Nella
perifrasi del «despotuccio per
due quinti scilinguagnolo, e per il resto spocchia, villania e
somaraggine», cui ricorrevo nel post qui
sotto, non mi capacito come possa essermi sfuggita una componente che
è basilare in Matteo Renzi: la faccia di culo. Mi sono accorto della
grave lacuna quando nel corso della relazione con la quale ha aperto
la Direzione del Pd di ieri sera ha riservato un duro inciso a chi
muove obiezioni via Twitter alle iniziative del suo governo che di
regola proprio via Twitter vengono preannunciate, via Twitter
magnificate in corso di realizzazione, via Twitter celebrate una
volta realizzate, e proprio da lui. In sostanza, lamenta ci sia
chi gli fa mancare il «bene,
bravo, bis» che gli spetterebbe di diritto ogni volta che si affaccia al balcone. Errata corrige: per tre ottavi faccia di culo, per due ottavi scilinguagnolo, e per il resto spocchia, villania e somaraggine.
martedì 9 giugno 2015
lunedì 8 giugno 2015
Il punto in cui la linea prende la tangente per la deriva
In
tempi in cui il modello demagogico sembra essere considerato da tutti
i protagonisti della vita politica come il più efficace strumento
per raccogliere consenso, la differenza tra quanti concorrono a
conquistare un mercato con un prodotto che è sostanzialmente uguale
a quello dei propri concorrenti può essere fatta solo dalla
confezione nella quale questo è offerto al pubblico, poco importa se
come scelta estemporanea o come risultato di uno studio preparatorio,
perché in ogni caso l’imballaggio
ha sempre bisogno di aggiustamenti alla risposta data dal mercato. In
generale, potremmo dire che un soddisfacente grado di riconoscibilità
dell’offerta,
che di per se stessa è fattore promozionale, sia raggiunto quando i
tratti caratteriali del demagogo diventano tanto significativamente
peculiari da poter essere caricaturizzati in favore di quella che la
pigrizia mentale definisce satira politica, e che in realtà è il
più affidabile attestato che all’offerta
corrisponda ormai una domanda e, in sostanza, che quella particolare
offerta di demagogia ha conquistato una discreta fetta di mercato.
Ricorrendo a un’ellissi,
direi che oggi, in Italia, a certificare
la commerciabilità di un’offerta
demagogica è Crozza.
Nelle sue imitazioni di Berlusconi, di Renzi,
di Salvini, di Grillo, quel che è comune a tutti va interamente
smarrito, per lasciar spazio solo alla deformazione umoristica dei
rispettivi caratteri, cioè delle diverse confezioni in cui è posto
in vendita lo stesso prodotto: l’adulazione
di un popolo ormai da tempo degradato a plebe al fine di strappargli
il consenso ad interpretarne la sovranità con quel tratto dispotico
che troverebbe piena legittimazione in tale investitura. Ben si
spiega, allora, come anche l’imitazione
di De Luca non possa che esaurirsi nell’enfasi
posta sui connotati più pittoreschi del personaggio, trascurando del
tutto quel «chi
vince governa» di cui De Luca si è fatto scudo prima, durante e
dopo le elezioni regionali del 31 maggio per pretendere di essere
ammesso alle primarie nonostante il codice etico del Pd non glielo
permettesse, di candidarsi ad una carica dalla quale una legge dello
stato l’avrebbe
comunque sospeso e di poter esser certo che la sospensione avesse peso solo aleatorio mettendo al suo posto un prestanome
investito dalla carica di vicegovernatore.
Certo, non
spetta a Crozza segnalare in quel «chi vince governa» ciò accomuna
tutti i ritratti della sua fortunata galleria, di fatto pare che
anche chi dovrebbe farlo si attardi per lo più a marcare le
differenze tra un demagogo e l’altro,
quasi fosse scontato che la sovranità appartenga al popolo allo
stesso modo in cui qualcuno possegga qualcosa che possa cedere a chi
voglia perché questi possa a sua volta disporne a proprio piacimento. A ben
vedere, è questo modo di intendere la sovranità che spiega perché,
sulla diagnosi che la democrazia abbia in se stessa l’embrione
della tirannide, concordino sia i nemici della democrazia sia quelli
della tirannide. E, a mio modesto avviso, quel che consente agli uni
e agli altri di essere scettici sul fatto che una democrazia possa
avere altra sorte, pur con diversa disposizione d’animo (chi
contento, perché lo aveva sempre sostenuto, chi afflitto, e in fondo
rassegnato), sta in quel
secondo capo del primo articolo della Costituzione italiana che a
tanti sembrerebbe consentire ogni genere di deriva.
Se infatti «la
sovranità appartiene al popolo»
– si argomenta – il popolo non può disporne a proprio
piacimento? È vero, certo, che «la
esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione»,
ma cosa impedirebbe al popolo di dar mandato a Caio o a Tizio per una
revisione costituzionale? In fondo, ad essere intoccabile non è
soltanto la forma repubblicana?
Bene, io penso che tutto sta nell’infelice
scelta di un termine come «appartenenza»,
che nell’intendimento
di scrisse la Costituzione aveva l’accezione
di «ciò che
fa parte» – e tra poco spiegherò in che senso, e perché se ne
possa esser certi – poi corrotta in quella di «possesso».
In
sostanza, oggi si è portati a ritenere che il primo articolo della
Costituzione consenta ogni genere di avventura populistica o
plebiscitaria, purché un avventuriero riesca a convincere la
maggioranza del popolo italiano, anzi, neppure quella, né quella
degli aventi diritto al voto, ma solo la maggioranza dei votanti. In
pratica – e non mi si venga a dire che vado troppo lontano dalla
realtà – basterebbero una dozzina di milioni di italiani a dare
piena legittimità a un demagogo per fare carne di porco della
democrazia, semmai avendo la premura di lasciarne intatta la forma.
Non è così.
Comincerei col dire, infatti, che alla formula del
primo articolo della Costituzione si è arrivati in modo assai
singolare. L’accordo pressoché unanime della commissione
incaricata di redigerlo era sulla seguente formula: «La sovranità
dello stato si esplica nei limiti dell’ordinamento giuridico
formato dalla presente Costituzione e dalle altre leggi ad essa
conformi. Tutti i poteri sono esercitati dal popolo direttamente o
mediante rappresentanti da esso eletti». In tutta evidenza, il
principio della sovranità popolare non è affatto dominante, tanto
meno se può inferire che sia il popolo a generare la Costituzione
dalla quale lo stato dipende.
In pratica, non è il popolo ad essere
titolare della sovranità: è lo stato ad essere sovrano, e non la
Costituzione a generare tale sovranità, limitandosi invece solo a
darle assetto, margini, equilibrio tra le parti che la amministrano.
Basta rileggere gli interventi di Dossetti, Moro, La Pira e perfino
di Togliatti, che pure avrebbe potuto essere sensibile ad una
«sovranità popolare», per capire che tra i Padri costituenti era
ben saldo il rifiuto di un principio che sembrava avesse il marchio
del giacobinismo, con quanto di pericoloso al giacobinismo è
allegato in termini di deriva dispotica. Tutti contrari a questo
assunto, tranne il monarchico Lucifero d’Aprigliano, il
quale provocatoriamente sfidò gli altri costituenti ad essere
coerenti fino in fondo: se era venuta meno la figura di un re che fin
lì aveva personificato la sovranità dello stato, si fosse tanto
onesti nel trasferire quella sovranità al popolo che aveva deciso di
ghigliottinarlo. Sfida che fu respinta con forza e perfino con
sdegno, anche se ebbe l’effetto di far rivedere la prima formula,
con la proposta di una sovranità che «risiede nel popolo», poi
bocciata in favore di quella che recitava di una sovranità che
«emana dal popolo», ma con l’accento, posto da Tosato e da
Togliatti, sul fatto che la sovranità fosse prerogativa dello stato,
e che la Costituzione ne fissasse i limiti.
I termini della
discussione si riproposero invariati anche nella discussione
dell’Assemblea del 22 marzo 1947, che però ebbe uno sviluppo tanto
serrato da far riproporre, e far accettare come liquidatoria di ogni
ambiguità riguardo alla natura del mandato che alla Costituente era
stato affidato dal popolo, la formula della sovranità che
«appartiene al popolo». In definitiva, passava il principio di una
sovranità che è dello stato, sì, ma che nella Costituzione di cui
il popolo è attore trova forma, espressione e vincoli: si assumeva
che il popolo avesse «parte» dei limiti della sovranità dello
stato.
Da qui a immaginare che la sovranità fosse una proprietà che
il popolo avesse piena libertà di alienare in favore di un
despotuccio
per due quinti scilinguagnolo, e per il resto spocchia, villania e
somaraggine, ne doveva correre. Perché, poi, si arrivasse a
immaginare che il popolo desse mandato ai propri eletti di varare una
legge come quella che porta la firma di Paola Severino, perché una
patetica macchietta di energumeno potesse usarla come carta per
pulircisi il culo, in virtù dei voti avuti per essere eletto,
bastava poco più d’un
niente. E ora a questo stiamo: la sovranità popolare è un cazzo
diventato così storto che oggi il popolo può usarlo solo per ficcarselo
in culo.
[segue]
giovedì 4 giugno 2015
[...]
Non
posso dire di aver compreso appieno la faccenda dei cookie – mi muovo meglio in una prospettiva di Escher che in un html – ma mi
fido di Mantellini che la configura come una gran rottura di coglioni
per chi sia titolare di un blog. Poi può darsi che la cosa si
sgonfi, può darsi che un refolo di resipiscenza sfiori la colossale testa di
cazzo che ha partorito l’idea
di questa tassa sulla libera diffusione di opinioni personali (sarà un mio
limite, ma non riesco a leggerla in altro modo), può darsi che blogspot.it provveda gentilmente a togliermi la rogna, qui però parlo dando
per scontato che nulla di questo accada, e comunico di non avere alcuna intenzione di
adeguarmi ad una normativa che ritengo assurda. Perciò avverto il
mio lettore che, al primo blog che saprò raggiunto dalla sanzione che il Garante della Privacy ha previsto per chi rifiuti di piegarsi alla sua richiesta, chiuderò questa pagina
senza ulteriori comunicazioni in proposito, e non sembri scostumatezza.
È che il patto
tacitamente sottoscritto undici anni fa tra me e il mio lettore era
che Malvino
non dovesse costare neanche un centesimo di euro, né a me, né a
lui: è per questa ragione che ho scelto di non acquistare un dominio
personalizzato, ma di utilizzare una piattaforma di blogging ad
accesso gratuito (Il
Cannocchiale,
prima, e Blogger,
poi), e per questa stessa ragione ho deciso che non avrei mai dato
spazio a banner pubblicitari, né avrei mai fatto ricorso alla pratica del chiedere un’offerta al lettore (non mi azzardo a biasimarla, ma personalmente non ne sarei mai capace, neppure se versassi nella più buia indigenza). Insomma, se non può continuare come è stato fin qui, basta, ché in
fondo questa malsana abitudine di pensare ad alta voce è pure durata troppo.
martedì 2 giugno 2015
[...]
C’è
quello che parcheggia in doppia o addirittura in tripla fila in
Piazza Scozia, quello che imbratta un muro di Via Calenda scrivendo
con la bomboletta spray «Frullino,
sei il mio battito d’ali», poi c’è
quello che sfreccia in motorino in Piazza della Libertà, che è area
pedonale, e quello che in Via Diaz lascia il sacchetto della
spazzatura fuori dal cassonetto,
ma si arriva all’enormità di quello che ha tentato di rubare una
panchina a Piazza Malta svitandone i bulloni che la fissavano al
suolo. Tutti «incivili», senza dubbio, anzi «cafoni», veri e
propri «animali», anzi «bestie», sì, ma per quale ragione? E c’è
bisogno di chiederlo? Si tratta di individui che non hanno alcun
rispetto delle leggi. Proprio come De Luca, che con la «legge
Severino» ci si pulisce il culo.
L’art.
8 della «legge Severino» recita che «sono sospesi di diritto dalle
cariche indicate all’art. 7, § 1 [fra le quali vi è quella di
presidente della giunta regionale] [...] coloro che hanno riportato
una condanna non definitiva per uno dei delitti indicati all’art.
7, § 1, lettera a), b), e c)», fra i quali v’è quello di abuso
d’ufficio, per il quale, a gennaio di quest’anno, De Luca è
stato condannato in primo grado ad un anno di reclusione. C’è
bisogno di essere titolare di una cattedra di Filosofia del diritto
per intuire che la logica che porta alla sanzione per chi ostacola il
traffico alla rotatoria di Via Nizza perché ha parcheggiato l’auto
dove non doveva sia la stessa che porta alla sospensione del
neoeletto governatore della Campania un attimo dopo che si sarà
insediato?
Sarebbe stato meglio non parcheggiare lì l’auto,
sarebbe stato meglio non candidarsi proprio, ma ormai è fatta, e
allora come è opportuno comportarsi? Quello che
è in sosta vietata – ce lo racconta De Luca in uno dei video nel
quale ha consegnato alla storia le sue gesta da paladino della
legalità – trasecola (e che avrà fatto mai?), e invece di
sbrigarsi a spostare l’auto, che sta causando un serio ostacolo al
regolare flusso del traffico, pretende di discutere sul senso di un
divieto di sosta proprio in quel punto. Come definire uno così?
«Incivile», come minimo, e poi «bestia». E De Luca? Come
reagisce, De Luca, a chi gli fa presente che la «legge
Severino» è legge dello stato? Tale
e quale.
A
rendere De Luca incompatibile con una carica pubblica non è tanto
una condanna per abuso d’ufficio
in attesa del giudizio in appello, un’altra
per reato ambientale poi estinta per prescrizione, e nemmeno i suoi
numerosi carichi pendenti per danno erariale, diffamazione,
corruzione, concussione, lottizzazione abusiva, ecc. – do per certo
che le imputazioni, se le fonti dalle quali ne prendo notizia non
sono mendaci, cadranno tutte in piene assoluzioni – ma il fatto
che, in quanto a rispetto delle regole, non è meno «bestia»
di chi egli stigmatizza come «bestia».
lunedì 1 giugno 2015
Frammenti predatati
«Prendere in mano il
libro d’uno scrittore vivente e, a giusta ragione, stimato;
ripetere alcune sue proposizioni, esaminarle punto per punto, trovare
in tutto che dire, fargli, per dir così, il dottore a ogni passo, è
una cosa che, a lungo andare, è quasi impossibile che non lasci una
certa impressione di presunzione, e di basso e insistente litigio.
Per prevenire questa impressione, non dirò al lettore: vedete se non
ho ragione ogni volta che prendo a contraddire: so e sento che l’aver
ragione non basta sempre a giustificare una critica, e soprattutto a
nobilitarla. Ma dirò: considerate la natura dell’argomento».
Alessandro Manzoni,
Osservazioni sulla morale
cattolica
I. La
decisione di sospendere l’aggiornamento di queste pagine nasceva,
come ho provato a spiegare, dall’insofferenza alle norme che da
qualche tempo sono vigenti nella comunicazione pubblica, e che di
fatto abrogano quelle della retta argomentazione, sempre violate da
quando esiste il mondo, questo sì, ma mai come negli ultimi anni
dichiarate formalmente invalide sull’assunto che nel foro sia
legittimo cercare, e dunque legittimo ottenere, la persuasione col
piegare la logica al paralogismo: dichiaravo, in sostanza, che nel
foro pubblico la mia scrittura potesse tutt’al più assolvere al
compito di testimoniare la cocciuta fedeltà a norme ormai desuete,
riconosciute valide solo in contesti sempre più marginalizzati. Se
questo è l’andazzo che ormai segna la comunicazione pubblica sugli
affari correnti, tutto si esaspera su quelli speciali, e questo è
quel che accade in queste ore, con lo spaccio di narrazioni che non
lasciano dubbi: si cercano e si offrono semplificazioni che possano
nutrire l’emozione, renderla sazia di certezze facilmente
commestibili, per reclutare l’opinione pubblica in opposte fazioni
armate di sentimento e di risentimento. E tutto questo accade
proprio nel momento in cui dovremmo sforzarci di non fare il gioco
dei terroristi, e invece anche stavolta è proprio quest’uso
improprio dell’emozione a farci correre
il rischio di dar loro un consistente aiuto nel riuscire a ottenere
proprio quello che si prefiggevano.
Voglio
dare per scontato sia solo l’emozione
a farci correre questo rischio: voglio sterilizzare ogni sospetto che
qualcuno stia tentando di strumentalizzarla, con ciò rendendosi di
fatto complice dei terroristi, e tuttavia spacciandosi come il suo
più fiero nemico; voglio evitare il ben che minimo cenno a quel fin
troppo generoso tributo di compassione che, a dispetto d’ogni buona
fede, ci consente di sentirci esentati dal dovere di capire, per
quanto ci sia dato; voglio astenermi perfino dal segnalare le patenti
incongruenze cui l’emozione trascina, demolendo in pochi istanti
ciò che abbiamo faticosamente costruito in decenni di sforzi
personali e in secoli di impegno collettivo. Cercherò di essere
bonario, diciamo, ma per essere onesto fino in fondo devo premettere
che lo spettacolo che vedo scorrere in queste ore non mi assicura di
riuscirci, perciò avviso che potrei risultare irritante
nell’attribuire ignoranza o malafede a chi sta dando prova di
credere o voler far credere che il problema posto dai fatti di Parigi
stia tutto nell’islam oppure, di converso, nelle politiche
imperialistiche dell’occidente capitalistico: costruzioni che
reggono solo su pseudoargomenti, che tuttavia sono riusciti a
conquistare tanto successo da risultare inattaccabili perfino
all’evidenza che l’imperialismo sia una categoria ormai
inservibile per dar ragione degli interessi del capitalismo e che di
islam ce ne siano almeno tre o quattro. Le rappresentazioni di comodo
vincono su ogni tentativo di leggere ciò che accade.
II. Ora
che i fatti del 13 novembre non sono più in cima ai temi del
dibattito pubblico, e al punto che forse a tanti già non basterà la
sola data per richiamarli con immediatezza alla memoria, è possibile
qualche considerazione che per freddezza di argomento sarebbe apparsa
sconveniente nel tumulto delle emozioni – dolore, rabbia, paura –
scatenato dagli eventi. A chi voglia prendervi parte senza correre il
rischio di procurarsi cattiva fama, infatti, il dibattito pubblico
impone la regola di non arrecare la ben che minima offesa alle
emozioni che sono prevalenti nel momento in cui si prende la
parola, offesa che talvolta risulta gravissima anche al solo sospetto
che esse non siano pienamente condivise, figurarsi il concedere che
siano pienamente condivisibili, ma per ciò stesso rammentare quanto
siano in tutto funzionali al disegno terroristico. E dico rammentare,
perché il terrorismo è stato studiato a fondo, sappiamo cosa sia, a
cosa veramente miri, come si serva proprio delle emozioni che scatena
per ottenerlo, quanto più facilmente riesca nello scopo quanto meno
si riesca a offrirgli altro che quelle, coi loro ciechi automatismi.
Oggi, ad appena un mese dalla strage di innocenti consumatasi a
Parigi, dolore, rabbia e paura riverberano quasi esclusivamente nella
loro eco, nella quale finiranno per spegnersi fino a quando non
saranno riaccese dal prossimo attentato terroristico: siamo
nell’intervallo concessoci per
poter rammentare che il terrorismo è teatro, che le sue vittime sono
solo un mezzo, che il vero fine dei terroristi è quello di suscitare
paura, dolore e paura in platea, per condizionare le opinioni,
piegarle alla convinzione che la risposta migliore a una strage sia
proprio quella cui la strage mirava, dando il destro ai governi di
farsi complici più o meno consapevoli, più o meno interessati, di
chi ha seminato il terrore. In questa occasione, con chi ha
riproposto la tesi che fossimo dinanzi all’episodio
di una guerra di religione, possiamo dire di essere stati al gioco
dei terroristi, che infatti non si risparmiano per convincerci sia
davvero così. Anche in questo caso, come sempre d’altronde,
la religione è mera sovrastruttura degli interessi che ne fanno il
vessillo in battaglia.
III. I
dizionari etimologici sono soliti dar conto in modo estremamente
algido di controversie che a volte sono state incandescenti sul donde
di alcuni lemmi. Uno di questi è legge,
che a lungo s’accettò
venisse da ligare,
e cioè legare,
dunque obbligare,
fino a quando sortì chi sostenne venisse da legere,
e cioè scegliere,
raccogliere,
ma anche eleggere
e
prim’ancora
– letteralmente – leggere,
ben presto trovandosi d’affianco,
e poi opposto, chi affermava venisse da λέγειν,
che insieme sta per dichiarare,
proclamare,
esporre,
ma anche – estensivamente – ordinare,
e con la stessa duplicità di significato che questo verbo conserva
in italiano (comandare
e
mettere
in ordine).
Litigarono per qualche secolo, poi, quando parve che la disputa
potesse ritenersi destinata a non avere un vincitore, e le tre tesi
dovessero convivere nel compromesso, accadde un fatto nuovo: scese in
campo chi affermò che legge
venisse
dal celtico legh
o
dal sassone lagh,
participi passati di verbi che stanno per porre,
stabilire,
fissare.
Lì la disputa si riaccese, cominciando a farsi, a fasi alterne, ora
semasiologica, ora onomasiologica, fin quando schizzò dall’ambito
in cui era nata per andare ad appiccare fuoco in quello della
filosofia politica: posto che la legge proclama e stabilisce e ordina
e obbliga – così qui la questione fu riformulata – quale delle
quattro funzioni implica le altre tre? Questione che a ben vedere,
dunque, rimaneva su un donde, però spostando l’attenzione
dal significante al significato. Ci si cominciò a chiedere: la legge
è
antecedente e superiore all’uomo
(perché in ultima analisi è sempre divina e/o naturale, e dunque
non può che sostanziarsi in obbligo, in aderenza a una verità che,
essendo prima, conviene resti ultima) o è piuttosto la soluzione che
di volta in volta l’uomo
si dà per far fronte a bisogni che sono inevitabilmente sempre
nuovi, perciò ricontrattualizzandone incessantemente i termini, che
in sostanza sono quelli propri a un pattuire? Anche qui, dove tuttora
si consuma, è difficile che la disputa possa chiudersi in modo
definitivo, tanto meno che se ne possa prevedere l’esito.
Dev’essere
per questa ragione che Carl Schmitt elude la questione del donde
venga lex
e
tutta la sua attenzione va a νόμος
(Der
Nomos der Erde,
I, 4), il cui etimo sterilizza il problema se la norma preceda l’uomo
o lo segua. Se νόμος,
infatti, è quanto divide, ripartisce e assegna la proprietà con
quanto le allegato in termini di potere, la sua origine sta
certamente prima di ogni patto, che di fatto subentra solo a sancire
la divisione, la ripartizione e l’assegnazione,
ma certamente dopo che sia dato ciò che è da dividere, ripartire e
assegnare, sicché nel limite che separa, circoscrive e conferisce si
trova la coincidenza di trascendente e immanente, e questo taglia la
testa al toro: la norma – così risolve – sta in una dimensione
ancestrale che precede la storia, anzi potremmo dire che addirittura
la generi, e donde tragga origine a sua volta diventa questione che
rimanda alla natura umana, sulla quale è opportuno discutere in
altra sede, dove d’altronde
trova ulteriore accantonamento, perché con «teologia
politica» il
donde torna ancora alla coincidenza di trascendente e immanente,
soluzione che può tornare comoda per ogni teocrazia e per ogni
cesaropapismo. Non così se la questione parte dal dove venga
la legge,
perché, se lega, elegge, ordina o fissa, resta insoluto il problema
di cosa o chi la muova a farlo, e come abbia acquistato questo
potere. Discorso a parte è quello sulle armi che si impiegano nel
sostenere l’una
o l’altra
delle ipotesi sul donde venga la legge:
ad esse si affidano le sorti di una partita che evidentemente è
fatale, dunque si penserebbe debbano essere micidiali, di fatto
tuttavia non sono mai troppo diverse dagli attrezzi coi quali gli
etimologi scavano in cerca di radici. È che, al pari del seme, che
si estende verso il basso, perdendosi in profondità spesso
insondabili, ma pure verso l’alto,
con uno sviluppo quasi sempre imprevedibile, ed è in questo –
semplicemente in questo, che poi è il suo destino, verso l’alto
e verso il basso – che il seme va irrimediabilmente perso, anche
l’origine
di un lemma diventa privo del senso primigenio nel suo proiettato
anteriore e in quello posteriore. Nell’impossibilità
di riandare al momento della semina (altra cosa è rappresentarsela,
ma qui subentra l’arte
storiografica, necessariamente al servizio di questo o quel
committente), non resta che andare a considerare quel che di sé il
seme riproduce in seno al frutto: si può almeno – ecco cosa ci
rimane – tentare di riconoscere la legge
in
seno a ogni singola legge, ma, quand’anche
vi si riesca – e chi può mai dire d’esserci
davvero riuscito? – resta il fatto che si è sempre ben lungi dal
poter essere certi su chi davvero sia il soggetto che le ha dato
profondità e altezza, mentre resta assodato solo che questi ne abbia
avuto il potere, senza che peraltro neppure si possa fare un passo
avanti nel capire se ciò gli fosse intrinseco ab
origine o
gli sia stato conferito, ed eventualmente quando, e come, e da chi.
Per meglio dire: questi problemi sono sempre – irrimediabilmente –
spostati in altro ambito, quello mitologico o quello storico, dove
daranno luogo ad altre dispute, ma di fatto, per quanto sia possibile
tracciare il farsi di una singola legge fino al più minuto dei suoi
dettagli, la legge
che
ne ha guidato il farsi resterà comunque inaccessibile alla piena
comprensione. Ancora meglio, e perché l’affermazione
non suoni come radicalmente scettica come se messa in mano a un
novello Sesto Empirico: ci resterà oscuro il modo in cui la ratio
che
la informa, e che probabilmente potremo pure dire riconoscibile con
un buon margine di approssimazione, sia poi riuscita a farsi attiva
in essa. Perché, alla fin fine, la natura del potere rimane oscura
anche a chi lo detiene, e forse è proprio per questo che teologia e
politica furono a lungo inestricabili, e per millenni il λόγος
del
λέγειν
parve
la ratio
che
dall’onnipotenza
di Dio scendesse ad ipostatizzarsi nel potere dell’uomo.
È sconsolante – tanto sconsolante, a volte, da doverlo rimuoverlo
– ma chi governa (rectius:
chi legifera e impone il rispetto delle leggi) spesso non ha pieno
controllo della ratio
che
lo muove: la legge
– diremmo
– lo attraversa. Con ciò, sia chiaro, non si vuol disconoscere che
nel suo agire siano evidenti i fini che lo spingono all’azione,
né si vuol sminuire il fatto che essi rispondano sempre ad interessi
miranti a dividere, ripartire e assegnare, per la ridefinizione del
limite che separa, circoscrive e conferisce: semplicemente qui si
afferma che la ratio
che
muove il legislatore trascende i suoi calcoli quand’anche
siano giusti, ed è per questo che la governabilità di un popolo
resta in ultima analisi nella capacità di convincerlo che il donde
della legge
riposi
nel compromesso tra le ipotesi sul suo etimo. In sostanza, che il
potere non si sappia donde venga, ma che si legittimi nell’esserci.
Un’aporia
che si scioglie in una tautologia. E sia ben chiaro che questo vale
per ogni genere di legge, da quella morale a quella fisica, da quella
che fonda la logica a quella che si traduce in norma sintattica. La
legge
è
legge,
e le leggi la contemplano.
IV. Tutti
i gesti coi quali l’anima
fece cadere ad uno ad uno ogni suo velo l’avvilupparono
in una fitta ipocrisia, sicché allo stolto, infine, parve nuda,
tremante, e invece era tutta infagottata di tutto il suo gesticolato,
e non tremava per pudore o freddo: il suo era il sussulto d’un
ghigno. Stava al centro del romanzo, fingendo un bel rossore di
verecondia, ma dentro – nell’anima
dell’anima
– c’era
la fiera perfidia di avere infinocchiato il lettore.
V. «La forza di un argomento – dice Chaïm Perelman – dipende dall’adesione degli ascoltatori alle premesse dell’argomentazione, dalla pertinenza di quest’ultima, dal rapporto prossimo o remoto che essa può avere con la tesi sostenuta, dalle obiezioni che le si potrebbero muovere, dal modo con cui si potrebbe confutarle». Nella forza di un argomento – tiene, però, a precisare – «si mischiano, in modo quasi inestricabile, due qualità: l’efficacia e la validità». Di qui l’impossibilità di dare per scontato che un argomento sia valido per il solo fatto che si riveli efficace, ma anche di poter essere sicuri che esso possa rivelarsi efficace per il solo fatto di esser valido, e Chaïm Perelman ne dà ragione col dire che «l’efficacia di un argomento è relativa all’uditorio [sicché] è impossibile valutarla senza far riferimento all’uditorio cui esso viene presentato», mentre «la validità, al contrario, è relativa a un uditorio competente, nella maggior parte dei casi all’uditorio universale». Ne conseguirebbe che l’efficacia di un argomento sia il fine cui solo la validità può offrirsi come retto mezzo: giacché a nessuno sfugge che la retorica sia un’arte affine a quella bellica, sarebbe come a dire che ci si possa dire vincitori sul campo solo se nel corso della battaglia si siano rispettate delle ben precise regole. Sappiamo che questo non accade, e non è mai accaduto: nobile o meno che fosse il fine per cui si entrasse in guerra, la regola di risparmiare le popolazioni civili non si è quasi mai rispettata; né mai ci si è fatto scrupolo nell’uso di fallacie per vincere una causa, quando sentita giusta, sebbene non lo fosse, e non lo fosse proprio perché difesa da argomenti invalidi, poco importa se non ve ne fossero di validi spendibili, o ve ne fossero, ma non venissero spesi. In ciò la retorica mostrò fin dagli esordi il grave limite posto al suo statuto fondativo: nata per trasformare il campo di battaglia in foro, e la forza bruta in logica, ben presto fu costretta a fare i conti con l’impossibilità di separare quanto fosse valido da quanto risultasse efficace. Come la democrazia, nata perché la legge fosse uguale per tutti («competente» e «universale», diciamo), così la logica che informa la retta argomentazione: giacché «la forza di un argomento dipende dall’adesione degli ascoltatori alle premesse dell’argomentazione, dalla pertinenza di quest’ultima, dal rapporto prossimo o remoto che essa può avere con la tesi sostenuta, dalle obiezioni che le si potrebbero muovere, dal modo con cui si potrebbe confutarle», era ed è sufficiente che il foro non sia «competente» perché da giudice si trasformi in oggetto conteso. Può dolere a chi scenda nel foro aspettandosi il giusto verdetto da un «uditorio competente» perché «universale» (un uditorio che riconosca la cogenza delle norme che informano la logica, rigettando col dovuto sdegno la loro violazione e, ancor più, i mezzucci per aggirarle), ma si rassegni: quasi mai le premesse saranno tali da premiare le sue attese, che dunque, a condizioni date, sono legittime solo dinanzi a un giudice tutto fittizio, sostanzialmente aleatorio. Chi scende nel foro con la certezza che un argomento valido possa anche risultare efficace compie un atto di fede nell’onnipotenza della logica, che in realtà può solo dove, come e quando le è lasciato spazio per mettere ordine, a prezzo di un sacrificio che è insostenibile per la gran parte degli umani, e non si può pretendere. Tutto sommato, potremmo dire che pretendere di aver ragione su un argomento invalido sia …
Ma come cazzo mi viene di star lì a rotolare dolorante, urlando «arbitro! arbitro!»?
VI. «Cesare Abbo aveva portato dalla natura un temperamento estremamente lussurioso. Appartenente a famiglia ricca e di ottime origini, che godeva di gran credito nella migliore società, egli si era abbandonato giovanissimo a tutti gli eccessi, ed aveva sciupato il proprio patrimonio nel giuoco, nella crapula, negli stravizi di ogni genere, seminando il sentiero della sua vita di vittime infelici della sua foia. [...] Compromesso da una serie di fatti turpi Cesare Abbo, per non incorrere in guai maggiori, dovette lasciar Roma e lo stato pontificio. Dopo aver passato qualche anno soggiornando in varie città d’Italia, passò all’estero e finì collo stabilirsi a Parigi, dove, dato fondo fino agli ultimi resti della sua fortuna, aveva dovuto, per vivere, ricorrere alla sua cultura e trar profitto dalle sue cognizioni. [...] Riparato a Liegi ebbe un posto di professore in un collegio cattolico e corruppe una quantità di fanciulli affidati alla sua cura, suscitando uno scandalo gravissimo e facendosi istruire un processo, dal quale non sarebbe uscito incolume, senza l’aiuto della famiglia la quale riuscì ad assopire la cosa. Era stato in quel mezzo investito della sacra porpora un suo nepote in linea femminile e questi spiegò tutta la sua influenza a favor dello zio. Erano passati di molti anni e la memoria dei fatti di Cesare Abbo era impallidita a Roma. Il cardinale, fatte le debite diligenze pensò di richiamarlo a sé, e gliene fece la proposta per lettera. L’offerta non poteva essere più lusinghiera e vantaggiosa per il lussurioso e randagio buontempone. Egli vide aprirsi innanzi un nuovo orizzonte e si promise di approfittare largamente di tutte le gioconde prospettive che esso gli presentava. Chiese ed ottenne di entrare negli ordini e sorvolando per volere del nipote a tutte le difficoltà, vincendo tutti gli ostacoli, fu fatto prete in breve volger di tempo, mutando il suo nome di Cesare troppo compromesso in quello di Domenico. […] Il cardinale fu molto sorpreso di trovarsi avanti uno zio che pareva meno anziano di lui, quantunque foss’egli il più giovane dei membri del sacro collegio; investito della porpora cardinalizia da Sua Santità Gregorio XVI per la grandissima dottrina ond’era fornito. Tuttavia sedotto dai modi squisitamente signorili del neoprete, giudicò che sarebbe tornato di lustro alla sua corte e gli fece pertanto le migliori accoglienze. [...] Domenico Abbo conservò per parecchio tempo un contegno castigatissimo ed una condotta irreprensibile. […] I favori di Gregorio XVI uniti a quelli del cardinale nipote nocquero all’antico libertino. Imbaldanzito, egli non avea più veruna cura ad occultare i suoi intrighi colle belle penitenti. I sontuosi pranzi, le luculliane cene incitavano sempre più i suoi sensi e le lascivie succedevano alle lascivie degeneranti in oscenità indescrivibili. Le spose e le zitelle non bastavano più alla sua foia invereconda e andava ripescando nella storia della prostituzione greca, assira, babilonese i più infami riti per soddisfare le luride sue cupidigie. Appositi provveditori gli procuravano teneri garzoncelli, ai quali imprimeva il marchio della sua libidine, escogitando sempre nuovi adescamenti, per ravvivare la sua sensibilità ed acuirla, quando sembravagli intorpidita. Egli rinnovava nel palazzo stesso del cardinale le neroniane orgie di Capri e di Baia, giungendo ad infiggere degli spilli nelle carni de’ giovinetti pazienti, che si assoggettavano alle sue lubriche voglie, per trar godimento più intenso dai sussulti che cagionavan loro gli spasimi delle atroci punture. […] Avvertito una notte che nell’appartamento dello zio doveva aver luogo una delle solite orgie, deliberò di assistervi e di piombare su Domenico Abbo, al momento opportuno, per cacciarlo dal palazzo, come nostro signor Gesù Cristo cacciò i mercatanti dal tempio». È qui che accade il fattaccio: lo zio prete uccide il nipote cardinale. A morsi.
Si tratta di stralci da Mastro Titta (Le memorie del boia di Roma. Memorie di un carnefice scritte da lui stesso), pubblicato in Roma, presso la Tipografia Perino, nel 1891. Anonimo l’autore, che in molti hanno individuato in Ernesto Mezzabotta, liberamente ispiratosi agli appunti lasciati da Giovanbattista Bugatti, boia della Roma papalina, ritrovati da Alessandro Ademollo, che ne curò la pubblicazione per l’editore Lapi, in Città di Castello, nel 1886. Ispirazione estremamente libera, basti pensare che «nepote carnale» diventò «nepote cardinale» per costruirci sopra il romanzaccio che abbiamo scorso nei soli passaggi salienti (nel Mastro Titta copre ben sei capitoli, dal LXXXII al LXXXVII).
È il diario del principe Agostino Chigi (Le Edizioni del Borghese, 1966) che ci consente di dare alla vicenda i suoi reali contorni. Qui, in data 30 maggio 1842, leggiamo che due giorni prima «fu arrestato un prete genovese di cognome Abbo, abitante nella via del Seminario, nell’atto che mandava alle sepolture il cadavere, da lui stesso rinchiuso nella cassa, di un ragazzo di 8 o 10 anni, suo nipote, che conviveva con lui e sul quale si sono riconosciute le tracce evidenti delle più orribili sevizie, di cui tutti i coinquilini e vicini erano informati, e che pare sicuramente siano state compite con la morte. Il prete è stato tradotto in Castel S. Angelo in mezzo alla universale esecrazione»; e in data 19 settembre 1842 che «questa mattina si è tenuta sull’interno di Castel S. Angelo la seduta del Tribunale criminale del Governo per giudicare la causa dello sciagurato prete Abbo, che ivi è detenuto; il risultato è del tutto segreto». Al caso il Chigi dedica altre note nel gennaio 1843: per dire che si è tenuta la seconda udienza, il 4; che «corre voce» si sia proceduto alla «degradazione del prete Abbo», l’11; che «oggi si mette in dubbio che seguisse ieri la [sua] degradazione», il 12; e che«avendo [egli] ricusato ostinatamente di prestarsi, se no costretto dalla forza, alla sua degradazione secondo il rito, si assicura avere il Papa ordinato che prescindendo dalla cerimonia gli si legga il decreto, e quindi si vada avanti nella processura», il 29. In data 12 febbraio, poi, leggiamo che «corre voce che nella seduta del Tribunale tenuta ieri in Castel S. Angelo fosse condannato alla pena di morte», alla cui voce dà conferma il 30 giugno, per dar notizia, in data 4 ottobre, che «questa mattina si è eseguita tra le 8 e le 9 di Francia sulla piazza d’armi di Castel S. Angelo la sentenza della decapitazione nella persona del celebre Abbo», ma che «l’ingresso [alla piazza d’armi] è stato indistintamente interdetto [al pubblico]», facendo «prevalere nel volgo l’opinione che il reo sia stato occultamente sottratto al supplizio». Tre mesi prima, il 4 luglio: «Ha dato luogo a molto discorsi l’arresto seguito vari giorni fa a Civitavecchia (si dice per conto del Sant’Uffizio) nell’atto che stava per imbarcarsi, del Sacerdote D. Ignazio Ralli, primo maestro della scuola dei Sordo Muti a Termini. [Appena un anno prima la scuola aveva avuto l’onore di una visita del papa, Gregorio XVI, che si era profuso in complimenti per l’opera di don Ralli.] Si vuole che il delitto, di cui viene accusato, abbia in parte dell’analogia con quello dell’abate Abbo». Stavolta, tuttavia, non era scappato il morto, dunque c’è da supporre che il «delitto» in questione fosse quello dell’abuso ai danni di minori. Se non per don Abbo, almeno per don Ralli, possiamo parlare di un religioso arrestato dalle autorità pontificie per ciò che oggi definiremmo pedofilia.
E dunque è da considerare errato quanto si afferma in queste ore, a margine della notizia della morte di Jozef Wesolowski: non si è trattato del primo caso di un religioso messo agli arresti in Vaticano per aver commesso abusi sessuali su minori, ma è che, a fronte di quanto la stessa Santa Sede non ha avuto difficoltà ad ammettere nel 2010 (a detta del cardinale Hummes, la percentuale di pedofili tra i religiosi sfiorerebbe il 5%), tra il primo e il secondo arresto corrono più di 170 anni.
VII. L’esperienza tenta disperatamente di insegnarci che lasciarsi andare alle emozioni ci infligge quasi sempre cocenti delusioni e crudeli castighi, tuttavia come si fa a restare freddi dinanzi a gente proverbialmente fredda che accoglie in patria una marea di rifugiati cantando l’Inno alla Gioia? Come si fa a restare freddi dinanzi a un bimbo che stringe al petto un cagnolino di peluche dopo tremila chilometri di stenti? L’esperienza ci guarda lasciarci andare alle emozioni e ammonisce: «Ai tempi in cui l’Ungheria era sotto il tallone comunista, Viktor Orban era un giovanotto molto liberale che lottava per i diritti umani: avresti mai pensato sarebbe diventato una tal merda umana? Tra vent’anni il bimbo non può diventare uno jihadista e far strage alla Oktoberfest?». Si fa odiare, l’esperienza, sembra fatta apposta per farsi odiare. E più la odi, più sembra farsi forte, e insiste: «Ricordi com’eri contento nel 1989, quand’eri convinto che si fosse alla Fine della Storia?». E tu lì sei ad un passo dal mandarla a farsi fottere, ma lei non te ne dà il tempo, e continua: «Ma lasciamo da parte i massimi sistemi, devo rammentarti tutte le volte che per lasciarti andare alle emozioni – e sto parlando delle tue cosine personali, non del tuo eccezionale naso in questioni geopolitiche – poi ti sei dovuto dare del cretino?». Non puoi più mandarla a farsi fottere, la stronza, ma ce la mandi lo stesso: «Lasciami in pace», le dici, ma è più un implorarla che un mandarla a farsi fottere. «Lasciami sbagliare, poi pagherò, ma lasciami sbagliare. Non sbagliassi adesso, potrei guardarmi con soddisfazione allo specchio dopodomani, ma non domani».
VII.
Sarà davvero interessante leggere le motivazioni della sentenza che ieri ha mandato assolto Erri De Luca dal reato di istigazione a delinquere («perché il fatto non sussiste»), soprattutto laddove esse mostrassero che sia stata accolta la tesi difensiva, peraltro ampiamente illustrata in più occasioni dallo stesso imputato, secondo la quale, nel suo caso, il verbo «sabotare» non dovesse essere ristretto al significato di «danneggiare», perché usato in senso figurato per esprimere quello di «ostacolare». Sarà davvero interessante – dico – perché l’esortazione a «ostacolare» la realizzazione di un’opera come la Tav realizzava in ogni caso l’istigazione a commettere un reato, quello di «attentato a impianti di pubblica utilità» (art. 420 c.p.), sicché non si capisce quale sia la ratio che qui possa trasformare in una libera espressione del pensiero quella di fatto resta un’istigazione a delinquere, tanto più perché, nell’intervista concessa il 1° settembre 2013 all’Huffington Post e dalla quale ha preso avvio la vicenda processuale, l’esortazione non era solo al «sabotaggio», ma anche al «vandalismo», di cui risulta pressoché impossibile trovare un senso figurato sostanzialmente differente da quello letterale. Anche qui il giudice può aver accolto la tesi difensiva? Negli atti vandalici che Erri De Luca definiva «necessari» può davvero aver intravvisto il principio della resistenza passiva predicato da Gandhi e da Mandela, cui l’imputato ha spudoratamente accostato la sua persona, sostenendo che la violenza alla quale esortava aveva come fine una «legittima difesa»? Per il rispetto che ci imponiamo nei confronti dei giudici, anche dei giudici che emettono sentenze che ci sembrano ingiuste, c’è da augurarsi di no: le motivazioni di una sentenza che ci sembra ingiusta dovrebbero almeno scalfire la nostra convinzione, non rafforzarla, come qui invece sarebbe inevitabile se il giudice mostrasse di aver fatto propri gli argomenti dell’imputato.
Ma come cazzo mi viene di star lì a rotolare dolorante, urlando «arbitro! arbitro!»?
VI. «Cesare Abbo aveva portato dalla natura un temperamento estremamente lussurioso. Appartenente a famiglia ricca e di ottime origini, che godeva di gran credito nella migliore società, egli si era abbandonato giovanissimo a tutti gli eccessi, ed aveva sciupato il proprio patrimonio nel giuoco, nella crapula, negli stravizi di ogni genere, seminando il sentiero della sua vita di vittime infelici della sua foia. [...] Compromesso da una serie di fatti turpi Cesare Abbo, per non incorrere in guai maggiori, dovette lasciar Roma e lo stato pontificio. Dopo aver passato qualche anno soggiornando in varie città d’Italia, passò all’estero e finì collo stabilirsi a Parigi, dove, dato fondo fino agli ultimi resti della sua fortuna, aveva dovuto, per vivere, ricorrere alla sua cultura e trar profitto dalle sue cognizioni. [...] Riparato a Liegi ebbe un posto di professore in un collegio cattolico e corruppe una quantità di fanciulli affidati alla sua cura, suscitando uno scandalo gravissimo e facendosi istruire un processo, dal quale non sarebbe uscito incolume, senza l’aiuto della famiglia la quale riuscì ad assopire la cosa. Era stato in quel mezzo investito della sacra porpora un suo nepote in linea femminile e questi spiegò tutta la sua influenza a favor dello zio. Erano passati di molti anni e la memoria dei fatti di Cesare Abbo era impallidita a Roma. Il cardinale, fatte le debite diligenze pensò di richiamarlo a sé, e gliene fece la proposta per lettera. L’offerta non poteva essere più lusinghiera e vantaggiosa per il lussurioso e randagio buontempone. Egli vide aprirsi innanzi un nuovo orizzonte e si promise di approfittare largamente di tutte le gioconde prospettive che esso gli presentava. Chiese ed ottenne di entrare negli ordini e sorvolando per volere del nipote a tutte le difficoltà, vincendo tutti gli ostacoli, fu fatto prete in breve volger di tempo, mutando il suo nome di Cesare troppo compromesso in quello di Domenico. […] Il cardinale fu molto sorpreso di trovarsi avanti uno zio che pareva meno anziano di lui, quantunque foss’egli il più giovane dei membri del sacro collegio; investito della porpora cardinalizia da Sua Santità Gregorio XVI per la grandissima dottrina ond’era fornito. Tuttavia sedotto dai modi squisitamente signorili del neoprete, giudicò che sarebbe tornato di lustro alla sua corte e gli fece pertanto le migliori accoglienze. [...] Domenico Abbo conservò per parecchio tempo un contegno castigatissimo ed una condotta irreprensibile. […] I favori di Gregorio XVI uniti a quelli del cardinale nipote nocquero all’antico libertino. Imbaldanzito, egli non avea più veruna cura ad occultare i suoi intrighi colle belle penitenti. I sontuosi pranzi, le luculliane cene incitavano sempre più i suoi sensi e le lascivie succedevano alle lascivie degeneranti in oscenità indescrivibili. Le spose e le zitelle non bastavano più alla sua foia invereconda e andava ripescando nella storia della prostituzione greca, assira, babilonese i più infami riti per soddisfare le luride sue cupidigie. Appositi provveditori gli procuravano teneri garzoncelli, ai quali imprimeva il marchio della sua libidine, escogitando sempre nuovi adescamenti, per ravvivare la sua sensibilità ed acuirla, quando sembravagli intorpidita. Egli rinnovava nel palazzo stesso del cardinale le neroniane orgie di Capri e di Baia, giungendo ad infiggere degli spilli nelle carni de’ giovinetti pazienti, che si assoggettavano alle sue lubriche voglie, per trar godimento più intenso dai sussulti che cagionavan loro gli spasimi delle atroci punture. […] Avvertito una notte che nell’appartamento dello zio doveva aver luogo una delle solite orgie, deliberò di assistervi e di piombare su Domenico Abbo, al momento opportuno, per cacciarlo dal palazzo, come nostro signor Gesù Cristo cacciò i mercatanti dal tempio». È qui che accade il fattaccio: lo zio prete uccide il nipote cardinale. A morsi.
Si tratta di stralci da Mastro Titta (Le memorie del boia di Roma. Memorie di un carnefice scritte da lui stesso), pubblicato in Roma, presso la Tipografia Perino, nel 1891. Anonimo l’autore, che in molti hanno individuato in Ernesto Mezzabotta, liberamente ispiratosi agli appunti lasciati da Giovanbattista Bugatti, boia della Roma papalina, ritrovati da Alessandro Ademollo, che ne curò la pubblicazione per l’editore Lapi, in Città di Castello, nel 1886. Ispirazione estremamente libera, basti pensare che «nepote carnale» diventò «nepote cardinale» per costruirci sopra il romanzaccio che abbiamo scorso nei soli passaggi salienti (nel Mastro Titta copre ben sei capitoli, dal LXXXII al LXXXVII).
È il diario del principe Agostino Chigi (Le Edizioni del Borghese, 1966) che ci consente di dare alla vicenda i suoi reali contorni. Qui, in data 30 maggio 1842, leggiamo che due giorni prima «fu arrestato un prete genovese di cognome Abbo, abitante nella via del Seminario, nell’atto che mandava alle sepolture il cadavere, da lui stesso rinchiuso nella cassa, di un ragazzo di 8 o 10 anni, suo nipote, che conviveva con lui e sul quale si sono riconosciute le tracce evidenti delle più orribili sevizie, di cui tutti i coinquilini e vicini erano informati, e che pare sicuramente siano state compite con la morte. Il prete è stato tradotto in Castel S. Angelo in mezzo alla universale esecrazione»; e in data 19 settembre 1842 che «questa mattina si è tenuta sull’interno di Castel S. Angelo la seduta del Tribunale criminale del Governo per giudicare la causa dello sciagurato prete Abbo, che ivi è detenuto; il risultato è del tutto segreto». Al caso il Chigi dedica altre note nel gennaio 1843: per dire che si è tenuta la seconda udienza, il 4; che «corre voce» si sia proceduto alla «degradazione del prete Abbo», l’11; che «oggi si mette in dubbio che seguisse ieri la [sua] degradazione», il 12; e che«avendo [egli] ricusato ostinatamente di prestarsi, se no costretto dalla forza, alla sua degradazione secondo il rito, si assicura avere il Papa ordinato che prescindendo dalla cerimonia gli si legga il decreto, e quindi si vada avanti nella processura», il 29. In data 12 febbraio, poi, leggiamo che «corre voce che nella seduta del Tribunale tenuta ieri in Castel S. Angelo fosse condannato alla pena di morte», alla cui voce dà conferma il 30 giugno, per dar notizia, in data 4 ottobre, che «questa mattina si è eseguita tra le 8 e le 9 di Francia sulla piazza d’armi di Castel S. Angelo la sentenza della decapitazione nella persona del celebre Abbo», ma che «l’ingresso [alla piazza d’armi] è stato indistintamente interdetto [al pubblico]», facendo «prevalere nel volgo l’opinione che il reo sia stato occultamente sottratto al supplizio». Tre mesi prima, il 4 luglio: «Ha dato luogo a molto discorsi l’arresto seguito vari giorni fa a Civitavecchia (si dice per conto del Sant’Uffizio) nell’atto che stava per imbarcarsi, del Sacerdote D. Ignazio Ralli, primo maestro della scuola dei Sordo Muti a Termini. [Appena un anno prima la scuola aveva avuto l’onore di una visita del papa, Gregorio XVI, che si era profuso in complimenti per l’opera di don Ralli.] Si vuole che il delitto, di cui viene accusato, abbia in parte dell’analogia con quello dell’abate Abbo». Stavolta, tuttavia, non era scappato il morto, dunque c’è da supporre che il «delitto» in questione fosse quello dell’abuso ai danni di minori. Se non per don Abbo, almeno per don Ralli, possiamo parlare di un religioso arrestato dalle autorità pontificie per ciò che oggi definiremmo pedofilia.
E dunque è da considerare errato quanto si afferma in queste ore, a margine della notizia della morte di Jozef Wesolowski: non si è trattato del primo caso di un religioso messo agli arresti in Vaticano per aver commesso abusi sessuali su minori, ma è che, a fronte di quanto la stessa Santa Sede non ha avuto difficoltà ad ammettere nel 2010 (a detta del cardinale Hummes, la percentuale di pedofili tra i religiosi sfiorerebbe il 5%), tra il primo e il secondo arresto corrono più di 170 anni.
VII. L’esperienza tenta disperatamente di insegnarci che lasciarsi andare alle emozioni ci infligge quasi sempre cocenti delusioni e crudeli castighi, tuttavia come si fa a restare freddi dinanzi a gente proverbialmente fredda che accoglie in patria una marea di rifugiati cantando l’Inno alla Gioia? Come si fa a restare freddi dinanzi a un bimbo che stringe al petto un cagnolino di peluche dopo tremila chilometri di stenti? L’esperienza ci guarda lasciarci andare alle emozioni e ammonisce: «Ai tempi in cui l’Ungheria era sotto il tallone comunista, Viktor Orban era un giovanotto molto liberale che lottava per i diritti umani: avresti mai pensato sarebbe diventato una tal merda umana? Tra vent’anni il bimbo non può diventare uno jihadista e far strage alla Oktoberfest?». Si fa odiare, l’esperienza, sembra fatta apposta per farsi odiare. E più la odi, più sembra farsi forte, e insiste: «Ricordi com’eri contento nel 1989, quand’eri convinto che si fosse alla Fine della Storia?». E tu lì sei ad un passo dal mandarla a farsi fottere, ma lei non te ne dà il tempo, e continua: «Ma lasciamo da parte i massimi sistemi, devo rammentarti tutte le volte che per lasciarti andare alle emozioni – e sto parlando delle tue cosine personali, non del tuo eccezionale naso in questioni geopolitiche – poi ti sei dovuto dare del cretino?». Non puoi più mandarla a farsi fottere, la stronza, ma ce la mandi lo stesso: «Lasciami in pace», le dici, ma è più un implorarla che un mandarla a farsi fottere. «Lasciami sbagliare, poi pagherò, ma lasciami sbagliare. Non sbagliassi adesso, potrei guardarmi con soddisfazione allo specchio dopodomani, ma non domani».
VII.
Sarà davvero interessante leggere le motivazioni della sentenza che ieri ha mandato assolto Erri De Luca dal reato di istigazione a delinquere («perché il fatto non sussiste»), soprattutto laddove esse mostrassero che sia stata accolta la tesi difensiva, peraltro ampiamente illustrata in più occasioni dallo stesso imputato, secondo la quale, nel suo caso, il verbo «sabotare» non dovesse essere ristretto al significato di «danneggiare», perché usato in senso figurato per esprimere quello di «ostacolare». Sarà davvero interessante – dico – perché l’esortazione a «ostacolare» la realizzazione di un’opera come la Tav realizzava in ogni caso l’istigazione a commettere un reato, quello di «attentato a impianti di pubblica utilità» (art. 420 c.p.), sicché non si capisce quale sia la ratio che qui possa trasformare in una libera espressione del pensiero quella di fatto resta un’istigazione a delinquere, tanto più perché, nell’intervista concessa il 1° settembre 2013 all’Huffington Post e dalla quale ha preso avvio la vicenda processuale, l’esortazione non era solo al «sabotaggio», ma anche al «vandalismo», di cui risulta pressoché impossibile trovare un senso figurato sostanzialmente differente da quello letterale. Anche qui il giudice può aver accolto la tesi difensiva? Negli atti vandalici che Erri De Luca definiva «necessari» può davvero aver intravvisto il principio della resistenza passiva predicato da Gandhi e da Mandela, cui l’imputato ha spudoratamente accostato la sua persona, sostenendo che la violenza alla quale esortava aveva come fine una «legittima difesa»? Per il rispetto che ci imponiamo nei confronti dei giudici, anche dei giudici che emettono sentenze che ci sembrano ingiuste, c’è da augurarsi di no: le motivazioni di una sentenza che ci sembra ingiusta dovrebbero almeno scalfire la nostra convinzione, non rafforzarla, come qui invece sarebbe inevitabile se il giudice mostrasse di aver fatto propri gli argomenti dell’imputato.
A scanso di ogni equivoco, chiariamo: sull’utilità della Tav è pienamente legittimo che si possano esprimere dubbi (non starò a elencare tutti quelli sollevati, mi limito a dire, e per il poco che vale, che personalmente ne condivido parecchi); pienamente legittimo, altresì, che questi dubbi possano maturare in una franca contrarietà alla realizzazione dell’opera (da parte di chiunque e, ancor più, da parte di chi vive in Val di Susa); altrettanto legittimo – e pienamente legittimo – che questa contrarietà si manifesti in protesta (in loco o altrove); laddove, tuttavia, questa assuma i connotati dell’azione mirante a «ostacolare» la realizzazione dell’opera, mi pare pacifico si configuri quanto sia diretto a danneggiarla, e cioè il reato di cui all’art. 420 c.p.; e allora com’è possibile che l’esortazione a commetterlo non sia istigazione a delinquere?
Chi vince vince, non c’è dubbio
Chi
vince vince, non c’è dubbio, e
chi perde perde, è ovvio. Non si discute, dunque: le regioni erano
sette, cinque vanno al Pd di Renzi, Renzi e i renziani possono dire
di aver vinto cinque a due. Poi, volendo, c’è
da guardarla più da vicino, questa vittoria.
Ha votato solo un
avente diritto al voto su due, con una media di quasi il 10% in più
di astensionismo rispetto alle Europee, che già battevano un record. Sulla vittoria non incide, perché si sa che chi
non vota conta zero, ma esiste e, pur stando zitto, qualcosa dice:
dice che non fa alcuna differenza tra chi vince e chi perde, perché
l’uno vale l’altro,
e il giudizio di valore quasi mai è lusinghiero. La vittoria,
dunque, è oggettiva, senza dubbio, ma solo per chi crede nella
partita, e a credere che abbia un senso è solo la metà del paese.
L’altra metà non ci crede,
delegittimando in questo modo il senso della competizione elettorale,
ma senza avere alcun diritto di delegittimarne il risultato, tanto
meno di invalidarlo o di depotenziarne gli effetti, il che può
lasciare indifferente solo chi considera le elezioni un mero
espediente per avere uno che governi. Con lo sbilanciamento del
rapporto tra rappresentatività e governabilità, e con l’ormai
consolidata opinione che la prima debba sempre essere sacrificata
alla seconda, che è il segno più macroscopico della crisi in cui
versa la democrazia, non mette in alcun conto considerare un così
alto astensionismo: se ne parlerà un pochino, ma solo fino a quando
non si avranno i risultati definitivi, e sarà l’omaggio che il
vizio tributa alla virtù.
E dunque accantoniamo senza alcuno
scrupolo questi milioni di aventi diritto al voto che hanno ritenuto
inutile votare, d’altra parte non è detto che in futuro cambino
idea e tornino alle urne, ma, per il modo in cui si va consolidando
l’idea che la democrazia possa restar tale anche conservando solo
la forma per poter perdere ogni sostanza, è più probabile che si
asterranno ancora, e che il loro numero sia destinato a crescere.
Poco male: se il fine ultimo è svuotarla del tutto, saremmo in
democrazia anche quando l’elettorato attivo dovesse pienamente
coincidere con quello passivo e una oligarchia procedesse per
cooptazione a darsi un quadro organico riassettandolo di volta in
volta in funzione dei flussi di potere al suo interno. Basta parlare
di astensionismo, dunque. Non è un problema.
Se dobbiamo
concentrarci esclusivamente sull’oggettivo peso dei risultati,
rimane il cinque a due che Renzi e i suoi possono vantare come
vittoria. Possono vantarla, ma è vera vittoria? In Campania vince De
Luca, in Puglia vince Emiliano: due che possiamo considerare
renziani? De Luca ha avuto l’appoggio di Renzi solo nelle ultime
due settimane, dopo mesi e mesi passati a cercare invano un’altra
candidatura: sembrava che potesse andar bene chiunque al posto di De Luca, perfino un vendoliano riverniciato all’ultimo minuto da chiachiello. Neanche il tempo di vincere, anzi di stravincere, ed
ecco che Emiliano apre al M5S, dice che gradirebbe la sua
collaborazione al governo della regione. Poco importa cosa se ne
farà, di fatto non ha aperto né a Schittulli, né a Poli Bortone, e
questa è una rottura con la linea che il Pd persegue a livello
nazionale, peraltro in bilico tra la voglia di un nuovo patto del Nazareno e la tentazione all’azzardo di provare al più presto l’Italicum per vedere se la destra si svuota in favore del tanto vagheggiato Partito della Nazione. In Campania e in Puglia, quindi, non è affatto esagerato dire che si
tratti di una vittoria di Pirro: Renzi può solo attendersi delle
rogne da De Luca ed Emiliano, e solo in cambio di poter esibire,
oggi, le loro vittorie – vittorie esclusivamente loro – come sue. Un prezzo enorme per quasi niente.
Lì dove erano in corsa candidati genuinamente renziani – Paita in
Liguria e Moretti in Veneto – la batosta è stata anche più sonora di quanto fosse ragionevole attendersi, rivelando
ancor di più, se fosse necessario, che Renzi è un uomo solo, che può
contare, è vero, su un partito che in Parlamento e in Direzione
nazionale lo asseconda con la dovuta soggezione, e quasi certamente
continuerà a farlo, ma solo fino a quando riuscirà a reggere, e con personalità buone solo a fargli da contorno: comparse, qualche caratterista di assai opinabile talento, anonimi sgherri per presidiare il punti sensibili del web, ma poi che altro? Chi poi è
diventato renziano dalla sera alla mattina – si pensi ad un Orfini
o ad una Serracchiani – quanto potrà metterci a non esserlo più, quando fosse necessario?
Vince,
Renzi, e in modo relativamente agevole, in Toscana e in Umbria, da sempre feudi del Pci, dove
l’elettorato è abituato da oltre mezzo secolo a votare il
candidato deciso dal partito, chiunque sia: riflesso pavloviano che
prima scattava per ideologia o per sentimento identitario, e oggi
scatta per quanto ne residua dopo la morte delle ideologie ed un
assai problematico ragguaglio circa l’identità. Fa fede di
quest’ultimo dato – emblematicamente, se gli si vuol dar peso –
il fatto che in Umbria gli exit poll davano perdente il candidato del
Pd e tutti sanno che gli exit poll falliscono le previsioni quando
c’è un congruo numero di intervistati che si vergogna di dire per
chi abbia realmente votato. A parte, se non avessimo già detto che chi non vota conta zero, ci sarebbe da segnalare che in queste due regioni l’astensionismo è sempre stato assai ridotto e oggi arriva a superare di parecchio il 40%. Segno che certa puzza si sente pure con le narici turate e turarsele non basta a preferire l’Italia di Renzi a quella di Berlusconi.
Ora, per gli elementi di natura
narcisistica e paranoidea che sempre caratterizzano le dinamiche
interne a gruppi che si danno una leadership come quella di Renzi,
non è difficile prevedere come sarà letto il voto del 31 maggio,
d’altronde già le prime reazioni rivelano i tratti che
caratterizzeranno il mantra da far salmodiare a quelle patetiche
decalcomanie del leader che da qualche tempo infestano i talk show
televisivi. Dove si è perso – si dirà – era largamente
previsto: contro Zaia, in Veneto, era impossibile vincere; in
Liguria, si sa, c’è stato il sabotaggio dei fuoriusciti che, pur
di far perdere il Pd, hanno fatto vincere Toti. Altrove? Conferma che
l’Italia vuole Renzi. S’era detto – è vero – che quello
delle Regionali non fosse un test su di lui e sul suo governo, ma il
risultato, volendo, può ancora tornar buono come indicatore che il
sogno ad occhi aperti ancora regge. Dio ne abbia pietà, quando, ad eccezione di chi sarà stato in grado di riciclarsi per tempo, li vedremo penzolare a testa in giù accanto al loro rais.
domenica 31 maggio 2015
Rap
Di
solito non ne azzecco mai una, è che la realtà si rivela sempre
peggiore delle mie più pessimistiche previsioni, sarà che non sono
mai abbastanza pessimista, o che vedo nero quel che è rosa, perché si sa che questo è il migliore dei mondi possibili, e sono io che non apprezzo l’eccezionalità italiana, insomma, provo a immaginare come andrà
stavolta, sapendo bene che sarò comunque smentito. L’astensionismo
sarà altissimo, poi invece non lo sarà affatto, perché venti euro
tornano utili a un sacco di poveracci, ma pure questa è una
previsione, e allora è probabile che sarò smentito, e
l’astensionismo
sarà altissimo. De Luca vincerà, poi invece stravincerà, anzi no,
ci sarà la sorpresa di un Cinquestelle alle stelle, ma avendolo
previsto non sarà così, e vincerà Caldoro, anche se solo per due
voti. Sarà un 6 a 1, anzi, un 5 a 2, però non è detto, perché i
veneti non sono migliori dei liguri, e allora il 7 a 0 ha le stesse
probabilità del 3 a 4, e insomma, delle due una, Renzi ne esce come
Eliogabalo, tutt’è
vedere se come l’Eliogabalo
portato sugli scudi o quello fatto a pezzi gettati nella Cloaca
Maxima. Previsioni estreme, dunque è più verosimile che perderà un
pochino, ma terrà, però anche questa è una previsione, dunque è
destinata ad essere smentita. D’altronde
corrono voci, anzi bisbigli, anzi sondaggi, che la base del Pd
prepara un ribaltone, e che quella forzista si rivelerà più in
forze di quanto si possa immaginare, per non parlare della Lega che
sfonderà perfino in Puglia, dove non so neppure se si presenta. Gli impresentabili? Tutti eletti, anzi no, non ne sarà eletto neanche uno, cioè qualcuno sì, qualcuno no. In ogni caso è certo che lunedì ci sarà un terremoto, o un lento e quasi impercettibile bradisismo, sennò tutto tranquillo, e passeremo al calcio e alla cronaca nera, che risaputamente danno più soddisfazioni. Esiti improbabili, perciò possibili, ma, avendoli previsti, chissà, tutti impossibili.
[...]
«Ieri
visita a Napoli del sottosegretario all’Economia Paola De Micheli
per dare forza alla battaglia elettorale di Vincenzo De Luca. Dice di
lui: “Il candidato governatore del centrosinistra è un politico e
un amministratore di lungo corso, porta a sostegno della sua
candidatura il bilancio positivo della sua città e l’intenzione di
promuovere una nuova classe dirigente pronta a sostenere una
battaglia di sburocratizzazione di tutta la pubblica
amministrazione”»
ilsudonline.it,
28.5.2015
sabato 30 maggio 2015
[...]
«Io
credo che questo non sia un voto che riguardi il governo, ma riguardi
l’Europa...
Non è un referendum sul governo»,
così la Boschi, il 20 maggio dell’anno
scorso (*). Il mese dopo, all’Assemblea
nazionale del Pd, con alle spalle un fondale sul quale c’era
un enorme 40,8%, Renzi diceva che in quel risultato non ci
fosse
solo il buon risultato di un gruppo dirigente e del governo, ma il
rinnovo di un mandato cui allegava l’hashtag
#italiariparte
(*).
Il
voto per il Quirinale? «Non è un referendum su di me o sul governo» (*), ma questo lo scorso 26 gennaio. Poi, quando Mattarella non ha avuto neanche il tempo di prestare il giuramento, ecco che la sua elezione deve leggersi come segno che il Parlamento abbia i numeri per approvare le riforme volute dal governo e il risultato ne rilanci l’azione (*).
Oggi, alla vigilia delle Regionali, «le elezioni locali hanno valenza locale» e «il voto non è un test su di me» (*). Rammentarlo a futura memoria? Ma non diciamo sciocchezze. A un paese di merda, prima di tutto, manca la memoria. Quella a lungo termine, ma anche quella a breve.
venerdì 29 maggio 2015
[...]
Cominciamo
col dire che sono stato condannato per un «reato lessicale»: sopra
c’era un cartello con su scritto «in offerta», ci fosse stato
scritto «prezzo scontato» non l’avrei certo portato via senza pagare. E
questo vogliamo chiamarlo furto? Ma via, parliamo di una cosetta da
due soldi. Ne girano, di ladri, e voi volete farmi pesare una sciocchezza del genere? Diciamocela tutta: la condanna è stata un assurdità.
D’altronde mi sono candidato, e certamente sarò
eletto, e l’elezione equivarrà ad una assoluzione. Come si dice? Vox populi... Certo, nemmeno
mi sarei potuto candidare perché fino a due anni fa il partito di
cui sono il capolista faceva vanto di un codice etico che vietava la
candidatura pure a chi era semplicemente indagato, ma per fortuna il
clima interno è cambiato, ora c’è un segretario che l’ha detto
chiaro e tondo: «Chi vince governa». La legge Severino? È uno
scandalo, è una legge che non sta in piedi. Andava bene per
Berlusconi, che è sempre stato scostumato con la magistratura, ma io
sono per la piena autonomia dei magistrati.
giovedì 28 maggio 2015
[...]
C’è
modo e modo per appellarsi alla tradizione come argomento decisivo,
ma quello più fessacchiotto sta nella pretesa che l’etimo
dia immutabile natura a un termine. È il caso di Claudio Cerasa: «Se
le parole hanno un senso, il matrimonio è quello che viene celebrato
tra un uomo e una donna che si sposano sapendo bene che
sull’etimologia delle parole non si può equivocare: matrimonio
viene da matrimonium, è l’unione tra due parole latine, mater,
madre, e munus, dovere, compito, ed è un’unione che esiste per
sancire l’amore tra due persone che si amano e che desiderano
rendere legittimi e tutelati i figli nati dall’amore tra due
persone di sesso diverso. Il matrimonio è questo, con le parole non
ci si può sbagliare» (Il
Foglio,
27.5.2015).
Questo implicherebbe che il possesso di beni materiali
non sia lecito a una donna, perché il patrimonium
è prerogativa di un pater,
e che un ciao
sia attestato di soggezione, perché viene dal veneto sciao,
che a sua volta viene dal latino sclavus,
che vuol dire schiavo
(vostro).
In tutta evidenza siamo dinanzi all’uso
più infelice della logica che assegna un senso alle parole, ma sarà
che Cerasa
viene da c’è
rasa,
e sottintende tabula.
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