Ho
provato a cercarlo, volevo passarlo allo scanner e metterlo qui
sopra, ma chissà dove si sarà ficcato, insomma, non l’ho
trovato. Parlo di un articolo che fu pubblicato su Il
Mattino –
non so essere più preciso – negli ultimi mesi del 2000, tutt’al
più nei primi del 2001. Era su tre o quattro colonne, e il titolo
diceva pressappoco: «Uno
studio rivela che la
mammografia è inutile».
Nel testo si parlava del lavoro di Peter Gotzsche e Ole Olsen che era
uscito qualche mese prima su Lancet
(Is
screening for breast cancer with mammography justifiable? –
355/2000,
pagg. 129-134) e che presto aveva sollevato una furibonda polemica
sulla sua perentoria affermazione conclusiva che «screening
for breast cancer with mammography is unjustified».
In realtà, già su quello stesso numero di Lancet,
nella sezione dei commenti editoriali, Harry de Koning spiegava con lodevole
chiarezza – per quanto possa esser chiara una controargomentazione in ambito statistico – perché il lavoro fosse viziato da un metodo scorretto e da
una errata interpretazione dei dati. Il guaio è che lo faceva in modo
estremamente civile, sicché la critica, ineccepibile nei contenuti, parve sofficissima. Di fatto,
le contestazioni che negli anni successivi sono state mosse da gran
parte del mondo scientifico a chiunque riproducesse
analoghi difetti di metodo e di analisi per arrivare a conclusioni sostanzialmente simili a quelle di
Gotzsche e
Olsen (uno per tutti: Anthony Miller, Is
mammography screening for breast cancer really not justifiable?,
Recent
Results in Cancer Research,
163/2003, 115-128) erano già tutte nelle obiezioni di de Koning. La realtà è che lo screening torna di estrema utilità, e con un abbattimento
della mortalità che varia dal 30 al 63% secondo la popolazione presa
in oggetto per fascia di età. Purtuttavia sembra che a chi voglia
mettere in discussione un dato indiscutibile e per giunta con argomenti ormai ampiamente
destituiti di ogni fondamento – è il caso del Il
Mattino,
quindici anni fa, e di Grillo, ieri – non manchi mai l’opportunità di farsi sentire, persino di farsi ascoltare, coi danni che non è difficile immaginare. È che, per sua natura, la bufala ha radici profonde e robuste, non la si estirpa senza scavare fino in fondo. Invece di urlare a Grillo che è uno sconsiderato – sulla qual cosa non c’è dubbio, ma dirglielo non risolve niente – gli si chieda la fonte dalla quale ha attinto, gli si chieda di difenderne l’attendibilità a fronte di ciò che la confuta senza possibilità di appello.
domenica 10 maggio 2015
sabato 9 maggio 2015
[...]
«Con
l’Italicum
adesso Cameron dovrebbe andare al ballottaggio», s’affretta
a far presente Renzi, e questo dà ennesima conferma di quanto sia
cazzaro, perché nel Regno Unito c’è
il maggioritario e il bicameralismo, e già questo rende impossibile
ogni paragone con l’Italia, tacendo della separazione tra il potere esecutivo e quello legislativo che lì è assicurata da secoli e che qui di fatto con l’Italicum andrà a farsi fottere.
venerdì 8 maggio 2015
Soft o, se preferite, light
Per
quanto il tempo possa cambiare anche profondamente il significato che
un termine ebbe in origine, nel suo significante resta immutata,
anche se solo in parte, e a volte esigua, l’evocazione
a ciò che il tempo ha tradito. Così è col termine partito,
che non bisogna affaticarsi troppo per capire tragga il significante
dalla parte di un
tutto, e che nell’espressione
partito della nazione tradisce il suo significato originario
per l’accostamento di un termine
che gli è antitetico, nella
costruzione di un ossimoro, cioè di una figura retorica che ha fine
eminentemente esornativo e provocatorio. Nel porci la questione di
cosa possa significare partito della nazione,
dunque, occorre chiederci quale sia l’oggetto
col quale si vorrebbe destare in noi la meraviglia per una sintesi
che la logica ci dice impossibile, e a quale abbellimento è
sottoposto per convincerci sia sintesi felice. Non possiamo far altro
che analizzare i cambiamenti che il tempo ha prodotto a carico di due
significanti come partito
e nazione.
C’è
stato un arco storico relativamente ampio – diciamo dalla metà del
Settecento alla metà del Novecento – nel quale al termine partito
non si è più dato il significato
prevalentemente negativo di fazione
che aveva prima e che ha riacquistato dopo. Col venir meno di una
visione organicistica della società, infatti, si è smesso di
avvertire come deleteri i contrasti che impegnano le fazioni avverse
presenti in essa, anzi, si è cominciato a sentirli come fisiologici,
fino ad arrivare a considerarli un vero e proprio motore di
democrazia e di progresso. È la stagione storica, questa, che vede
il trionfo del principio maggioritario, che ai partiti assegna il
ruolo di competitori per la guida di una nazione, riconoscendo ad
essi la legittimità di rappresentare i molteplici e contrapposti
interessi che accomunano differenti gruppi di individui. È per
questo che la struttura del partito riproduce giocoforza quella di un
esercito, ma qui il fine è la conquista della maggioranza dei
consensi, grazie alla quale è assicurato il ruolo di governo, mentre
a chi esce perdente dalla competizione è assegnato il ruolo
dell’opposizione,
alla quale viene riconosciuto e assicurato il diritto di ribaltare
gli esiti della battaglia persa col libero esercizio della
persuasione sull’opinione
pubblica.
Per
il ruolo che una fazione viene così ad assumere in questo contesto,
il fatto che un partito possa restare associazione privata, senza
personalità giuridica, e nel contempo avere il monopolio della
funzione pubblica che attraverso le elezioni esprime la guida del
governo, è premessa ad ogni deviazione del sistema partitico delle
cosiddette democrazie di massa in forme di parassitamento e abuso
della funzione di rappresentanza, e di queste deviazioni ne abbiamo
un lungo elenco, che qui non sarà il caso di ristendere: per
rispondere alla domanda che ci siamo posti – cosa c’è
dietro la sintesi impossibile che ci è spacciata con l’ossimoro
di un partito della nazione?
– basterà citare solo la trasformazione della leadership in
proprietà di fatto dell’organizzazione, della dirigenza in
comitato elettorale, della militanza in mero catalizzatore di
clientela e fidelizzazione, dell’elettorato in platea di
consumatori di un prodotto mediatico.
La sintesi impossibile offerta
da un partito della nazione,
dunque, si inscrive in tale contesto come proposta di una sospensione
di ogni conflitto sociale, assicurata dalla meraviglia di un ossimoro
che in realtà è una metonimia: la parte pretende di essere il
tutto, di poterlo interamente rappresentare in modo organicistico,
con la coincidenza di leader in partito, di partito in nazione e di
nazione in stato. Probabilmente la pace sociale avrà la forma di un nuovo corporativismo. Possiamo anche evitare di chiamarlo fascismo, così
ci evitiamo le sarcastiche punture delle piattole che pullulano nelle
sue più comode pieghe, ma il progetto è quello della sospensione
delle più elementari dinamiche democratiche, surrogandone le cinetiche col cliccare un like alle parole d’ordine lanciate on line dal leader del Partito della Nazione. È il progetto di un totalitarismo che
si offre soft o, se preferite, light. Ma è totalitarismo.
[...]
Visto
che già da qualche tempo va prendendo piede l’uso
del termine renzismo,
credo non sia affatto superfluo cercare di darne una definizione sul
piano lessicale, sicché al netto di ogni giudizio in merito si possa
concordemente convenire su cosa esattamente sia. Ora, se per
definizione
è da intendersi l’individuazione
e l’illustrazione
delle proprietà essenziali che danno piena ragione della relazione
funzionale tra significante e significato, che poi sarebbe la
definizione di definizione
che più compiutamente dà conto di ontologia, logica e linguaggio,
il nostro tentativo non può procedere che dal decidere in quale
categoria di termini che sfruttano il suffisso -ismo
sia più opportuno collocare il renzismo.
Con l’-ismo,
in questo caso, saremmo dinanzi a una dottrina?
Penso si debba escluderlo. Nulla, infatti, nel renzismo
rimanda ad un organico sistema di principi, anzi, direi che in questo
caso ne sia esplicito il rigetto, per la rigidità che sempre
caratterizza un simile costrutto. Il renzismo,
infatti,
rivendica con orgoglio il rifiuto della dimensione ideologica, e
dunque è quanto mai distante da qualsivoglia impianto di tipo
dottrinario, in favore, al contrario, di un insieme di assunti
valoriali – chiamarli principi sarebbe improprio – così
eclettico, mobile e disarticolato da rendere del tutto vana la
ricerca di un criterio che dia ad essi una struttura sistematica. E
allora, se non è una dottrina, cos’è
il renzismo?
In quale categoria di termini che sfruttano il suffisso -ismo
è da porre? Direi
non abbia a trovar posto nella
categoria di termini che indicano movimenti religiosi, filosofici,
letterari, artistici, tanto meno in quella che include fenomeni
fisici, funzioni organiche, processi naturali, ecc. Rimangono solo
due categorie, ma entrambe molto eterogenee, per giunta con un’ampia
area di intersezione. Anticipo fin d’ora
che a mio modesto avviso il renzismo
si situi proprio in questo sottoinsieme comune alle due categorie di
termini che ancora non abbiamo preso in considerazione, e cioè a
quella che include fenomeni sociali – dunque anche politici, seppur
nell’accezione
più ampia del termine – e a quella nella quale troviamo tutto
l’ampio
spettro delle configurazioni caratteriali che sono oggetto della
riflessione morale e di quella psicologica. A scanso di equivoci,
però, è bene precisare che quando la politica rigetta la dimensione
ideologica – e questo, come abbiamo già detto, è il caso del
renzismo
– accade giocoforza che sia portata a dare notevole risalto ai
tratti della narrazione individuale o collettiva che va a surrogarne
l’elemento
identitario, indispensabile a darle una cifra che serva a farla
riconoscere, e questo, di regola, implica la fondazione di uno
statuto
etico-estetico, il quale, a differenza di una Weltanschauung,
non è tenuto a darsi una logica di sistema. Ne consegue che l’-ismo
perderà,
allo stesso tempo, sia ciò che conferisce peculiarità di
connotazione sul piano della teoria politica, sia ciò che consente
l’individuazione
descrittiva di un profilo morale o psicologico. Con ciò siamo
nell’area
di intersezione cui facevo cenno prima, e il renzismo
vi si inscrive a pieno titolo proprio in virtù di questa doppia
perdita: patente inclinazione a esplicitarsi tutto nei mezzi
piuttosto che nei fini, con ciò esaurendo in mera postura tattica
una ambivalente, quando non ambigua, contraddittoria e perfino
confusa, posizione politica; ipertrofia del carattere in maschera,
con ciò che ne consegue in fissità e regressione della
configurazione morale o psichica del modello che si accredita.
giovedì 7 maggio 2015
Robe incredibili
Certo,
chi gestisce il traffico dei migranti nel Mediterraneo li stipa su
barconi più o meno come nei secoli passati i negrieri stipavano
sulle loro navi i disgraziati che deportavano dall’Africa
per venderli come schiavi ai proprietari delle piantagioni di cotone
in Alabama, ma usare il termine «schiavismo»
per definire il fenomeno delle migrazioni è manifestamente
improprio, perché lo schiavo era strappato a forza dalla terra
dov’era nato, mentre il migrante
fa di tutto per abbandonarla, e per necessità, senza dimenticare poi
che lo schiavo era merce di scambio tra un venditore e un acquirente,
mentre nel caso del migrante è lui che paga, e per un posto a bordo del
natante. Definire «schiavismo»
il trattamento cui sono sottoposti i migranti che dalle coste
dell’Africa
settentrionale arrivano in Italia,
insomma, è una stronzata.
Per meglio dire, lo era fino a ieri. Oggi un ministro dichiara di avere in testa l’ideuzza
di emanare una circolare che autorizzi i comuni cui sono destinati i migranti
che arrivano in Italia a farli lavorare, ma a gratis. Siamo dinanzi a un bell’esempio
di ribaltamento della logica piana: visto che il termine «schiavismo»
è improprio a definire la condizione dei migranti, non lo si evita,
ma si trasformano i migranti in schiavi. Un po’
come se a me scappasse di dire –
sia chiaro che è un’ipotetica del terzo tipo, non mi permetterei
mai nei confronti di un ministro – che
un’idea del genere è da vero stronzo, e non avessi neanche il tempo di dirmi mortificato e di chiedere umilmente scusa perché subitamente il
ministro mi diventa approssimativamente cilindrico e sostanzialmente
marrone. Robe incredibili.
mercoledì 6 maggio 2015
Avrà tanti limiti, Civati
Con
una legge elettorale come l’Italicum mi ero riproposto di saltare
il primo turno, per limitarmi a votare solo in caso di ballottaggio,
e in quel caso per votare chiunque sulla scheda mi sarei trovato
opposto a Matteo Renzi, anche un Beppe Grillo, anche un Matteo
Salvini, anche un Silvio Berlusconi. Intenzioni che almeno in parte
mi sento costretto da subito a rivedere per la decisione annunciata
oggi da Pippo Civati: al primo turno voterò lui, in qualsiasi lista
sarà candidato, qualunque sia il suo programma elettorale. Lo voterò perché la decisione di lasciare il gruppo
parlamentare del Pd e le motivazioni che accompagnano questo passo conferiscono alla
sua persona, seppur retrospettivamente, dimensioni eccezionali in
tutta la storiaccia che si è conclusa con l’approvazione
dell’Italicum, e so che può sembrare esagerato, ma si tenga conto
che il livello medio della dignità morale e politica espressa dai
parlamentari del Pd è stato pressappoco all’altezza
di un
Gennaro Migliore. Non farò mistero del fatto che dargli il mio voto servirà pure, e in buona misura, a risarcirlo di un’opinione non del tutto benevola che mi ero fatto sul suo conto: significa pure saldare un debito. Avrà tanti limiti, Civati, ma da oggi, almeno ai miei occhi, ha acquistato un merito enorme.
Sull’analogia
Opinioni
che potremmo stringare in formule del tipo «quella
di Carminati è (o non è) mafia» o
«quello di Renzi è (o non è)
fascismo» sollevano sul piano
retorico la questione dell’uso
proprio (o improprio) dell’analogia.
A tal riguardo, com’è
buona regola in ogni controversia, occorre chiarire la natura e la
funzione di ciò che è in discussione,
rammentando che nel discorso l’analogia «differisce dalla proporzione puramente matematica, in quanto non pone
l’uguaglianza
di due rapporti, ma afferma una somiglianza di rapporti, [sicché]
mentre in algebra si
pone a/b=c/d, [e]
ciò consente di
affermare per simmetria che c/d=a/b e di effettuare su questi termini
operazioni matematiche che daranno luogo ad equazioni come ad-cb = 0,
nell’analogia
si afferma che “a”
sta a “b”
come “c”
sta a “d”,
[e]
dunque non si tratta più di una divisione, ma di un rapporto che
viene assimilato ad un altro rapporto, [di
modo che] fra la coppia
“a-b”
(il tema dell’analogia) e la coppia “c-d”
(il foro dell’analogia) non si afferma un’uguaglianza simmetrica,
ma un’assimilazione che ha per fine quello di chiarire, strutturare
e valutare il tema grazie a ciò che si sa del foro»
(Chaїm
Perelman, L’empire
rhétorique. Rhétorique et argumentation,
1977).
Posta questa premessa, dovrebbero cadere le obiezioni che
contestano le legittimità dell’analogia
nei casi sopra presi a esempio con controargomentazioni che potremmo stringare in formule del tipo «gli uomini di Carminati non
avevano coppola e lupara» o «Renzi non ha squadracce che
scorrazzano in lungo e in largo per l’Italia
con olio di ricino e manganello»: tema e foro non stanno in relazione
di uguaglianza, ma di proporzione, la quale, dunque, non cade dinanzi
all’ovvia
constatazione che nulla somigli mai del tutto a null’altro,
non foss’altro
perché nulla somiglia mai del tutto neppure a se stesso nel corso
del suo divenire, come
d’altronde è nel
caso della mafia e nel caso del fascismo.
L’analogia
– sarà il caso di dirlo in modo esplicito – non pretende che sia
attestata una peraltro sempre impossibile coincidenza, ma che sia
riconosciuta quella serie di elementi che realizzino una puntuale
relazione tra tema e foro, conservando per ciascuno una congrua
proporzione. L’analogia, insomma, cade solo con la dimostrazione che questo tipo di relazione non abbia sostegno, non già che non sia in grado di comprovare una perfetta coincidenza tra tema e foro. Rigettando la liceità della naturale funzione che l’analogia ha nel discorso, si dimostra
di temerne l’efficacia.
E il tentativo di delegittimarla come strumento improprio rivela
l’incapacità
di contestarne l’uso che una corretta argomentazione non le preclude.
martedì 5 maggio 2015
L’unica via
Dieci
anni fa, di questi tempi, infuriava la battaglia sulla legge 40...
Ok, «infuriava la battaglia» è bassa retorica, correggo subito...
Dieci anni fa, di questi tempi, mancavano pochi giorni al referendum
sulla legge 40, e da un lato c’era chi voleva ne fossero abrogati
almeno i punti che la rendevano tra le più stronze e crudeli della
storia repubblicana, sgolandosi ad urlare dello scempio che
infliggeva al buonsenso e alla Costituzione, mentre dall’altro
c’era chi l’aveva
voluta e, con assai miglior
polso del paese, sapendo bene che da un popolo di merda il consenso
non si ottiene invocando la logica e in nome dei principi, anzi,
puntò sul vincere la partita senza combatterla nemmeno, sommando
cinismo e strafottenza, per impedire che si raggiungesse il quorum.
Sappiamo come andò: il quorum non fu raggiunto, la legge restò in
vigore, e tutti, o quasi, a cantar lodi al cardinal Ruini, gran
figlio di puttana, e perciò politico sopraffino. Sappiamo pure che
fine ha fatto, in questi anni, la legge 40: smontata pezzo a pezzo da
una dozzina di sentenze della Cassazione, ne resta in piedi solo il
poco che sta a memoria della
feroce idiozia
che le diede vita.
Ma forse pure raccontarla a questo modo vuol dire
far dell’epica
dove non c’è
che cronaca. Andrebbe raccontata senza metterci passione, come
l’apologo di una delle tante leggi che si scoprono essere
incostituzionali solo dopo aver causato danni incalcolabili.
Leggi
approvate nell’indifferenza pressoché generale dell’opinione
pubblica, che rimane indifferente anche quando è chiamata a
esprimere un parere su di esse. Come è stato col Porcellum, no?
Anche in quel caso il referendum non interessò più di tanto, anche
in quel caso s’è dovuto aspettare una sentenza che lo dichiarasse
incostituzionale.
Non c’è dubbio che così sarà anche per
l’Italicum, la cui approvazione, oggi, incorona Renzi come gran
figlio di puttana, e perciò politico sopraffino. Lo schema – il
solito – si ripropone: un mascalzone scrive una legge a cazzo di
cane, una maggioranza parlamentare di insulse comparse l’approva,
una corte di ruffiani leva al cielo l’osanna
per cotanta vis legislativa, le opposizioni bestemmiano e raccolgono
firme per abrogare l’obbrobrio,
mentre il resto del paese se ne fotte, perché «capolista
bloccato»
è termine incomprensibile almeno quanto «ovocita
fecondato».
Per carità di Dio, raccoglietele, ’ste
firme, ché val la pena spendersi pure per le guerre perse in
partenza. Ma non sperate troppo in quella che chiamate «gente»,
perché ormai da tempo è plebe. Appena sarà pubblicato sulla Gazzetta
Ufficiale, sottoponete l’Italicum
alla Corte Costituzionale: l’unica
via è quella.
lunedì 4 maggio 2015
[...]
Quando
non trattato, l’ipotiroidismo
congenito porta inevitabilmente a gravi forme di ritardo mentale. È
una patetica arrampicata sugli specchi, dunque, concedere che cretino
derivi da cristiano
(fr. chrétien
→ crétin),
ma obiettare che in origine non venisse usato, come oggi accade, per
indicare un individuo di scarsa intelligenza, ma una persona affetta
da cretinismo,
termine che fino a qualche decennio fa era usato proprio per definire
il quadro clinico dell’ipotiroidismo
congenito non trattato. A conferma, tuttavia, che cretino
e cristiano
indichino
una consimile condizione di deficit mentale c’è
quella nota acquiescenza del cretino alle derive autoritarie che nel
cristiano trova ragione nel «non
c’è
autorità se non da Dio»
(Rm
13, 1). Certo, Paolo l’avrà
detto per dare un’aria
inoffensiva ai suoi e per strappare un po’
di tolleranza a Nerone, fatto sta che il monito a sottomettersi
all’autorità,
perché chi vi si oppone «si
oppone all’ordine
stabilito da Dio»
(Rm
13, 2), tornò utile dopo il patto stretto tra trono e altare, sicché
potremmo dire che da chrétien
si passa a crétin
quando l’acquiescenza
a questo o quel tiranno perde la funzione di trasporre l’intesa
tra Stato e Chiesa nella coincidenza di obbedienza nel suddito e nel
fedele, per diventare il riflesso condizionato che porta a vedere in
ogni dittatore un Uomo della Provvidenza. Quando questo passaggio si
è compiuto, non ha più alcuna rilevanza che il cretino sia anche
cristiano, perché sarà acquiescente alla dittatura anche in quei
rari casi in cui la Chiesa non vi avrà stretto un concordato, e
tuttavia in lui resta l’adorazione
della forza come manifestazione del divino. Il lungo ragionare per
venticinque secoli su come la forza si legittimi in potere, e su come
il potere si legittimi in autorità, non gli appartiene: ogni ipertiroideo gli sembra Dio.
domenica 3 maggio 2015
sabato 2 maggio 2015
[...]
L’idea
di cambiare il «siam
pronti alla morte»
dell’Inno
di Mameli
con
un «siam
pronti alla vita» è
d’una
imbecillità che s’apparenta
a quella di mettere la lancetta dei minuti all’orologio di Palazzo
Vecchio (ricordate?), dunque è probabile che l’Italia
renziana l’adotterà
in via definitiva. Resta la questione della rima con «stringiamci
a coorte»,
che così salta, ma, se tanto mi dà tanto, probabilmente si provvederà con un
«partiam per la gita» o un «la cena è servita».
venerdì 1 maggio 2015
L’uovo del serpente
Più
o meno un anno e mezzo fa ho scritto che sarebbe «buona
norma, quando si polemizza, essere onesti con gli altrui argomenti e
usare toni garbati»,
ma che purtroppo questo «non
sempre è possibile»,
perché «spesso
fallacia chiama fallacia, sarcasmo chiama sarcasmo, e qualche volta
la polemica degenera in rissa»,
sicché, «quando
voglio evitare che questo accada, e tuttavia sento irrinunciabile la
polemica avverso una tesi che ritengo insostenibile»,
ho l’abitudine
di «prendere
in considerazione solo gli argomenti che in sostegno di quella tesi
sono prodotti da persona di riprovata onestà intellettuale e
d’indole affabile».
Eccomi, dunque, a prendere in considerazione gli argomenti che
Formamentis
ritiene destituiscano di fondamento la mia convinzione che Matteo
Renzi costituisca un grave pericolo per la democrazia, non prima però
di confessare di essere lieto che Formamentis
abbia voluto che questo scambio di opinioni sia pubblico, per darmi
modo di ricalibrare meglio il giudizio estremamente duro che ho
espresso su chi la pensa come lui, e che mi ha procurato alcuni
severi rimproveri. Qualche giorno fa, infatti, ho scritto che
considero un «fiancheggiatore»
di Matteo Renzi chiunque minimizzi la gravità delle sue
scelleratezze, soprattutto poi se col sarcasmo nei confronti di chi
le ritenga articolate in un processo di deriva autoritaria teso a
fare della democrazia formale un guscio vuoto di ogni sostanza, né
sono riuscito a trovare attenuanti alla buona fede che concedevo
possa pure motivare questa complicità di fatto, perché l’ho
definita, seppur con sofficissime perifrasi, da fessi: quei fessi che
non sono mai mancati a sottovalutare i prodromi di ogni catastrofe,
pensando che bastasse toccarsi le palle per scongiurare i pericoli
segnalati da una Cassandra.
Bene,
per affrontare la questione, Formamentis
è l’interlocutore
ideale. Tutto è meno che fesso. Sa polemizzare senza incorrere in
scorrettezze. Nel
post col quale mi interpella,
poi, quasi a far presente che non ha alcuna intenzione di cedere al
sarcasmo, propone che la discussione abbia uno scanzonato registro
ironico e autoironico. Infatti attacca così: «Ne
discutevo oggi con Luigi: stiamo scivolando verso una dittatura
mascherata, finiremo come la Bielorussia? Questo non credo».
«Questo
non credo»:
nell’uso
di una frase che evoca il Razzi di Crozza vedo l’invito a toni
leggeri, che accetto con piacere. E dunque: (1) «che
ci sia in questo momento una posizione dominante di Renzi è
evidente, ma questo principalmente per la pochezza degli avversari»;
(2)
«quella
di Renzi non la vedo come un’egemonia
tale da impedire la riorganizzazione e la futura affermazione
dell’avversario,
[...] ma a questa alternativa si dovrà pur dare il tempo di
riorganizzarsi»;
(3) «io
penso che la democrazia oggi si trovi svuotata non tanto da Renzi
quanto dalle stringenti necessità del sistema economico e
finanziario con le quali si trova a fare i conti»;
(4) «mi
piacerebbe capire cos’è
democrazia per Luigi: quando possiamo sostanzialmente esserne certi,
quando da forma ridiventa sostanza».
Temo che l’ultimo
punto mi prenderà un po’
di tempo, ma per i primi tre credo si possa fare in fretta.
E dico
subito che sono d’accordo:
al momento, Renzi non ha avversari in grado di opporglisi
efficacemente. D’accordo,
ma questo in cosa costituirebbe argomento ad escludere che la sua
forza possa essere impiegata per renderne irreversibile la
preponderanza? Se io sono fisicamente assai più forte di
Formamentis,
questo renderà possibile o meno che io lo massacri di botte, tutt’è
vedere se lo faccio, se minaccio di farlo o se semplicemente abuso
della possibilità di farlo per impedirgli in qualche modo di
acquistare forza pari o superiore alla mia. È sulle azioni di Renzi,
dunque, che va valutato l’uso
che egli intenda fare della sua forza e a me pare che nel metodo e
nel merito sia indiscutibile che le intenzioni non siano delle
migliori. L’armamentario
caratteriale, attitudinale e comportamentale è quello del despota
cinico, spregiudicato, vendicativo, smisuratamente ambizioso, con una
irrefrenabile smania di accentramento del potere nella sua persona,
cui non manca neanche uno dei tratti che sono distintivi della
personalità pesantemente disturbata dalle caratteristiche pulsioni
del mentitore abituale, del manipolatore, del narcisista, del sadico,
che costituiscono la configurazione psicopatologica costante in ogni
dittatore. Se posso esprimermi con un’immagine,
direi che Renzi sia l’uovo
del serpente. Posso concordare anche sul fatto che a covarlo possano
essere state le circostanze storiche – certo, accade così per ogni
tiranno, non è che dipenda dal segno zodiacale – ma questo in cosa
lo rende meno pericoloso? Dovremmo trattarlo da epifenomeno e
tollerarlo come sintomo di un febbrone che deve fare il suo naturale
decorso? Non escludo che qualcuno possa obiettare che le suddette caratteristiche siano in vario grado riscontrabili in ogni professionista della politica e in ogni amministratore della cosa pubblica, per cui trovarle così marcatamente rappresentate in Renzi sarebbe prova dell’eccezionalità di doti che sono necessarie e intrinseche al ruolo. Bene, penso che questo sia il sintomo più grave della malattia sociale che per prognosi si dà lo stato organico, la coincidenza tra partito e stato, la proiezione di una nazione in un solo uomo. Più che Renzi, disprezzo chi lo ammira come politico. E il disprezzo diventa immenso se lo ammira pure come uomo.
Più
complessa è la risposta alla domanda con la quale Formamentis
chiude il suo post. Qui, dicevo, sarebbe necessario molto tempo, ma
mi rendo conto di aver tediato già abbastanza i nostri lettori,
perciò, con tutti i rischi del caso, mi limito a dire che per me la
democrazia è la condizione nella quale si realizzi la piena
rappresentatività di ogni cittadino nell’esercizio
della sovranità popolare, le cui linee direttrici devono fedelmente
riprodurre le proporzioni di volontà che concorrono a determinarle.
Tanto più la forma della democrazia si riempie di sostanza quanto
meno la rappresentatività venga sacrificata alla governabilità. In
altri termini: quanto meno ciò che la democrazia affida a tutti e a
ciascuno venga requisito da uno o da pochi – o a pochi o ad uno
ceduto – nella sospensione o nella illimitata dilazione della
funzione di controllo. Ma qui è assai probabile che la voglia di
stringere mi abbia fatto incorrere in qualche ambiguità di formula.
Ci ritornerò sopra.
giovedì 30 aprile 2015
La chute
«C’est
l’histoire d’une société qui tombe
et
qui au
fur et à
mesure de sa chute
se
répète sans cesse pour se rassurer:
“Jusqu’ici
tout va bien, jusqu’ici tout va bien,
jusqu’ici
tout va bien”. Mais l’important
n’est
pas la chute, c’est l’atterrissage»
La
Haine
(Mathieu Kassovitz, 1995)
Quel
che resta del disprezzo che va a Renzi spetta di diritto ai
fiancheggiatori che ne agevolano le scelleratezze minimizzandone la
gravità col sarcasmo di cui fanno oggetto chi invece la avverte e la
segnala. Naturale inclinazione all’acquiescenza,
strafottenza come surrogato di piena padronanza delle situazioni,
mera ignavia come esorcismo contro ogni genere di pericolo – poco importa
cosa li muova a sbertucciare, peraltro con piatta uniformità di
toni, chi nella migliore delle ipotesi considerano un malato d’ansia,
sennò un subdolo inoculatore di velenoso allarmismo. Nel più
plateale precipitare di peggio in peggio, questi miserabili continueranno sempre a
dire: «Jusqu’ici
tout va bien»,
fino alla
fine, e a reagire con un moto di fastidio a chi fa presente che tutto
precipita. Sarà una puttanata che «la
plus belle desruses
du Diable est
de vous persuader qu’il
n’existe
pas»
(Charles
Baudelaire),
di certo non c’è
dittatura che possa fare a meno del brodo di coltura che le dà
nutrimento con l’ottusa
indolenza di quanti si rifiutano di vederla, che poi sono gli stessi
che ingrassano nelle sue pieghe. Forse occorre risparmiare un po’
del disprezzo che va a Renzi per lasciarlo a loro.
mercoledì 29 aprile 2015
Solo artigianato
La
differenza tra un grande artista ed uno dei garzoni della sua bottega
che mai riuscirà a toccare i vertici espressivi del maestro,
rimanendo in eterno un «anonimo
della scuola di», non sta tanto
in un difetto della tecnica, che anzi può essere facilmente appresa,
laddove vi sia un minimo di applicazione, ma nella incapacità di
darle efficacia infondendo alla materia una qualità che la
trascenda, conferendole il potere di dare vita propria a ciò che
rappresenta.
Per semplificare potremmo dire che questa differenza fa
la distanza tra creazione e ricreazione, tra scoperta e invenzione,
tra respiro e insufflo, il che spiega come un apprendista possa
essere arrivato pure a riempire tre quarti di una tela, e con resa
ineccepibile, ma perché il quadro sia un capolavoro occorre che al
resto abbia pensato chi possedeva la superiore virtù di riuscire ad
animarlo.
Questo, tuttavia, neanche basta a poter dire che il garzone
sia mera proiezione dell’artista,
com’è dato constatare dalla
possibilità di riconoscere, almeno ad un’analisi
supportata da strumenti congrui allo scopo, due mani differenti in
quel quadro pur nella perfetta omogeneità del tutto.
È questo, in
definitiva, che consente, ovviamente a chi abbia tutta l’esperienza
necessaria per non cadere nell’infortunio
dell’errata attribuzione, di
poter riconoscere in un’opera di
un grande artista il contributo di un oscuro e pur valente
collaboratore.
Se
la premessa non vi ha sfiancato, passiamo a considerare Claudio Cerasa alla direzione de Il Foglio. Non
malaccio negli sfondi, nei panneggi e nelle anatomie,
ma quando mette mano alla filosofia politica – chiamiamola così –
il quadro diventa irrimediabilmente crosta.
Giuliano Ferrara si prostrava
in estasi davanti al Potere, non ha importanza in quale forma gli
apparisse, né da quale istinto procedesse, riuscendo a prodursi in
salmi di feroce cinismo che offriva a questo o quel fetente come
pergamene attestanti l’incontestabilità
di un titolo, ed erano pezzulli degni del più zelante dei sacerdoti
a guardia del Tempio, editoriali
di una brutalità che ardeva come arde il fuoco sacro che vorace
esige il tributo di una vittima, e tutto era in
ossequio alla
magnificenza dell’arbitrio solennemente legittimato in privilegio,
e con brillanti concessioni ad un immaginifico che pescava nei
registri alti e in quelli bassissimi... Insomma, leccava il culo al
potente di turno, ma ci metteva l’arte.
Cerasa, no. Quand’anche
sta sull’uscio di bottega in posa da titolare, Cerasa è destinato
ad essere garzone a vita. Lecca pure lui, ma non ci mette l’estasi:
si vede che per lui il Potere è solo forza meccanica, non energia
dinamica. Maramaldeggia pure lui i deboli, quello è naturale, fa parte dell’insegnamento e del lascito, ma
invece della lectio sulla necessità che il pesce grande mangi il
pesce piccolo, cui il vocione di Ferrara dava un bel cupo rotto solo
dalla folgore di un «così va il mondo, bellezza», Cerasa si limita
a spiegar loro che non
è tanto Renzi ad essere squalo quanto loro ad essere merluzzi: «La
democrazia viene sospesa quando le opposizioni non funzionano e non
rappresentano un’opzione» (Il
Foglio,
29.4.2015). Anche di pregio, insomma, ma solo artigianato.
Segnalibro
Tirando
giù dagli scaffali alti un po’
di materiale relativo alla «legge
truffa»,
l’ultimo
volume dell’Opera
Omnia di Luigi Sturzo si apre a caso sul disegno di legge n. 124 del
16 settembre 1958, che riguarda tutt’altro
tema, quello del profilo giuridico dei partiti politici, qui chiamato
in causa soprattutto per l’aspetto
relativo al loro finanziamento. C’entra
poco con quello che cercavo – gli estremi della polemica tra Sturzo
e De Gasperi sul premio di maggioranza – ma come segnalibro per
queste pagine può tornare utile in futuro.
martedì 28 aprile 2015
[...]
«Mi
auguro che il governo non metta il voto di fiducia sull’Italicum.
Se verrà messo, forse non risponderò all’appello, ma escludo di
votare no alla fiducia»,
così Rosy
Bindi (Piazza
Pulita – La7,
27.4.2015), e c’è da scommettere che questa sarà la linea di
quasi tutta la minoranza interna al Pd, quella che tanto ha
starnazzato fin qui su quanto l’Italicum faccia schifo e su quanto
faccia schifo metterci sopra il voto di fiducia: in sostanza, queste
patetiche figurine non renderanno mai i loro voti utili ad impedire
che la schifezza diventi legge dello Stato, neppure se schifoso
dovess’essere il modo in cui si arriverà alla sua approvazione.
Come volevasi dimostrare, anzi, anche peggio, perché ieri ho scritto
che, «se
passerà l’Italicum, sarà perché l’avrà votato un congruo
numero di deputati del Pd»,
e che «poco
importa quanto saranno stati i dissidenti che alle ragioni di
opportunità avranno opposto quelle di principio, perché vuol dire
che saranno stati comunque irrilevanti»:
qui
non solo le ragioni di principio si piegano a quelle di opportunità,
ma queste ultime vengono addirittura dichiarate indiscutibili. Non
c’è
un Pd buono e uno cattivo, ce n’è uno solo, ed è tutto –
volente o nolente – renziano. Sembra uno scontro interno, ma in fondo è solo un gioco delle parti.
lunedì 27 aprile 2015
È assai probabile che l’Italicum passi alla Camera
È
assai probabile che l’Italicum
passi alla Camera, e le probabilità aumentano col contingentamento
degli interventi cui si ricorrerà nel caso in cui la discussione in
aula slitti davvero di una settimana, come sembra nelle intenzioni di
Matteo Renzi, che pensa, e a ragione, di poterla utilizzare anche per
far cambiare idea a qualche deputato della minoranza interna del
Partito Democratico, che d’altronde
è assai poco compatta e ha già dato numerose prove di ambiguità
morale prima che politica verso il segretario del partito, oltre che
per raccattare consensi dalla fronda che in Forza Italia ha nostalgie
per il Patto del Nazareno, così sfruttando a suo vantaggio
l’eventualità
di un voto segreto.
Matteo Renzi, dunque, non ha torto nel sentirsi
relativamente sicuro che il mostro sarà infine partorito: nelle sue
smargiassate c’è
un bluff assai ben calcolato sull’evidenza
che i suoi avversari non hanno in mano carte forti. Certo, con una
straordinaria concordanza di eventi a suo sfavore potrebbe anche cadere
sul voto, e nel caso si trattasse di un voto di fiducia perderebbe
Palazzo Chigi, il che potrebbe pure ridimensionare in modo drastico
il suo peso all’interno
del suo partito, ma tutto questo, sulla base delle forze in campo, è
ipotesi che può coccolare solo chi pensa che Matteo Renzi sia un
mero accidente.
In realtà, si tratta del prodotto di una crisi della
democrazia che investe buona parte del mondo occidentale: se in
Italia assume il volto di un arrogante gradasso dai modi spicci, è
solo perché da noi la democrazia è sempre stata assai debole, tutta
formale, e a volte neanche. Un paese di merda merita per premier un
uomo di merda, tutto qui, e se è vero che le prove più dure
saggiano la reale natura di un popolo, rivelandone le virtù se ne
possiede, sennò portando a galla quello che nel fondo ha di peggio,
una crisi economica come quella che ha preso avvio nel 2008, ma che
si è solo limitata a rendere più esplicita ed acuta una debolezza
da decenni intrinseca al sistema, non poteva che generare tal genere
di mostruosità: l’ennesimo
avventuriero convinto di poter essere l’uomo
forte di cui il paese abbia l’inconfessato
bisogno.
Non a torto, occorre dire, perché, al netto della forza che
un borderline di questo tipo raccoglie a strascico gettando la sua
rete nel vasto mare del conformismo e dell’opportunismo,
e che in fondo non serve ad altro che a dargli una patina di
legittimità, il bisogno di essere guidati da un Uomo della
Provvidenza non risparmia le oligarchie che detengono il controllo
dell’economia,
con quanto ne consegue sugli strumenti che formano l’opinione
pubblica: bisogno che qui deriva dalla nota consuetudine a ritenere,
non senza ottime ragioni, che quando l’Uomo
della Provvidenza torni d’impiccio,
pur pagando il necessario e dovendo perderci un po’
di tempo, si può sempre sacrificarlo, dandolo in pasto ad una plebe
adeguatamente resa feroce.
E dunque Matteo Renzi è forte, seppur di
questo genere di forza. Sull’approvazione
dell’Italicum
dice di voler scommetter tutto ed è molto improbabile che perda la
partita. Che poi la Corte Costituzionale, tra tre anni o cinque o
sette, sentenzi che l’Italicum
debba fare la stessa fine del Porcellum, con quanto nel frattempo
grazie all’Italicum
sarà stato possibile far rendita, questo è tutt’un
altro paio di maniche. Al più, darà soddisfazione a quanti fin
d’ora
segnalano i patenti punti di incostituzionalità del ddl che la
Camera approverà entro la fine di maggio.
Su cosa questa legge
elettorale cambierà nell’attuale
assetto politico e, ancor più, in quello istituzionale, soprattutto
col combinato disposto di un Senato non elettivo, non sarà il caso
di intrattenerci troppo: su queste pagine se n’è
già parlato e commentatori molto più autorevoli hanno espresso
analogo parere, per giunta con argomentazioni di incommensurabile
rilievo tecnico. Nemmeno varrà la pena di intrattenerci troppo su
cosa cambierà nella percezione che il cittadino avrà dello Stato,
perché il progetto di cui l’Italicum
non è che un passaggio appare evidente in ogni singola sfaccettatura
dell’azione di questo governo, dall’idea di depotenziare gli
organi collegiali attualmente operanti nella scuola per creare una
figura di preside che delle sue decisioni su studenti e corpo
insegnante risponda al Ministero dell’Istruzione come un prefetto
era tenuto a rispondere al Ministero dell’Interno nel Ventennio
fascista, fino al tentativo, in buona parte già riuscito, di avocare
al potere esecutivo buona parte delle naturali prerogative di quello
legislativo e di quello giudiziario: in sostanza, avremo un’Italietta
piramidale che per base avrà una soggezione grata delle eventuali
briciole che pioveranno da un vertice che tradurrà in arbitrio il
consenso.
In nome della stabilità del sistema, si dice, e
infatti cosa c’è di più solido di un sistema autoritario, finché
regge? Oppure, come pure si dice, ma qui per quell’irrefrenabile inclinazione
all’ipocrisia che è il sintomo più genuino dell’istinto
antidemocratico rintanato nelle più fetide nicchie della democrazia
formale, in nome della governabilità.
Il lavoro per demolire questo
costrutto sarà arduo e ingrato, lungo e senza certezza di buon
esito. Ci attendono decenni che imporranno prezzi enormi a chi oserà
mettere in discussione l’Italia che sta per prender forma da una
legge elettorale come quella sulla quale è chiamata a esprimersi la
Camera. Una sola è la certezza: se passerà l’Italicum, sarà
perché l’avrà votato un congruo numero di deputati del Partito
Democratico. Poco importa quanto saranno stati i dissidenti che alle
ragioni di opportunità avranno opposto quelle di principio, perché
vuol dire che saranno stati comunque irrilevanti: volontariamente
irrilevanti, poi, se sceglieranno di restare in un partito la cui
maggioranza sia stata capace di approvare una simile legge
elettorale. Il Partito Democratico, insomma, potrà comunque essere
considerato in blocco il peggior nemico della democrazia. Chiunque
l’abbia a cuore sarà moralmente e politicamente autorizzato ad
ogni mezzo utile per precipitarlo nell’infamia e nella rovina, e
allora ben vengano le iniziative strumentali della magistratura
cosiddetta politicizzata: chiuderemo un occhio se peccheranno di qualche sbavatura procedurale. A brigante – dura lex, sed lex –
brigante e mezzo.
Iscriviti a:
Post (Atom)