti oggetto delle sue miserabili soperchierie da gradasso. Oppure no, neanche questo è degno di stupore, perché chi finora da lui ha subìto umiliazioni e dileggi non si è mostrato in grado di reagire neanche a ciò che intanto di assai più grave si andava consumando, e cioè la riduzione di un partito a comitato per la cura delle ambizioni personali di un parvenu di provincia, cafone quanto mai, e ignorantello, per giunta pure sbruffoncello, figuriamoci afferrarlo per il bavero, mollargli due ceffoni e urlargli in faccia: «Provaci ancora e ti sventro». Figurine esangui che lo hanno lasciato fare, incapaci di ammazzare il mostro in culla, prima, e ora destinate solo a stargli dietro, frustrate e riluttanti, sennò ad uscire dal partito, e per far cosa? Ne hanno paura, e lui visibilmente gode a vederli schiumar rabbia: tutto sommato, almeno per gli amanti del genere, può pure essere arrapante. Due ceffoni, invece, soprattutto se assestati in pubblico, ridimensionerebbero sensibilmente il Fenomeno: si tratta del solito ologramma che sembra persona vera solo fino alla prima interferenza di fase significativa, e l’immaginario che fin qui si è costruito addosso può svaporare solo se sbatte il grugno contro chi sappia usare modi più brutali dei suoi.
Sì, ma chi? Non avrebbe senso se si trattasse dello psicopatico di turno, potrebbe addirittura tornargli comodo. Idem se si trattasse di un leghista o di un grillino, anzi, peggio. Poi, sia chiaro, dovrebbe trattarsi di ceffoni (uno sarebbe poco, più di due potrebbe essere controproducente): gavettoni, torte in faccia, palle di letame, peggio che niente. E l’ideale sarebbe qualcuno della minoranza interna al Pd. Niente donne: siamo un paese intensamente maschilista, la volenterosa sarebbe marchiata a fuoco come isterica e il giorno dopo lui le manderebbe pure un mazzo di rose, con un risultato catastrofico rispetto allo scopo. L’uomo migliore sarebbe Bersani, ma figuriamoci, è uno che ha detto: «Preferisco ricevere un torto piuttosto che farlo», e (ahilui!) è pateticamente credibile, non ci riuscirebbe mai, neanche se in sogno glielo ordinasse Giovanni XXIII. Di Cuperlo, che pure andrebbe bene, non ne parliamo proprio: l’idea di rovinarsi il manicure e la reputazione lo terrebbero sul cesso con la diarrea fin dal giorno prima, e dopo, ammesso e non concesso ci riuscisse, si sentirebbe in dovere di espiare, probabilmente suicidandosi. In quanto a Civati, non ha il physique du role, né la congrua apertura palmare: buono semmai a intrattenere i giornalisti, dopo, sottolineando il significato politico del gesto. Fassina, ecco, Fassina sarebbe quello giusto, meglio poi se al gesto sapesse imprimere un tono epico, chessò, gridando: «E mo ci ha rotto il cazzo, dittatorello da strapazzo!». Ma è inutile contarci, alla minoranza del Pd piace un sacco essere maltrattata. Sacrificarsi per il bene del paese, poi, solo a lasciar l’impronta di un culo su una poltrona.

lunedì 20 aprile 2015

[…]

Uggesuggesuggesù, ma questo non è il Fini della Bossi-Fini. Salvo piroetta finale con un bel «e tuttavia», questo è uno che, dopo essersi fatto sfilare Alleanza Nazionale da Silvio Berlusconi, cerca di fottersi Emergency da Gino Strada.

Pietrangelo Buttafuoco, Il Feroce Saracino, Bompiani 2015

Nel mettermi dinanzi alla pagina bianca per scrivere dell’ultimo libro di Pietrangelo Buttafuoco (Il Feroce Saracino, Bompiani 2015), irresistibile è la tentazione di chiarire la mia posizione di lettore parafrasando quell’«io di mio» che apre il XV capitolo («Io di mio ho un nome saraceno»), e poi il XVII («Io di mio ho questa lunga storia d’amore con questo ritrovarmi saraceno»), attaccando con un’avvertenza che mi protegga da possibili fraintendimenti da parte chi si appresta a leggere questo tentativo di recensione (vedrete quanto impossibile): io di mio ho orrore perfino della trascendenza che ubriaca da millenni l’occidente, figurarsi se me ne bevo una d’importazione.
Tentazione irresistibile, questa di chiarire che non la bevo, perché in questo libro, assai più che in quelli precedenti, dove pure l’Islam emanava tutto il suo impeto proselitario in puro incanto, don Pietro (ora Giafar al-Siqilli) usa quell’«io di mio» a offrirsi come una soluzione autobiografica che ci dà per culminata nel sereno ritorno ad una casa che è di tutti, e a questo «io di mio» non si può negare quell’intrinseca forza di fascinazione che chi narra del suo viaggio riesce ad esercitare su chi ascolta, quando ci riesce, sicché Itaca può diventare facilmente patria anche di chi è nato a Oslo. Se ogni recensione è sempre, almeno per metà, un parlare di se stessi – seccatura che solo il recensore professionale può evitare a se stesso e ai suoi lettori – qui mi preme sbrigare la faccenda il più velocemente possibile: l’Islam di Pietrangelo Buttafuoco sembra avere una sola ma vitale urgenza esistenziale, quella di chiarirci che l’jihad è sforzo tutto interno, e che la vittoria sul Nemico sta nel pieno abbandono di se stessi ad una Verità che nella rivelazione del Profeta trova solo la piena conclusione – ma lo si scusa volentieri non sia poco – di ciò che Dio ha rivelato ad Abramo, e poi a Mosè, e poi a Gesù. Non è così, ovviamente. Perché l’jihad è anche campagna di conquista, come è connaturato nel dna comune a tutti i monoteismi. Perché la Verità che si fa legge nel Corano non è meno diversa da quella che si fa legge nei Vangeli di quanto sia diversa da quella che si fa legge mosaica. Se un tratto comune le apparenta, procede per ebrei, cristiani e musulmani da quella pesca a strascico che da oriente a occidente raccoglie suggestioni ancestrali di ogni genere, dalle pendici del Tibet alla sorgente del Nilo.
Per capire come possa riuscirci affascinante l’Islam di Pietrangelo Buttafuoco, bisogna immaginarcelo come un cristiano che vada per le strade di Parigi a declamare il Discorso della Montagna mentre i cattolici sgozzano gli ugonotti. Uno lo ascolta e non può fare a meno di dire: caspiterina, che religione di pace! E senza ironia, perché Giafar al-Siqilli è sufi genuino, onesto e convincente (per dire, Franco Battiato ne sembra una caricatura che suona come un soldo di latta), e non vogliamo avere dubbi che la società organica della tradizione sciita sia di un corporativo così caritatevole da essere l’ombra pur fievole della legge del Misericordioso. E poi, via, non ci sono cristiani che si limitano a testimoniare Cristo come incontro, con la sola forza dell’esempio, trasfigurando il dogma in pura immagine del Sovrumano, la precettistica in diario intimo e la preghiera in canto? No, eh? E vabbè, fa niente, come non detto, tanto qui era discussione un musulmano. Uno solo, sia chiaro.