Solo
chi è in malafede può negare la gravità di quanto è stato
ampiamente e incontestabilmente documentato da Fanpage, ma per
affermare che il risultato delle Primarie tenutesi a Napoli debba
comunque ritenersi fuori discussione non basta la malafede: occorre
una robusta faccia tosta per negare l’evidenza
e un
fiero disprezzo per le più elementari regole democratiche, doti che
non difettano agli sgherri di Matteo Renzi, nelle cui dichiarazioni a
commento del ricorso presentato da Antonio Bassolino riverbera
l’arroganza
di chi si sente padrone del Pd e non tollera che si sollevino
obiezioni sull’esito
di un voto che era proprio quello desiderato: a Valeria Valente
saranno andati i voti di cosentiniani, di cuffariani, di poveracci
che non ne conoscevano neppure il nome prima che li si portasse ai
seggi mettendogli un euro in mano, ma quel che importa è che abbia vinto, non importa come, perché era la candidata gradita a Matteo Renzi.
Lo scarto di voti che le ha dato la vittoria su Antonio Bassolino è
così esiguo da porre seri dubbi sulla validità del risultato? Non
importa, dice Matteo Orfini.
Fa
niente, gli fa eco Lorenzo Guerini. E in due non fanno un grammo di
pudore.
mercoledì 9 marzo 2016
martedì 8 marzo 2016
Non c’è teoria, non c’è modello
La
psicologia sociale piscia come un colabrodo, però, detto così, il
concetto suona male. Diciamo, allora, che per la natura stessa del
sociale, prodotto
di fattori molto spesso assai difficilmente quantificabili e quasi
sempre solo assai approssimativamente qualificabili, sembrerebbe
ampiamente
giustificato lo scetticismo sull’efficacia
del metodo scientifico applicato allo studio dei suoi svariati
ambiti, e in primo luogo di quelli in cui il sociale si offre come
oggetto di ricerca psicologica, dove i risultati, quand’anche
consentano la costruzione di modelli spesso assai suggestivi, di
regola non rispondono ai requisiti di oggettività, affidabilità,
verificabilità, condivisibilità e predittività, sui quali
comunemente si misura il metodo scientifico, tutt’al
più rispondendo a quello di inficiabilità (termine che ritengo sia
da preferire a quello di falsicabilità, la popperiana
Fälschungsmöglichkeit,
che di sovente ingenera pericolosi fraintendimenti), se non fosse che
è questione ancora aperta se sia scienza solo ciò che
permanentemente inficiabile (Karl Popper, Logik
der Forschung,
1934) o ciò che di un modello riesce a fare un solido paradigma
(Thomas Kuhn, The structure of scientific revolutions,
1962).
Così, forse, suona meglio, resta di fatto che, nonostante
Gustave
Le Bon (Psychologie
des foules,
1895), Gabriel
Tarde (L’opinion
et la foule,
1901), Floyd
Allport (Social
psychology,
1924), Theodore Newcomb (Personality
and social change,
1943), Solomon Asch (Social
psychology,
1952) e Stanley Milgram (Obedience
to authority,
1974), sul conformismo la psicologia sociale piscia come un
colabrodo: ne sappiamo tutto, tranne come si realizza. Sappiamo cosa
ne causa la propensione, cosa ne regge la tensione, cosa ne induce la
precipitazione, cosa ne favorisce la diffusione, cosa ne rende
possibile la cristallizzazione, tanto per riprendere lo schema
proposto da Neil Smelser (Theory
of collective behavior,
1963), ma non abbiamo alcun modello scientificamente valido per
rappresentarcene il divenire, solo profili che potremmo dire
letterari (in fondo pure il caso clinico e la storiografia sono
generi letterari), che per lo più ricalcano il ritratto
dell’individuo
o la
descrizione
della
massa affetti da pulsione gregaria (Sigmund Freud, Psicologia
delle masse e analisi dell’Io,
1921). È così che del conformismo sappiamo cause ed effetti, forme
e modi, ma poco più di niente sappiamo sul come si realizza. Per
meglio dire, ci manca una teoria del suo sviluppo: a fronte di
innumerevoli esperienze individuali e collettive che per
emblematicità ci illudono di poterne ricavare una, ci manca.
Così,
guardando Barbara D’Urso
che intervista Matteo Renzi, si ha l’impressione
di poterne costruire un idealtipo – «il
conformismo
– ci si azzarda a dire – si
realizza come resa per sfinimento della capacità critica»
– ma subito si è costretti a una rettifica – «il
conformismo
– ci si corregge – si
realizza come voluttà di resa»
– ma pure così non si va più in là dell’empirico:
ad ogni applauso il mostro cresce, ma su ciò che accade sotto le
file di scaglie che scivolano l’una
sull’altra
distendendosi a ventaglio – su ciò che ingrossa questa ributtante
bestia che ciclicamente esce dalla preistoria per esigere il tributo
che ciclicamente la storia gli elargisce – non c’è
teoria, non c’è
modello.
lunedì 7 marzo 2016
[...]
Da
oltre un secolo sappiamo che solo in un ambito relativamente
ristretto possiamo permetterci di continuare a fare un uso della
rappresentazione del tempo come quella classica, valida in assoluto,
in ogni punto dell’universo e lungo tutto il suo divenire: basta
provare a uscire da quest’ambito, conservando del tempo l’idea
che continua a funzionare alla perfezione quando vi si è dentro, per
constatare quanto sia inappropriato ritenere, ad esempio, che la sua
continuità sia omogenea: il tempo smette di essere un’entità
autonoma, si dilata o si contrae in relazione agli stati della
materia, per la quale, fuori dall’ambito relativamente ristretto
dal quale tuttavia non ci è indispensabile esorbitare, vale quanto
abbiamo detto per il tempo: la materia non è quello che ci appare:
come provano a spiegarci i divulgatori scientifici nel loro eroico
tentativo di aprirci al contro-intuitivo, «è fatta di onde».
Perché
possiamo permetterci di non aggiornare i concetti di tempo e di
materia? Perché la nostra vita può tranquillamente eludere la
realtà sub-atomica e quella extra-galattica, restando nell’ambito
relativamente ristretto in cui le leggi della fisica classica
continuano a funzionare come sempre. In generale: per evitare la
fatica di aggiornare un concetto, dobbiamo accontentarci di limitarne
l’uso ad un ambito che però la
conoscenza tende a restringere sempre di più. Volendo, potremmo
tranquillamente riadottare il sistema tolemaico, ma a patto di non
tentare viaggi interplanetari, necessariamente destinati al
fallimento rinunciando a programmarne le rotte sulla base di quanto è
implicito nel sistema copernicano. In definitiva, possiamo concludere
in questo modo: solo l’ignoranza
può rendere inscalfibile un concetto.
venerdì 4 marzo 2016
1989
«...
ci sono topi tutti intorno,
topi in Via Frattina,
traversavano la strada tranquillamente
alle undici di mattina...»
topi in Via Frattina,
traversavano la strada tranquillamente
alle undici di mattina...»
Francesco De Gregori, 300 milioni di topi (1989)
La natura non esiste
«All’inizio
di ogni discussione –
ho scritto qualche settimana fa – andrebbe
preliminarmente trovato, fra quanti vi partecipano, un solido accordo
sul significato dei termini cui prevedibilmente si ricorrerà più di
frequente, cominciando dal trovare una definizione pienamente
condivisa dell’oggetto sul quale ci si appresta a discutere».
È per questo che, nel rispondere alle obiezioni che mi sono state
rivolte per l’essermi
dichiarato favorevole alla gravidanza
surrogata, ritengo indispensabile chiarire il
significato che annetto a termini come «natura»
e «diritto»,
rammentando che il «surrogare»
implica fin dall’etimo
la possibilità di un’opzione
alternativa a quella considerata «naturale».
Due,
infatti, sono i capi d’imputazione
che pendono su quanto ho scritto: non avrei preso in adeguata
considerazione il fatto che la pratica è contro «natura»,
né che
vi si ricorra per dare ristoro alla rivendicazione di un falso
«diritto».
In tal senso, non mi aspetto di poter trovare alcun accordo con
quanti siano affezionati alla vetusta
idea
della natura come realtà autonoma dalla visione che su di essa è
costruita da un’autorità
culturalmente egemone. Chi ha qualche consuetudine con queste pagine
saprà che spesso ho stretto questo assunto nell’affermazione
che «nulla
è più culturale del concetto di natura»,
denunciando il vizio che le assegna dimensione creaturale. Qui, col
preciso scopo di dichiarare impossibile ogni discussione con chi
intenda mantenere il punto sulla natura come ipostasi di un assoluto,
sarei tentato di tagliar corto dicendo che «la
natura non esiste».
Mi limiterò a dire, invece, che la natura intesa come ratio che
informa la dimensione del reale, come codice di leggi anteriori e
superiori all’uomo,
oppure – e peggio ancora – come regno in cui l’uomo
è chiamato a farsi vicario di chi l’ha
fondato,
è invenzione assai simile a quella dell’etere
luminifero, che tornò utile anche a sommi intelletti per dare
spiegazione della propagazione delle onde elettromagnetiche prima che
la teoria della relatività ristretta venisse a sovvertire la visione
che si era sempre avuta del tempo e dello spazio.
Se «la
natura non esiste»,
dunque, non esistono neppure «diritti
naturali»?
Non esistono, infatti. Non esistono, per lo meno, prima che siano
dichiarati tali da un’autorità
culturalmente egemone. Ogni epoca costruisce una
sua idea
di natura e un suo diritto naturale, ogni epoca si illude di aver
trovato la formula in cui si possa ragionevolmente racchiudere quanto
sarebbe eternamente «naturale»,
tenendo fuori quanto non lo è e non potrà mai esserlo. E questo è
possibile solo grazie all’ignoranza
e alla superstizione che ogni autorità culturalmente egemone può
consentirsi di elevare a sistema di valori. Nessuna discussione è
possibile sulla gravidanza surrogata assumendo a legge eterna il
sistema di valori attualmente vigente. Quindi mi scuso se lascio
cadere le obiezioni che mi sono state rivolte senza affrontarle nel
merito: le considero viziate in radice, cioè nella presunzione di
farsi interpreti di una liceità morale che troverebbe fondamento in
una «natura»
immobile,
dispensatrice di «diritti»
preesistenti
all’uomo
come prodotto della sua storia, e che la storia dovrebbe limitarsi a scoprire piuttosto che a creare.
giovedì 3 marzo 2016
martedì 1 marzo 2016
Riguardo alla gravidanza surrogata
Uno
dei post più letti su queste pagine è Nichi
Vendola non mi piace (Malvino,
25.10.2010), che ad oggi registra 67.721 accessi e ben 61 commenti
(moltissimi tenuto conto che di solito cestino quelli impertinenti e
offensivi). In quel post non ero affatto tenero con l’allora
governatore della Regione Puglia, né lo fui in Nichi
Vendola non mi piace e non mi convince
(Malvino,
21.12.2010), che seguì di lì a qualche mese. Per il primo dei
due post lo spunto mi era dato da una sua frase riportata dal
Corriere
della Sera
del 24.10.2010: «Io
voglio parlare delle questioni eticamente sensibili, ne voglio
parlare anche con la Chiesa»;
per il secondo, invece, da un’altra frase che era riportata da il
manifesto
del 16.7.2010, ripresa, seppur non testualmente, da un editoriale
di Ernesto Galli della Loggia (L’orecchino
populista – Corriere della Sera,
21.10.2010): «Il
capitalismo ormai non è solo incompatibile con la democrazia: è
incompatibile con la vita».
Oggi,
nel trattare della sua vicenda personale, mi sarebbe gioco facile
tagliar corto con due grammi di sarcasmo. La vita del figlio che ha
tanto desiderato non è stata resa possibile proprio grazie a quegli
strumenti tecnici di cui il capitalismo si è appropriato per
produrre plusvalore? In quanto al dialogo sulle questioni eticamente
sensibili, provi adesso a discutere di gravidanza surrogata con la
Chiesa: vediamo cosa ne ricava di costruttivo.
Com’è
evidente si tratterebbe di argumenta
ad hominem tu quoque,
dunque del tutto inservibili a qualificare un’opinione
sulla questione della gravidanza surrogata, che è quanto cui sono
sollecitato da alcuni lettori, e che sarebbero tutt’al
più spendibili in chiave polemica, ancorché fallaci, contro il
ricorso alla pratica. Io invece – e qui mi dichiaro – sono a
favore, e credo che, tolto quanto strumentalmente le si oppone, le
ragioni che portano a respingerla come pratica moralmente
inaccettabile siano segnate esclusivamente dal pregiudizio, figlio dell’ignoranza.
Si
è soliti dire, ad esempio, che il bambino sarebbe strappato alla
madre. Falso: la madre biologica del bambino è la donatrice
dell’ovulo,
di regola diversa da quella che consente all’impiego
del suo utero per la gestazione. L’utero,
in questo caso, assume lo stesso ruolo che fino a qualche decennio fa
hanno avuto le mammelle messe a disposizione dalla balia, figura che
non era affatto concepita come quella di un soggetto sfruttato. Era
pagata per il servizio che offriva, spesso indispensabile alla sopravvivenza di un neonato, ma nessuno si sarebbe mai sognato
di considerarla una schiava. Il bambino che per mesi accoglieva in
seno per dargli nutrimento non era suo e doversene separare quando
iniziava lo svezzamento non era concepito come distacco tra madre e
figlio. In più, nessuno si sarebbe mai sognato di parlare di
«mammelle in affitto»: offriva un servizio sociale in cambio di una ricompensa, niente di più,
niente di meno.
In
quanto alla donazione dell’ovulo,
non si capisce perché debba sollevare questioni eticamente più
sensibili di quelle sollevate dalla donazione di uno spermatozoo,
dunque davvero è incomprensibile com’è
che fra quanti si dichiarano contrari alla gravidanza surrogata –
anche drasticamente contrari ad essa – vi sia chi non solleva alcuna
obiezione avverso alla fecondazione eterologa.
Risibile,
per finire, la questione relativa alla mercificazione del corpo
femminile che sarebbe indotta dalla pratica della gravidanza
surrogata, tanto più perché solitamente sollevata da chi non ha
alcuna difficoltà a considerare legittimo disporre del proprio corpo
al fine di procurarsi un utile, in tutto l’ampio
spettro dell’offerta
delle sue parti e delle rispettive funzioni.
La mia impressione è che il giudizio negativo ampiamente riscosso dalla gravidanza surrogata dipenda per lo più dalla novità che introduce in una condizione – quella gravidica – che per sua natura è inscritta in una sfera simbolica nel quale il peso della retorica svolge ancora un ruolo preponderante. Probabilmente ci vorrà ancora molto tempo perché sia accettata come pratica legittima sul piano morale, la sua sorte seguirà di pari passo la rimozione dei pregiudizi che ancora avvolgono il momento del concepimento e della riproduzione. Intanto, auguri a Nichi Vendola e a Eddy Testa. Ne hanno bisogno perché una cosa è desiderare un figlio e un’altra è saperlo allevare: compito che esige forze sovrumane, non importa se la coppia sia omo- o eterogenitoriale.
La mia impressione è che il giudizio negativo ampiamente riscosso dalla gravidanza surrogata dipenda per lo più dalla novità che introduce in una condizione – quella gravidica – che per sua natura è inscritta in una sfera simbolica nel quale il peso della retorica svolge ancora un ruolo preponderante. Probabilmente ci vorrà ancora molto tempo perché sia accettata come pratica legittima sul piano morale, la sua sorte seguirà di pari passo la rimozione dei pregiudizi che ancora avvolgono il momento del concepimento e della riproduzione. Intanto, auguri a Nichi Vendola e a Eddy Testa. Ne hanno bisogno perché una cosa è desiderare un figlio e un’altra è saperlo allevare: compito che esige forze sovrumane, non importa se la coppia sia omo- o eterogenitoriale.
«Un patto tra scienza e fede»
L’articolo
a firma di Giuseppe Remuzzi col
quale s’apre
l’ultimo
numero de la Lettura
ci offre un elenco delle più comuni balordaggini in favore di Un
patto tra scienza e fede,
dandoci modo di passarle in rassegna, a patto di non irritarci troppo
per il fatto che anche in tale occasione avanzino pretesa di
argomento.
«Fede
e libertà a rigor di logica dovrebbero andare insieme».
Scempiaggine che solo sull’ambiguità di un termine come «libertà»
può azzardarsi a invocare il «rigor di logica» per
millantare buonsenso. Si è liberi di aver fede, questo sì. Una
volta avuta questa libertà, tuttavia, è nella natura di ogni fede
l’insopprimibile esigenza di comprimere, in nome della propria,
l’altrui libertà. Abbiamo frainteso cosa intendeva dire Remuzzi?
Vediamo se dal modo in cui prosegue possiamo ricrederci. Scrive:
«Oggi, come per molti versi in passato, il rapporto tra fede e
libertà sembra venir meno. C’è chi viene ucciso a causa della sua
fede e tanti che in nome di Dio giustificano barbarie e atti
terroristici; come se dopo millenni di civilizzazione fossero ancora
gli istinti più primordiali a prevalere sulla ragione». Non è
sempre stato così? Quando la fede si è presa tutta la libertà che
voleva, non ha regolarmente cercato di imporre quanto più poteva
l’obbedienza ai suoi dettami? Quando trovava resistenza in un’altra
fede, la regola non è stata quella di combatterla, quasi sempre
senza disdegnare l’uso della violenza? La civilizzazione che ha
messo un freno a questo andazzo non è riuscita a farlo solo
fiaccando le pretese della fede fino a ridurne la rilevanza in ambito
sociale con la secolarizzazione? E la violenza della fede non è
tornata regolarmente a farsi viva proprio quando questo processo
subiva una battuta d’arresto?
«Come
uscirne?», chiede Remuzzi. Probabilmente sottraendo rilevanza
sociale alla fede, consentendole di aver spazio solo nella vita
privata degli individui. Per far questo, ovviamente, occorre che ogni
tentativo di dare alla fede una dimensione comunitaria sia
opportunamente sterilizzato con un progressivo indebolimento delle
prerogative tradizionalmente concesse alle organizzazioni
confessionali come soggetti di intermediazione tra fedeli e società.
Né semplice da farsi, né consigliabile che lo si faccia in modo
troppo rapido. L’occidente ha imboccato la via giusta con la
rinuncia al «cuius regio eius religio» e il ripudio
dell’istituto della «religione di Stato»,
che hanno accelerato il processo che ha condotto, almeno sul piano
dei principi, all’equivalenza
di ogni credo dinanzi alla legge. Negando alla fede il diritto di
interpretare il vero come promanazione di una rivelazione non
soggetta all’onere
della dimostrazione, si è inceppato il meccanismo che produceva
giurisprudenza in ossequio alla visione creaturale che la fede
assegnava all’uomo,
e questo era inevitabile accadesse con quanto la filosofia del
diritto andava necessariamente recependo dal progredire della ricerca
scientifica. In altri termini, è accaduto che la scienza ha
fatto implodere la costruzione dell’umano da sempre funzionale alla
riaffermazione della fede come irrinunciabile sostegno alla
conoscenza e all’azione.
Per
Remuzzi, invece? Cosa può assicurare all’umanità quel futuro che,
a suo dire, sarebbe degno di essere vissuto solo conciliando fede e
libertà? Con cosa si può salvare il cavolo di cui la capra ha
sempre dimostrato di essere particolarmente vorace? «Con la
scienza forse». Con la scienza? Sì – concede Remuzzi – «i
rapporti fra scienza e fede sono stati sempre difficili e oggi per
certi versi lo sono anche di più», ma perché disperare che la
scienza non possa andare a braccetto coi dogmi di cui ogni fede non
può fare a meno? Si potrebbe riprendere il tentativo di «conciliare
scienza e fede» portato avanti dall’Aquinate: «Se
filosofia naturale, che è poi scienza, e teologia sono in
disaccordo, scriveva, ci sono tre spiegazioni possibili: forse la
scienza non ha ancora tutte le evidenze che si potrebbero avere,
oppure la religione non ha saputo interpretare in modo abbastanza
accurato i testi sacri, ma potrebbe essere che né scienza né
religione abbiano saputo arrivare abbastanza vicino alla verità. Non
fa una piega e a pensarci bene è strano che partendo da presupposti
così solidi (che venivano poi dalla filosofia greca, quella di
Aristotele soprattutto, fatta di logica, matematica e fisica) scienza
e fede non abbiano trovato il modo di superare la “doppia verità”
e arrivare a una visione comune del mondo e del destino dell’uomo».
Chissà, può darsi che tutto si sia arenato dinanzi allo scoglio di
dimostrare scientificamente la resurrezione di Cristo, il suo essere
presente in carne e sangue in una cialda di frumento e, prim’ancora,
nella possibilità che fosse concepito senza che la madre avesse un
rapporto sessuale. Sarà che «forse la scienza non ha ancora
tutte le evidenze che si potrebbero avere» al
riguardo, certo. Probabilmente sarebbe opportuno che la scienza
sospendesse il giudizio, tanto più perché sarebbe scostumato
pretendere dalla fede di non aver «saputo interpretare in
modo abbastanza accurato i testi sacri».
«Potrebbe essere che né scienza né religione abbiano
saputo arrivare abbastanza vicino alla verità»?
Chissà, può darsi che un domani si scopra che per partenogenesi una
donna possa mettere alla luce anche un maschio o che la resurrezione
della carne sia di fatto possibile grazie a qualche magica polverina.
A una scienza ancella della fede non dovrebbe costare troppa fatica,
via.
Tutto
qui? Magari, d’altronde abbiamo detto che in questo articolo
Remuzzi è particolarmente prodigo di corbellerie. E allora
proseguiamo, perché, se fin qui ha bacchettato la scienza, ora viene
la tiratina d’orecchio alla fede. Tutto poteva filar liscio con la
scienza ancella della fede, poi la fede ha commesso uno sgarbo
imperdonabile «con la condanna di Galileo».
(Anche Remuzzi preferisce citarlo col nome di battesimo invece che
col cognome, che è Galilei. Chissà perché, poi, scrive della
condanna che la Chiesa comminò alle opere di Darwin rinunciando a
citarlo semplicemente come Charles. Minuzie, passiamo al sodo.) «Le
teorie e gli scritti di Galileo – scrive Remuzzi – non
contraddicono del tutto l’idea di una teologia naturale (e non era
nemmeno nelle sue intenzioni farlo), i fenomeni fisici si sarebbero
comunque potuti spiegare come “cammino della creazione, secondo il
disegno della infinita bontà, sapienza e potenza di Dio”. Insomma,
si apriva un nuovo spiraglio, scienza e fede avrebbero potuto trovare
un punto d’incontro più challenging come dicono gli
anglosassoni, ma non meno stimolante». Di fatto la Chiesa non
gradì lo stimolo. Possiamo rimproverarglielo? Sì, ma solo fino a un
certo punto, perché la scienza, si sa, è serva che non sa essere
arrendevole come sembra che auspichi Remuzzi, e cosa mi combina? Mi
scodella un Darwin che «con la sua teoria dell’evoluzione
rovina tutto». Un guaio, e sì che s’era detto che la Chiesa
avrebbe potuto ammettere di non aver «saputo interpretare in modo
abbastanza accurato i testi sacri».
Niente, tutto va a puttane: «Un creatore adesso non serve
più, da Darwin in poi si dovrà riconoscere che siamo frutto di un
processo evolutivo governato sostanzialmente dal caso» e, quel
che è peggio, «le evidenze a favore dell’evoluzione con il
passare del tempo diventarono schiaccianti, specie da quando siamo
stati capaci di decifrare il codice della vita». Un vero
peccato, via, anche perché «in fondo basterebbe trovare
un’interpretazione teologica della teoria dell’evoluzione; se
fosse convincente e si basasse su argomenti logici e inoppugnabili
potrebbe mettere d’accordo tutti». Già, chissà perché non
la si trova.
Un
guaio, un vero guaio: «Sarebbe un peccato se le discussioni mai
sopite attorno a Galileo e a Darwin facessero perdere di vista tutto
quello che in tutti questi anni la scienza ha avuto dalla Chiesa».
E qui, prima di proseguire, occorre stropicciarci gli occhi per
verificare se abbiamo letto bene. Sì, abbiamo letto bene, la scienza
deve molto alla Chiesa: «Il supporto economico tanto per
cominciare, che è servito alla scienza per crescere e affermarsi.
Chi pagava nel Medioevo, un periodo fertile di scoperte scientifiche,
perché preti e monaci potessero accedere a una formazione
universitaria?». C’è da ritenere che qui Remuzzi, per
alleggerire il pezzo, abbia voluto inserire una spiritosaggine.
Onestamente, tuttavia, si tratta di roba che non fa ridere affatto.
La Chiesa ha detenuto strettamente il monopolio dello studio e
dell’educazione come strumento di egemonia culturale per secoli e
secoli, al punto che chiunque volesse accostarsi al sapere era
obbligato a incardinarsi nel corpo clericale: davvero vogliamo
infinocchiare i gonzi spacciando loro l’immagine di una Chiesa che
favorisce gli studi scientifici da un lato, come le arti dall’altro,
per mero spirito liberale? Remuzzi sa che meno di un secolo e mezzo
fa un papa scriveva a un re implorandolo di non favorire l’istruzione
di massa, avvertita come una grave minaccia alla fede? No, c’è da
supporre non lo sappia. «La genetica moderna, guarda caso,
nasce nel giardino di un convento», scrive. E dove poteva
nascere, visto che a consentire al clero di essere sollevato dalle
incombenze del restante genere umano erano i poveracci costretti a
sudare notte e giorno per poter pagare la decima? «Chi se non i
gesuiti diffuse la scienza in tutta Europa?». Certo, furono
loro: giacché «todo modo es bueno para hallar y buscar la
voluntad divina», c’era chi doveva presidiare un campo nel
quale cominciavano a metter mano pure i laici.
La
tentazione di abbandonare la Lettura diventa a questo punto
irresistibile, ma un poco di curiosità ancora ci trattiene. Di
cos’altro potrà essere capace ancora, Remuzzi? Qui occorre aver
pazienza e lasciargli scorrere di molto la penna: «Gli scienziati
sono convinti che gli embrioni, quelli che se no si butterebbero via,
possano, anzi debbano essere utilizzati per la ricerca con
l’obiettivo che questo un giorno possa servire a curare tante
malattie dell’uomo. Gli uomini di Chiesa sono decisamente contro;
il loro argomento e che un embrione, per quanto fatto di poche
cellule, sia già una creatura di Dio e l’uomo non ha nessun
diritto di sopprimere una vita. Ma quando comincia davvero la vita?
Su questo non c’è accordo nemmeno fra chi crede. Buddhisti,
induisti e cattolici ritengono che la vita abbia inizio al momento
del concepimento. Per i protestanti la questione è piu complessa e
non c’è un’interpretazione univoca (forse al momento del
concepimento o dell’impianto del prodotto del concepimento
nell’utero e anche dopo). Per gli ebrei l’inizio della vita e un
processo continuo, inizia 40 giorni dopo il concepimento e si
completa nelle settimane successive. Per l’islam lo spirito entra
nel feto dal quarto mese di gravidanza: e in quel momento che
comincia la vita. “Dispute teologiche”? Mica tanto, queste teorie
hanno una ricaduta sulla pianificazione delle nascite, un tema
cruciale per il futuro del nostro pianeta, e sulla pratica della
medicina. Al di la di utilizzare o meno le cellule embrionali c’è
la questione della contraccezione. I buddhisti si oppongono a metodi
contraccettivi che ostacolino l’impianto del prodotto del
concepimento. I cattolici sono per i metodi naturali che prevedono
l’astensione dai rapporti nei periodi fertili. I protestanti
accettano farmaci contraccettivi e preservativi ma non la spirale e
la contraccezione d’emergenza. La religione ebraica accetta sia
contraccettivi orali che spirale ma proibisce il preservativo. I
musulmani sono divisi su questo come su molti altri punti. Come si
vede e tutto relativo e questi sono solo due esempi». Appunto,
ma questo non lascia intuire che l’invocato patto tra scienza e fede
sia destinato ad essere impossibile?
Macché,
a fronte di ogni evidenza, che peraltro non fa fatica ad ammettere,
Remuzzi non demorde: «L’intervento medico che ha contribuito
più di ogni altro a proteggere la vita dell’uomo sono i vaccini.
Ma cristiani ed ebrei hanno eretto barriere contro le vaccinazioni:
“Chiunque procede alla vaccinazione cessa di essere figlio di Dio:
il vaiolo e un castigo voluto da Dio, la vaccinazione e una sfida
contro il Cielo”, diceva papa Leone XII alla fine del Settecento.
La forza dell’evidenza scientifica poi ha prevalso e oggi non c’è
più nessuno che metta in dubbio il valore delle vaccinazioni,
nemmeno tra gli uomini di fede». Bene, ma è evidente, allora,
che la questione si è appianata non in virtù di un patto, ma di uno
scontro, e di uno scontro dal quale la Chiesa è uscita sconfitta. Su
quali basi si sarebbe potuto stringere un patto tra chi era a favore
dei vaccini e chi era contro? Così col trapianto e la donazione
d’organi. Remuzzi riconosce che «sul trapianto, un altro dei
miracoli della medicina, c’erano grandi perplessità all’inizio
fra gli uomini di Chiesa e quello che ha suscitato maggiore emotività
è stato il trapianto di cuore. “Noi riteniamo opportuno richiamare
l’attenzione dei cattolici più riflessivi di non applaudire
all’esperimento del chirurgo sudafricano perché ardito e nuovo,
prima di aver valutato anche i fondamentali problemi umani e morali
che esso implica”, scriveva Vittorio Marcozzi su Civilta Cattolica
qualche settimana dopo il primo trapianto di cuore. E la Chiesa
rimane fortemente critica nei confronti della donazione degli organi
anche molto recentemente. “Quelli che la malattia o un incidente
faranno cadere in coma ‘irreversibile’,
saranno spesso messi a morte per rispondere alle domande di trapianto
d’organo”. Sono parole del cardinale Joseph Ratzinger del 1991
riprese da L’Osservatore Romano. Poi le cose cambiano. Giovanni
Paolo II definisce la donazione degli organi per il trapianto come
“un autentico atto d’amore”; intanto però di trapianti ne
erano già stati fatti più di un milione». Appunto, era
impossibile continuare a osteggiarli, dunque era indispensabile
cedere sul punto. Non si fosse proseguito nella pratica dei
trapianti, il che di fatto escludeva ogni patto tra scienza e fede,
quale risultato si sarebbe ottenuto? Ma come tira le somme, Remuzzi?
Scrivendo che, «per questo e per tanto d’altro, noi medici non
possiamo disinteressarci della fede». E certo che non possono
disinteressarsene, ma per combatterne l’azione che immancabilmente
si traduce in un freno ad ogni innovazione. Freno che quasi sempre è
posto dall’osservanza a principi che hanno come fine primario
quello di trattenere l’uomo in quella dimensione creaturale nella
quale gli indispensabile la guida di un’autorità religiosa che di
quella dimensione si dichiara interprete e custode, a fronte delle
minacce che osano metterla in discussione. Prima fra tutte? La
scienza, appunto.
Niente,
Remuzzi si dice convinto sia «venuto il momento che scienziati,
leader delle organizzazioni religiose e chi governa la sanità escano
dai rispettivi ambiti e lavorino insieme per migliorare l’accesso
alle cure di milioni di persone e poi per ridurre la povertà, che
porta a malattie e morte». Al «rigor di logica»
invocato nell’incipit, questo potrebbe aver luogo solo se scienza e
politica accettassero i veti posti dalla fede alle pratiche che essa
dichiara moralmente inammissibili. Su quali basi è possibile,
allora, un patto che inevitabilmente impone limiti a ricerche e
interventi che, solo dopo essere stati condotti contro la volontà
degli uomini di fede, riescono a strappare il loro consenso, non di
rado a fatica e con perduranti resistenze e riserve? Remuzzi non lo
dice, ma insiste nel tentativo di far quadrare il cerchio: «Al di
la delle discussioni di fine vita, sulle quali possiamo anche non
essere d’accordo, sono ancora oggi donne e uomini di Chiesa che
forniscono cure intensive e assistenza spirituale a chi sta per
morire». Certo, ma proprio nel tentativo di continuare a
negargli il diritto di autodeterminazione che dovrebbe legittimamente
potersi sostanziare nella scelta eutanasica. Come per il resto, il
soccorso portato all’uomo sofferente soddisfa i suoi bisogni solo
se riconosciuti tali alla luce di ciò che detta la fede, e questo a
voler trascurare quanto frutta il no-profit in termini di sovvenzioni
pubbliche e di rientro sul piano proselitario. E allora da dove trae
le sue speranze, Remuzzi? «Con l’Enciclica Laudato si’
pubblicata da papa Francesco l’anno scorso – scrive – il
clima è cambiato e molti cominciano a pensare che ci siano le
condizioni per un dialogo più favorevole fra scienza (medicina
specialmente) e fede. Papa Francesco scrive: “La Chiesa non
pretende di definire le questioni scientifiche, né di sostituirsi
alla politica, ma invita a un dibattito onesto e trasparente, perché
le necessità particolari o le ideologie non ledano il bene comune”,
indicando che una discussione aperta su questioni scientifiche è ora
possibile». Certo, ma ancora una volta si cerca di insinuare che
il «bene comune» non sia il bene di ciascuno, così come
liberamente e responsabilmente affermabile da ciascuno, ma il bene
unico, quello valido per tutti, contro il quale il bene di ciascuno
può costituire offesa.
Cerchi il dialogo, se vuole, il buon Remuzzi,
può darsi gliene venga pure qualche utile – la Chiesa sa essere
generosa con chi si presta ai suoi giochi – ma, col pretendere con
ciò di aver sottoscritto a nome della scienza (tutta intera?) una
tregua con la Chiesa, ci consenta una grassa risata. Sarà pure un buon nefrologo, come si dice, ma della Chiesa non ha capito un cazzo.
lunedì 29 febbraio 2016
Conformismi
Quando
si riesce a mettere al sicuro le fortune accumulate sgozzando e
depredando, viene il momento di far dimenticare come si è riusciti
ad accumularle, nel tentativo di lasciar credere che siano cadute dal
cielo a premiare un eccezionale incrocio
di virtù. È il momento in cui il nomignolo del delinquente
diventa nome del casato, mentre i suoi misfatti vengono trasfigurati
nei simboli del blasone, dove ben presto diventeranno leggenda di
imprese eroiche. I modi diventano sempre più fini, il sangue diventa
blu, il bottino dei saccheggi diventa possedimento, e dove prima i
nemici pendevano ai ganci di macelleria si fa spazio alla pinacoteca,
ben presto ricca di dipinti di rara bellezza, immancabili le ninfe al
bagno, le scene tratte dalle sacre scritture, i ritratti del padrone
di casa cui il pennello abbia saputo dare la patina d’uomo
giusto, perfino pio. Guai al ladruncolo che allora penetri a palazzo
per rubare un candelabro: ha sovvertito l’ordine
del creato, ha violato la proprietà privata...
Ernesto
Galli della Loggia lamenta l’arcigna arroganza di un certo
conformismo «per il quale il passato è sempre sinonimo di
sorpassato» e che «predica sempre un vibrante rifiuto morale
per tutto quanto sappia di disciplina e di autorità, mentre è
pronto all’approvazione incondizionata per ciò che appare
“autentico” e soprattutto “libero”: meglio se all’insegna
dell’“amore”» (Corriere della Sera, 29.2.2016).
S’avvede che sta lamentando il
furto di un candelabro in casa di un malfattore di antica schiatta?
Un conformismo lascia spazio a un altro, è così da sempre, ma siamo
certi che quello vecchio, messo in discussione da quello nuovo, abbia
le carte in regola per lamentare il modo in cui gli è fatta violenza
e, prim’ancora, il fatto stesso
che gliene venga fatta?
Varrebbe
la pena di affrontare una volta per tutte questa faccenda del nuovo
conformismo lamentato dai difensori del vecchio conformismo, ma oggi
mi sento fiacco. Se ne riparla.
domenica 28 febbraio 2016
Schadenfreude per tutti, e non se ne parli più
Chi
voleva la stepchild adoption, e non l’ha avuta, si consoli buttando
un occhio in campo avverso: quelli del Family Day sono incazzati
neri, soffrono come bestie ferite a morte. Certo, il diritto di piena
genitorialità concesso a entrambi i partner di una coppia omosessuale avrebbe dato
dignità di vero e proprio matrimonio all’istituto
dell’unione
civile, ma di fatto adesso due lesbiche e due gay sono famiglie, poi
al resto penserà la giurisprudenza, sentenza dopo sentenza. E certo, potrà
irritare che in Italia l’adeguamento
delle leggi ai mutamenti della società proceda con ritardi che
favoriscono la persistenza di grosse sacche di dissenso ad ogni
mutamento, sarà frustrante, senza dubbio, ma la pazienza è la virtù
dei forti, può darsi sia addirittura meglio che le cose si prendano il tempo necessario per farle digerire piano piano a chi ha stomaco delicatuccio. Chi
voleva la stepchild adoption, e non l’ha avuta, rifletta a quanto è
accaduto per la fecondazione assistita. Anche chi volentieri
l’avrebbe
dichiarata fuorilegge, perché il Catechismo la vieta, dapprima è stato costretto a concederla, accontentandosi di renderla un faticosissimo
percorso a ostacoli. Poi, uno dopo l’altro,
gli ostacoli sono venuti a cadere, e il cardinal Ruini è rimasto con
un pugno di mosche in mano. L’esperienza insegna: non farsi trascinare nella chiacchiera sui Grandi Sistemi, strappare pezzo a pezzo quello che si può strappare e poi produrre casi emblematici da portare in Cassazione, alla Consulta, a Strasburgo.
Ma
si consoli pure chi voleva che tutto rimanesse com’era,
che il ddl Cirinnà fosse ritirato in blocco, che fosse in questo modo
proclamato l’insuperabile
primato della famiglia tradizionale: l’Italia è omofoba da sempre, e per molto tempo ancora un ricchione resterà un ricchione, per molto
tempo ancora qualche dispettuccio glielo si potrà infliggere per
fargli capire che quel boa di struzzo fucsia è contronatura. Lo
stralcio della stepchild adoption è un bel premio di consolazione,
via, e poi non è stata una bella soddisfazione poter ripetere per
settimane, col sorrisetto obliquo sulle labbra, cui in sincrono il
sopracciglio andava perfettamente parallelo, che al gay l’utero manca? Certo, sarà uno schifo vedere due maschi tenersi per mano, sentirli dire che sono famiglia in forza di una legge che sovverte
la Legge, ma in fondo sarà un’occasione
per soffrire, e questo al cattolico-come-si-deve piace da morire.
Massima goduria, poi, soffrire in compagnia di chi ti fa soffrire,
perché non deve essere carino vederti scippata la stepchild adoption
e trovare a consolarti lo stesso Scalfarotto che fino a
due minuti prima giurava che si sarebbe fatto spellare vivo piuttosto
che rinunciarci.
Insomma,
via, Schadenfreude per tutti, e non se ne parli più. Tanto più che
di quanto era in questione col ddl Cirinnà non s’è
parlato troppo neppure quando si è fatto finta di discuterne, anzi,
di tutto si è discusso per non parlar di quello. E d’altronde
sarebbe stato inopportuno perché le unioni civili erano solo
un’occasione
per vedere in campo l’alta
politica di cui noi italiani siamo maestri insuperabili. Via, è
stata una gran bella partita, ottime regie, splendide
triangolazioni, fallacci micidiali, ma arbitro e guardalinee, com’è
giusto, hanno lasciato correre per non mortificare il gioco. E dunque
finte e controfinte, dribbling e contropiedi, meline e deviazioni in
calcio d’angolo,
entrate a gamba tesa e simulazioni di fallo, goal di tacco e
traversoni a perdersi sul fondo, spogliatoi nervosissimi e autogoal in mezza rovesciata, perché sia chiaro che non è la politica italiana a
vivere di metafora calcistica, è il calcio che cerca di imitarla,
quasi sempre offrendo uno spettacolo assai più piatto.
venerdì 26 febbraio 2016
«Petaloso»
In
linea di principio può essere considerato «ben formato» ogni
aggettivo che intenda rappresentare un’abbondanza
di quantità o una pienezza di condizione di quanto è espresso dal
sostantivo da cui deriva e cui a tal fine sia stato apposto il
suffisso «-oso». Non è un caso, tuttavia, se la lingua italiana
non conti più di 750 aggettivi di questo tipo, a fronte di un numero
di sostantivi che è almeno sessanta volte maggiore (a voler considerare
solo quelli d’uso
più comune, che secondo i vari Autori sarebbero tra i 42.000 e i 47.000): a una parola non basta l’essere
«ben formata» per trovare ragione di quella
frequenza,
di quella estensione e di quella persistenza d’uso
che la portano ad essere inclusa in un dizionario. Perché «la usino
tante persone e tante persone la capiscano» occorre che la sua
struttura semantica risponda a ben precise esigenze, prima fra tutte
una solida relazione tra il significante e il significato.
Questo è
il motivo per cui in ogni dizionario della lingua italiana troviamo
«peloso» per indicare qualcuno o qualcosa «con tanti peli», ma in
nessuno troviamo – chiedo scusa per il solo porgerlo ad esempio –
«pianetoso» per dire di un sistema solare in cui orbitino molti
pianeti. In questo caso, che poi è sostanzialmente analogo a quello
di «petaloso», per dire di un fiore che abbia tanti petali, a
rendere estremamente debole la relazione tra significante e
significato è la neutralizzazione dell’effetto
che si ritiene attivo nel suffisso «-oso»: neutralizzazione che procede dalla
natura stessa dell’oggetto
al quale si intende attribuire l’aggettivo, perché dove, se non su un fiore, è lecito attendersi dei petali? Dove, se
non in un sistema solare, ci aspettiamo di trovare dei pianeti? Di
più: è proprio di un fiore avere dei petali, è proprio di un
sistema solare avere dei pianeti. Certo, su un fiore potremo avere
pochi o molti petali, in un sistema solare potremo trovare pochi o
molti pianeti, ma in entrambi i casi ci troviamo dinanzi ad aggettivi
che non sono spendibili fuori dal contesto nel quale hanno preteso di
aver ragione di nascere, e non è necessario un grande sforzo di
intelletto per capire che perfino l’uso
metaforico risulta fortemente inibito: è questo che li condanna irreparabilmente all’oblio o li confina nell’idioletto di natura specialistica dal quale non hanno mai avuto la pretesa di uscire.
Non così per tutti gli
aggettivi che sfruttano il suffisso «-oso» che fin qui hanno
trovato accoglienza nei vocabolari della lingua italiana: in chiunque
potremmo trovare la pienezza del «coraggio» che lo rende
«coraggioso», e «peloso» potrà essere un uomo, un animale, uno
stomaco, un tappeto, un frutto, perfino quel particolare genere di
carità che impedisce di dire a una maestrina quanto sia cretina, spiegandole che anche dietro l’apparente follia che porta certi neologismi sulle pagine del Treccani, del Devoto-Oli o dello Zingarelli c’è una ratio che ne spiega la fortuna nel nodo tra struttura e funzione. Nodo così stringente da consentire di trarne regola: più fortunato è un neologismo, meno si è in grado di risalire con certezza a chi l’abbia coniato.
Questo, sul cuore della questione. Su tutto quanto in questi giorni
ha fatto bozzolo attorno la vicenda che l’ha
sollevata, c’è
Parsifal che ha scritto un post nel quale leggo così nitidamente le
mie stesse impressioni che riportarne qui i passi salienti mi risparmia altra fatica: «Un bambino si inventa la parola “petaloso”, per
indicare un fiore che ha molti petali. È normale: i bambini, mentre
imparano l’italiano (ammesso che lo facciano ancora), si inventano
delle parole. La norma vorrebbe che gli insegnanti, con dolcezza,
correggano questa tendenza e insegnino a riconoscere le parole “vere”
da quelle inventate. La maestra del bimbo in questione, invece,
evidentemente mossa da smania per i venti minuti di fama,
nientepopodimeno scrive alla Crusca e sottopone la nuova parola alla
sua attenzione. Siccome anche alla Crusca non sono più quelli di una
volta, si prendono il tempo di rispondere. La parola è tecnicamente
ben formata, dicono, e per entrare nel vocabolario basta che la usino
in molti. A questo punto entra in gioco il terzo fesso, quello
collettivo: l’utente Twitter, e in “centinaia” (ma presto
saranno migliaia) stanno re-twittando “petaloso” per farlo
diventare popolare» (*).
mercoledì 24 febbraio 2016
[...]
Esposto
fuori dagli spazi adibiti all’affissione,
mancante del bollo attestante il pagamento dell’imposta
comunale sulla pubblicità, insomma, abusivo pure il manifesto. Fin
qui niente di strano, in fondo questo accade in una città di merda
dove l’abusivismo è ampiamente
tollerato. Da chi non si
accontenta che venga tollerato, ma chiede addirittura che venga
riconosciuto pienamente legittimo, per sanatoria generale, si può
pretendere che per l’affissione
di un manifesto che lo reclama come diritto passi prima per l’ufficio
tributi del comune e poi comunque non sia libero di appiccicarlo dove
gli pare? Sarebbe un controsenso, via.
Bando all’indignazione,
dunque, che d’altronde in una
città di merda ha sempre il molesto olezzo di giaggiolo e ciclamino,
e lasciamo che l’attenzione
perda tensione morale. Guardiamo come è semplice rivoltare un
termine irritante come «abusivi»
in uno grazioso come «ivisuba»:
cosa costerebbe all’ocadnis
– pardon, al sindaco – una delibera che operi allo stesso modo?
Vorrà mica costringerli all’esasperazione?
Ha visto quella freccia bella tosta opposta a quella tutta ammaccata
che le si contrappone?
martedì 23 febbraio 2016
Prosaici, ecco quello che siete!
Se
succede qualcosa a Teresa, a Letizia continuerà ad essere
impossibile farsi carico di Ernesto, ma in fondo chissà se poi
davvero esistono, non è da escludere che ficcare una famiglia
arcobaleno nel suo staff sia stata una trovata estemporanea, giusto
per non sfigurare nel confronto con Cuperlo e Civati, come a dire:
voi volete la stepchild adoption per motivi ideologici, io la voglio
perché ho presa diretta sui problemi della gente, e li sento, e li
faccio miei, il che, se permettete, segna una bella differenza tra le
vostre algide teorie sui nuovi diritti civili e il mio sano
pragmatismo che si nutre di empatia per le difficoltà che rendono
difficile la vita al cittadino... Poi, via, voi due avete una coppia
gay nei vostri staff? Ah, no? E come mai? Sarà mica che predicate
bene e razzolate male?
Prevedo
e anticipo l’obiezione: ok, può
darsi che Ernesto non esista, e non esistano nemmeno Letizia e
Teresa, ma coppie gay nella loro condizione esistono, e sicuramente
saranno deluse dallo stralcio della stepchild adoption dal ddl
Cirinnà, è molto probabile che ora saranno incazzate nere per la
promessa fatta da Renzi alle Primarie del 2013... Risposta: e sai
quanto gliene può fottere. Dirà che lo stralcio è colpa dei
grillini, che d’altronde gli
hanno offerto un assist eccezionale per trovare il modo di poter
placare le minacce che salivano dalla piazza del Family Day, dare
alla Cei quello che voleva, evitare una spaccatura in seno al
Governo, tenere buona per un po’
Strasburgo... Par già di sentirlo, a cose fatte: signori, avrei
tanto voluto far di più, ma non me l’hanno
lasciato fare, prendetevela con Grillo e Casaleggio. Però strizzando
un occhio a chi la stepchild adoption proprio non la voleva, come a
dire: ho manovrato da dio, via, non potete negarlo, e sappiate che
l’ho fatto per voi, perché è
solo insieme a voi che posso costruire il Grande Centro, il Partito
della Nazione, insomma, chiamatelo come cazzo vi pare, ci siamo
intesi.
L’opposizione
interna? Prima me ne libero e meglio è, volesse il cielo che lo
stralcio della stepchild adoption provocasse un altro strappo: mi
darebbe modo di bollarla come massimalista, rimproverandole di aver
puntato sui voti del M5S, e ora di voler sfogare su di me la
frustrazione per aver beccato un due di picche. Anzi, sai che faccio?
Sul ddl Cirinnà lavorato a misura di Alfano ci metto la pure la
fiducia, così mi diverto a veder sguazzare nella bile chi diceva che
senza l’adozione del figliastro
non l’avrebbe mai votato.
L’elettorato
del Pd? Non capisco quale sia il problema. In gran parte ci vota
perché è fidelizzato: voterebbe qualsiasi Pd, basta dargli un
programmino pieno di slogan, meglio se insieme roboanti e anodini,
ambigui il necessario da non fargli storcere troppo il muso quando
con le promesse mi ci pulirò il culo, se necessario. E poi c’è
tutto il corpaccione intermedio: quello continuerà a starmi dietro
finché son forte, anzi, si ingrosserà sempre di più di Verdini
grossi, medi e piccolini, dandomi modo di tessere una rete
clientelare tanto capillare da poter controllare in tempo reale
quanto mi renda ogni euro di spesa pubblica. No, l’elettorato
del Pd non è un problema: per dieci che non lo voteranno più, ne
arriveranno quindici o venti da Forza Italia, e poi, parliamoci
chiaro, perché Alfano annuncia che il Nuovo Centrodestra cambierà
nome?
Con
tutto quello che ho da fare perché questo possa realizzarsi, potevo
consentire che una Cirinnà mi buttasse sabbia negli ingranaggi?
Scalfarotto? Ma non diciamo cazzate: aprirà bocca solo per dire che
un passo avanti è stato fatto, peccato non sia stato lungo quanto si
volesse, e poi fare la foglia di fico gli piace da morire, figurarsi
se molla. La Serracchiani? La Serracchiani, chi?
Ed Ernesto? Se a Teresa succede qualcosa? Madonna, quanto siete bischeri! Non vi si può raccontare niente, credete a tutto, non riuscite a cogliere la bellezza del momento narrativo senza pretendere che... Prosaici, ecco quello che siete!
domenica 21 febbraio 2016
«Un applauso per lui!»
Nel
corso della conferenza stampa tenutasi durante il volo di ritorno dal
suo viaggio in Messico, Bergoglio si è intrattenuto pure sulla
questione relativa agli abusi sessuali a danno di minori che in
quest’ultimo
decennio sono stati una delle più pesanti accuse che l’opinione
pubblica di mezzo mondo ha mosso al clero cattolico, e l’occasione
è stata offerta dalla domanda rivoltagli da uno dei giornalisti al
seguito, prendendo spunto dalla vicenda di padre Marcial Maciel
Degollado, fondatore dei Legionari di Cristo, autore di una
innumerevole serie di schifezze, coperte per decenni dalla protezione
di Wojtyla, il santo.
Sul punto, la risposta di Bergoglio merita di
essere riportata testualmente: «Qui
mi permetto di rendere un omaggio all’uomo che ha lottato in un
momento in cui non aveva forza per imporsi, finché è riuscito ad
imporsi: Ratzinger. Il cardinale Ratzinger – un applauso per lui! –
è un uomo che ha avuto tutta la documentazione [sul
caso Maciel].
Quando era Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede ha
avuto tutto nelle sue mani, ha fatto le indagini e è andato avanti,
avanti, avanti… ma non è potuto andare più in là
nell’esecuzione. [...] Vale a dire che è stato l’uomo coraggioso
che ha aiutato tanti ad aprire questa porta. Così che voglio
ricordarvelo, perché a volte ci dimentichiamo di questi lavori
nascosti che sono stati quelli che hanno preparato le basi per
scoperchiare la pentola».
Onestamente c’è
da rimanere sbigottiti dinanzi a tanta faccia tosta. La pentola si è
scoperchiata per l’interessamento
di Ratzinger? Monsignor Carlos
Talavera Ramírez, vescovo di Coatzacoalcos, sollecitò più volte
l’allora
Prefetto
della Congregazione per la Dottrina della Fede a mettere un freno
agli abusi sessuali che padre Maciel andava consumando da decenni, ma
solo per sentirsi dire: «Si tratta di materia molto delicata, dato
che padre Maciel ha fatto molto per la Chiesa e in più è molto
amico del papa» (il vescovo messicano lo riferì in un’intervista, probabilmente per liberarsi da ogni responsabilità, subito severamente redarguito dalla Santa Sede, ma senza mai smentire il contenuto delle sue affermazioni).
E vogliamo dimenticare come per analogo
comportamento in relazione a un caso simile la Corte Distrettuale del
Texas diede avvio ad una procedura di incriminazione per «obstruction
of justice»
a suo carico, bloccata solo dall’elezione
al pontificato? I «lavori
nascosti»
di Ratzinger erano tesi – appunto – a nascondere. Punto.
venerdì 19 febbraio 2016
Problemini sui fondamentali
«La
Santa Sede non ha mai pubblicato testi che autorizzino le religiose a
prendere anticoncezionali, anche se corrono il rischio di essere
violentate»,
così monsignor Piero Pennacchini, vicedirettore della Sala Stampa
Vaticana, il 5 marzo 1993. Era accaduto che un pretonzolo del
Reggiano aveva accusato la Santa Sede di usare due pesi e due misure,
col no alla pillola per le bosniache che in quei mesi venivano
stuprate dai serbi, dopo aver consentito, anzi sollecitato, che ne
facessero uso le suore a rischio di stupro nelle loro missioni
dell’Africa
sub-sahariana.
Era voce, questa, che circolava già da tempo.
Impossibile dire se fosse voce attendibile, tanto meno se fosse vero,
come si andava mormorando già da tempo, che la deroga all’assoluto
divieto della contraccezione estroprogestinica imposto con la Humanae
vitae
fosse stata concessa da Paolo VI in persona. Di fatto non esisteva
alcun documento ufficiale che lo provasse. In quanto all’enciclica,
non dava adito ad alcun fraintendimento: «È
esclusa ogni azione che, o in previsione dell’atto coniugale, o nel
suo compimento, o nello sviluppo delle sue conseguenze naturali, si
proponga, come scopo o come mezzo, di impedire la procreazione. Né,
a giustificazione degli atti coniugali resi intenzionalmente
infecondi, si possono invocare, come valide ragioni: che bisogna
scegliere quel male che sembri meno grave o il fatto che tali atti
costituirebbero un tutto con gli atti fecondi che furono posti o poi
seguiranno, e quindi ne condividerebbero l’unica e identica bontà
morale. In verità, se è lecito, talvolta, tollerare un minor male
morale al fine di evitare un male maggiore o di promuovere un bene
più grande, non è lecito, neppure per ragioni gravissime, fare il
male, affinché ne venga il bene, cioè fare oggetto di un atto
positivo di volontà ciò che è intrinsecamente disordine e quindi
indegno della persona umana, anche se nell’intento di salvaguardare
o promuovere beni individuali, familiari o sociali»
(14).
E allora che cazzo dice Bergoglio? Gli chiedono se, per far
fronte al rischio posto in essere dal virus Zika, «la
Chiesa può prendere in considerazione il concetto di “male
minore”»
e autorizzare all’uso
della pillola per evitare il ricorso all’aborto. E cosa è capace di scacazzare? «L’aborto
non è un “male minore”, è un crimine»,
e vabbè, siamo nel solco. Ma poi?
«Riguardo
al “male minore”, evitare la gravidanza è un caso. Parliamo in
termini di conflitto tra il quinto e il sesto comandamento. Paolo VI,
il grande, in una situazione difficile, in Africa, ha permesso alle
suore di usare gli anticoncezionali per i casi di violenza. Non
bisogna confondere il male di evitare la gravidanza, da solo, con
l’aborto. L’aborto non è un problema teologico: è un problema
umano, è un problema medico. Si uccide una persona per salvarne
un’altra,
nel migliore dei casi, o per passarsela bene. È contro il Giuramento
di Ippocrate che i medici devono fare. È un male in se stesso, ma
non è un male religioso, è un male umano. Ed evidentemente, siccome
è un male umano, come ogni uccisione, è condannato. Invece, evitare
la gravidanza non è un male assoluto, e in certi casi, come in
quello che ho menzionato del Beato Paolo VI, era chiaro».
Chiaro, un cazzo. In un colpo solo si sputtanano Paolo VI e la
dottrina. E questo, come per il dirsi non legittimato a giudicare chi commetta «atti intrinsecamente disordinati [e] contrari alla legge naturale» (Catechismo, 2357), come per il cazzotto che riteneva «naturale» tirare in faccia a chi gli toccasse la mamma, accade ancora una volta nel corso di un incontro con i giornalisti al seguito in uno dei suoi viaggi all’estero, in volo. O quell’aereo ha problemini di pressurizzazione o li ha Bergoglio, e sui fondamentali.
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