Sette
italiani su dieci, ieri, hanno disertato le urne. Trattandosi di un
referendum, direi che le ragioni – valide o meno, a piacere –
possano ridursi alle seguenti, ma senza che ciascuna escluda
necessariamente le altre:
(1) rigetto di ogni forma di voto, come
espressione di sfiducia nel metodo democratico o addirittura di
ripudio del principio che lo informa;
(2) rigetto del voto
referendario, per generica contrarietà ad ogni forma di democrazia
diretta, per specifico dissenso al senso che questa assume nello
strumento del referendum, per sfiducia maturata dall’esperienza
delle numerose volte in cui l’esito
del voto è stato disatteso;
(3) rigetto del
quesito posto in questa occasione, perché non
adeguatamente compreso, perché ritenuto di peso irrilevante, perché
considerato strumentale, perché non proposto da 500.000 cittadini,
ma da 9 regioni;
(4) contrarietà all’evenienza
che dalle urne uscisse vincitore il sì e conseguente scelta di far
forte il no con l’astensione
motivata dalla somma delle suddette ragioni.
È ovviamente
impossibile discernere in quota percentuale quanto abbia pesato l’una
o l’altra ragione nel
mancato raggiungimento del quorum, ma un astensionismo ormai stabile
intorno al 30-40% per ogni genere di consultazione elettorale
tenutasi negli ultimi dieci anni, con un marcato incremento quando si
trattava di referendum, consente di ridimensionare il peso tutto
apparente che assume la pur incontestabile vittoria di chi voleva che
andasse come è andata.
Relativamente più semplice è l’elenco
delle ragioni che hanno portato alle urne i restanti tre italiani su
dieci:
(1) c’era chi non diserta mai il voto,
perché lo ritiene un dovere civico, non intende venirvi meno neppure
se ha coscienza che ormai conta sempre meno, e va a votare sempre,
anche se non ha le idee ben chiare, dove probabilmente lascia la
scheda in bianco;
(2) poi c’era chi, a torto o a ragione, pensava
di aver chiara la questione che era in gioco, e su quella intendeva
esprimere la propria idea, ritenendo indispensabile darle un peso col
voto, sia per votare sì, nel tentativo di abrogare una norma
ritenuta ingiusta, sia per votare no, perché indisposto a vederla
confermata dal mancato raggiunto del quorum o disposto a vederla
confermata anche in quel modo, ma personalmente indisposto a
servirsene;
(3) infine c’era chi al voto riconosceva la legittimità
del valore strumentale che era venuto assumendo come espressione di
sfiducia al governo, poco importa se per la natura stessa del quesito
o per la sfida lanciata da Matteo Renzi col suo invito
all’astensione.
Anche qui è difficile separare una ragione
dall’altra per assegnare a ciascuna il proprio peso percentuale,
sta di fatto che l’invito di Matteo Renzi all’astensione rende in
qualche modo omogeneo il 32,15% che si è recato alle urne,
conferendogli un profilo politico che il 67,85% che se n’è tenuto
lontano non ha. In buona sostanza, questo referendum ha creato un
collante tra chi è andato a votare perché l’indifferenza è un
peccato mortale, chi ci è andato pensando a cazzo di cane che il suo
voto servisse a salvare l’albatros dall’atroce agonia in una
pozza di catrame e chi invece l’ha fatto semplicemente perché
sperava di poter vedere Matteo Renzi schiattare di rabbia: un
collante che manca alle componenti dell’elettorato astensionista,
sul quale oggi il buffone ha buon gioco a puntare i piedi, ma che in
realtà è meno affidabile della superficie delle sabbie mobili. In più, non è da sottovalutare l’effetto
frustrante di un mancato quorum in chi è andato a votare, non
importa quale fosse il motivo che portasse alle urne.
In definitiva,
direi che il fine immediato posto dal referendum, come ampiamente
previsto, è senza dubbio fallito, ma quello che, scientemente o
meno, gli era insito alla media e lunga distanza ha trovato pieno
successo, come ne ha dato plastica dimostrazione la conferenza stampa
tenuta da Matteo Renzi, dove la voglia di incassare il risultato è
stata cautamente raffrenata da toni di ricomposizione: la vittoria
non era del governo, ma dei lavoratori addetti alle trivelle; la
sconfitta non era di chi era andato a votare, ma di chi ce l’aveva
portato. Può darsi che questo tentativo di blandire il risentimento
dei tanti che sono stati sbeffeggiati dai suoi sgherri possa avere
qualche effetto, ma l’impressione è che con la vittoria ottenuta
ieri, soprattutto col modo in cui se l’è procurata, Matteo Renzi
abbia dato un altro colpo di vanga allo scavarsi la fossa nella quale
sarà seppellito vivo. Non è dato sapere quando, e comunque non è
ragionevole pensare che accadrà presto, in fondo quella italiana è
plebe dai riflessi assai ottusi, quasi spenti.
«E
poi perdere ogni tanto ci ha il suo miele»,
come diceva il poeta. Che aggiungeva: «si
pianga solo un po’ perché è un peccato e si rida poi sul come
andrà a finire»;
«la
ragione diamo e il vincere ai coglioni, oppure ai bari»;
«ne
abbiam visti geni e maghi uscire a frotte per scomparire»;
«ghignando
ce ne andremo pian pianino per sederci lungo il fiume ad
aspettare»...
Conviene riascoltare tutta la sua poesia.
Per oggi abbandoniamoci al
lirismo, via, ché poi, quando verrà il momento di saldare i conti
non ce ne sarà tempo, né motivo.