sabato 7 maggio 2016
«Mi basta accavallare le gambe»
Ho
letto molti commenti all’intervista
che Piergiorgio Morosini ha concesso ad Annalisa Chirico (Il
Foglio, 5.5.2016), ma in nessuno mi è parso sia stato dato il
dovuto peso alla cornice. Ci si è soffermati a considerare se una
chiacchierata informale possa considerarsi intervista, se sia stato
corretto titolarla con un virgolettato non contenuto nel testo, se le
frasi attribuite al magistrato rispettino fedelmente quel che ha
veramente detto: questioni d’un
certo interesse, non voglio sottovalutarne il peso, ma del tutto
irrilevanti rispetto a quanto avrebbe dato occasione al colloquio.
Non smentita al riguardo nelle precisazioni che Morosini ha fatto
seguire al vespaio sollevato dall’articolo,
Chirico riferisce che si trovava a Palazzo dei Marescialli, sede del
Csm, per tutt’altra ragione che
un incontro col magistrato, e che da questi, per l’interposta
persona di un suo assistente, è stata invitata ad un colloquio nel
suo ufficio: «Dottoressa, mi scusi,
il dottor Morosini l’ha
vista passare nel corridoio e vorrebbe salutarla».
A mio modesto avviso, è qui che quanto segue perde ogni importanza,
perché al magistrato non poteva sfuggire che la persona con la quale
si disponeva a chiacchierare fosse una giornalista da sempre impegnata su
un fronte opposto a quello espresso dalla corrente di Magistratura
democratica, di cui egli è autorevole esponente, e che dunque
qualsiasi affermazione si fosse lasciato scappare su temi relativi al
rapporto tra politica e giustizia avrebbe potuto essere
opportunamente lavorata a suo danno. Delle due, una: o Morosini è
uno sprovveduto o si è scientemente costruito la trappola in cui si
è poi lasciato cadere.
Questa seconda ipotesi è la più
affascinante, perché a sostenerla potrebbero esservi solo ragioni luciferine. Tanto luciferine che non mi azzardo neppure a
prospettarle, implicherebbero scenari fantapolitici. Diversamente, saremmo in presenza solo di un povero
diavolo. Che vede passare davanti al suo ufficio la teorica del
«siamo tutti puttane»,
quella che mena vanto di darla preferibilmente ad anzianotti prestigiosi, e tenta
l’acchiappo,
per giunta servendosi di un assistente, va’
a capire se per evitare di beccarsi di persona un due di picche o per
dar sfoggio della servitù alle proprie dipendenze. In questo caso,
sarebbe facile trovare spiegazione a tutto, ma con un po’ di rammarico nel dover rinunciare alla fantapolitica. «Mi
basta accavallare le gambe per disporre meglio il mio interlocutore»,
spiegò la giornalista qualche tempo fa (Il
Foglio, 26.6.2013), e qui l’interlocutore
vi si sarà ottimamente disposto. Neanche avrà detto niente di tremendo – né
più, né meno, probabilmente, di quanto ha detto Piercamillo Davigo
a giornalisti assai meno accavallanti – ma ci avrà messo
un po’
più ardore e, voilà, avrà davvero assunto le parvenze di una sanguinaria toga rossa.
giovedì 5 maggio 2016
Cerchiamo di non ridicolizzare il garantismo
Gianluca
De Feo (la
Repubblica,
4.5.2016) scrive di aver letto le carte e di non aver bisogno che si
celebri il processo per esser certo che Simone Uggetti abbia commesso
«un
reato grave»,
ma di ritenere eccessiva la misura cautelare della sua detenzione in
carcere in attesa che il processo si celebri. In linea di principio,
direi che fili, perché chi ha certezze da giudice di Corte di
Cassazione può ben permettersi di fare un cazziatone a un gip. In
pratica, però, direi non fili troppo, perché De Feo è solo un
giornalista. Garantista, si potrebbe aggiungere, se non fosse che non
attende neppure il primo grado di giudizio per dichiarare fondato, e «tutto
fondato», l’impianto
accusatorio del pm.
In realtà, nemmeno aspetta che l’avvocato
difensore di Uggetti apra bocca per aver modo di dimostrare che eventualmente non lo sia: per esser certo che Uggetti abbia commesso «un
reato grave» –
un reato «che
mina la competitività del sistema economico, favorendo
l’arricchimento di cricche e camarille»
– gli basta «la
denuncia di una funzionaria, che ha registrato le riunioni con il
sindaco, le email che la testimone ha consegnato, le intercettazioni
telefoniche [che] descrivono con chiarezza la manipolazione del bando e la
spregiudicatezza con cui un professionista interessato all’appalto
entrava negli uffici e partecipava alla stesura del capitolato».
Ma neanche è tutto, perché riesce a produrre perfino un argomento
in favore della misura cautelare del carcere, che però –
incomprensibilmente – contesta: riconosce che «Uggetti
e il professionista riescono a venire a conoscenza dell’indagine e
tentano di cancellare le prove»,
ma cosa recita l’art.
274 del Codice di Procedura Penale?
La misura cautelare è legittima – si legge – «quando
sussistono specifiche ed inderogabili esigenze attinenti alle
indagini relative ai fatti per i quali si procede, in relazione a
situazioni di concreto ed attuale pericolo per l’acquisizione
o la genuinità della prova».
Perché non gli arresti domiciliari, invece del carcere? Nel suo
dispositivo il gip lo spiega, e De Feo ne prende atto – «con
l’attuale progresso tecnologico è impossibile monitorare e
controllare gli indagati»
– ma sembra che la spiegazione non lo convinca troppo, anche se poi
non riesce ad obiettare altro che allora si tratterebbe di «una
valutazione sull’obbligo del carcere che può essere applicata a
chiunque».
E
anche qui sbaglia, perché non
tutti gli indagati vengono pizzicati a confabulare al telefono sul
miglior modo per far sparire dai loro pc le prove del reato che hanno
commesso e del quale in sostanza si autoaccusano: è con questa
condotta che si realizza un «concreto
ed attuale pericolo» a
danno di un giusto processo, condotta che direttamente o
indirettamente può essere agevolmente reiterata avendo a
disposizione anche i più elementari strumenti elettronici di cui ogni casa è ormai piena.
Un garantista un
po’
confuso, direi, ma è ancora niente a confronto di Francesco Merlo
(la
Repubblica,
5.5.2016), che riprende gli stessi argomenti e li pompa a dismisura,
senza per questo renderli più convincenti. Vale la pena, tuttavia,
di farsi largo nella lussureggiante selva del suo articolo per
affrontare un altro tema che pure era stato sollevato
da De Feo, ma non con gli stessi toni febbricitanti. Dove, infatti,
il gip ha scritto che «la
personalità negativa dei due imputati porta a ritenere con decisa
verosimiglianza che gli stessi abbiano potuto sistematicamente
gestire la cosa pubblica con modalità illecite»,
a De Feo sembra che «si
pass[i]
dalla presunzione di innocenza alla presunzione di colpevolezza,
senza che negli atti ci sia anche una sola traccia di altri crimini».
In realtà, una «verosimiglianza»,
ancorché «decisa»,
non fa capo di imputazione, mentre è del tutto evidente che una
pratica illecita resa possibile da un ruolo o da una funzione sia
illimitatamente reiterabile al persistere delle condizioni che
rendono attivi quel ruolo o quella funzione. Così per quanto si
porrebbe con l’affermare
che i due imputati abbiano dato segno di «personalità
negativa» o,
come tiene a sottolineare Merlo citando un altro passaggio del
dispositivo firmato dal gip, «abietta
e negativa»: robe – scrive Merlo – che «avrebbero
spaventato Robespierre e confortato Stalin».
Un giudizio morale o, peggio, psicologico? Manco per niente:
l’aggettivo
«abietto»
è d’uso
comune nel Codice Penale, mentre il termine «personalità»
vi
ricorre con analoga frequenza senza che abbia alcun riferimento
all’ambito
morale o psicologico del soggetto interessato, ma solo a quello relativo all’esercizio
della sua capacità giuridica. Merlo si straccia le vesti per uno
scandalo che non sussiste: il gip si è limitato a considerare che il
reato di cui i due indagati si sono autoaccusati «desta
notevole allarme sociale»
in forza della «sua
gravità
e negatività, per le ricadute pubbliche che comporta»,
e che, commettendolo, essi «hanno
dimostrato assoluta
spregiudicatezza non
solo nelle modalità concrete tenute nel delinquere, ma portando
avanti con protervia i loro fini, intraprendendo attività volte a
distruggere ed eliminare tracce del loro accordo
illecito».
E che c’è
di tanto scandaloso nell’affermare
questo?
Benedetto sia il garantismo, sempre, ma cerchiamo di non
ridicolizzarlo a questo modo. A differenza di De Feo e di Merlo, per
i quali pare scontato che Uggetti e il suo compare siano colpevoli
del reato loro ascritto, anche se poi si tratterebbe solo di poche
migliaia di euro, quindi basterebbe una tiratina d’orecchio
ciascuno perché la società possa sentirsi risarcita del danno inflitto alla credibilità delle istituzioni, prim’ancora che all’erario pubblico – a differenza di De Feo e di Merlo –
io non so se quei due siano colpevoli o meno. Per meglio dire, ne ho
una mezza idea, ma aspetto un’eventuale condanna definitiva per dire che sono
due mariuoli. Perché sia una condanna giusta, se condanna avrà da
essere, voglio che gli elementi di prova non siano inquinati o
addirittura sottratti alla formazione di un corretto giudizio, sarebbe altrettanto grave che se ne producessero di falsi per condannarli ingiustamente: ogni
garanzia in favore degli indagati non può e non deve ostacolare la formazione di un corretto giudizio. Benedetto il garantismo, dunque, ma evitiamo che il garantista si riduca alla patetica macchietta del
portaborse dell’avvocato
difensore.
mercoledì 4 maggio 2016
martedì 3 maggio 2016
[...]
Intervistato
da Cazzullo (Corriere
della Sera,
3.5.2016), Napolitano dà forza al sospetto che la vecchiaia non sia
affatto il prezioso tabernacolo di virtù descrittoci da Cicerone e
da Seneca, ma solo il prepuzio in cui si ritrae il vizio che la
gioventù ha orgogliosamente esibito in tutto il suo turgore. Così,
come da giovane definiva «spregevoli
provocatori»
gli ungheresi in rivolta contro la dittatura comunista, salutando
l’arrivo
dei carri armati sovietici come «contributo
alla pace nel mondo»,
oggi Napolitano liquida come «conservatori»
i contrari allo scempio della Costituzione.
Se non «conservatori»,
«perfezionisti»:
a dire che la merda è merda, vuol dire che si è incontentabili. Se
non «conservatori»,
se non «perfezionisti»,
intellettualmente disonesti: «si
colpisce la riforma per colpire Renzi».
Ma chi, se non lo stesso Renzi, ha inteso fare del referendum che si
terrà in ottobre un plebiscito sulla sua persona? Sì, è vero, «Renzi non avrebbe dovuto dare questa accentuazione politica personale», ma, «prima
del voto definitivo sulla legge ha corretto il tiro, ha evitato
quella accentuazione, è entrato nel merito», fa niente che un minuto dopo abbia ricominciato a dire che a ottobre si giocava il culo e la faccia, dimostrando ancora una volta che in lui coincidono.
Sempre
lo stesso, Napolitano: diligentemente fascista, fino a quando il
fascismo resse; diligentemente togliattiano, fino a quando Togliatti
fu vivo; di simpatie craxiane, quando Craxi era allo zenith; cantore
della questione morale ai tempi di Mani pulite; gradito a Berlusconi
il tanto che bastasse a non buscarsi un veto per il Quirinale; e ora
renziano, sennò che altro?
Il governo Renzi procede a colpi di decreti sui quali mette di continuo la fiducia? Tutto normale, finito il tempo in cui «le distinzioni e le garanzie già fissate nella nostra Costituzione, e in leggi di particolare rilevanza istituzionale, vanno rigorosamente rispettate [perché non venga meno] il ruolo di indirizzo e di controllo del Parlamento, della sua autorità e dignità di suprema rappresentanza democratica [altrimenti mortificate dai] comportamenti di governo [che invece è tenuto ad un] ossequio non formale, alieno da insofferenze e arroganze, alle prerogative delle Camere» (Dove va la Repubblica, Rizzoli 1994 - pag. 180).
Referendum del 17 aprile: Renzi invita all’astensione? L’invito è legittimo. Nel 2005 non lo era: era un «venir meno a una norma di comportamento fondamentale, che è quella del sollecitare i cittadini a esprimersi» (Radio Radicale, 8.6.2005).
Anche quando sembrerebbe avere riserve sugli atti del governo Renzi, è solo per esortare a votare tutte le schifezze che scodella, poi eventualmente si miglioreranno, le opposizioni saranno benevolmente invitate a dare una mano, e chissà che questo non possa creare il clima favorevole a un tanto atteso Partito della Nazione: così l’anno scorso con l’Italicum, così oggi con la riforma costituzionale, perché, sì, è legittimo che si abbiamo riserve, ma è indispensabile approvarla, e poi, «una volta approvata, bisognerà mettersi al lavoro per costruire davvero questo nuovo Senato, e trarre dall’esperienza le possibili conseguenze».
Genuinamente renziano, dunque: fare per fare, e fare subito, poi eventualmente, se intanto non ci è caduto tutto addosso, si tappano i buchi, ma intanto fare, fare, fare, ché, «se
si affossa anche questo sforzo di revisione costituzionale, allora è
finita: l’Italia apparirà come una democrazia incapace di
riformare il proprio ordinamento e mettersi al passo con i tempi». Come sottovalutare l’allarme chi ha sempre dimostrato di saper essere al passo coi tempi, e tutti i tempi?
lunedì 2 maggio 2016
Questa riforma costituzionale è incostituzionale
Una
sentenza della Corte costituzionale, la n. 1146 del 29 dicembre 1988,
recita: «La
Costituzione italiana contiene alcuni principi supremi che non
possono essere sovvertiti o modificati nel loro contenuto essenziale
neppure da leggi di revisione costituzionale o da altre leggi
costituzionali. Tali sono tanto i principi che la stessa Costituzione
esplicitamente prevede come limiti assoluti al potere di revisione
costituzionale, quale la forma repubblicana, quanto i principi che,
pur non essendo espressamente menzionati fra quelli non
assoggettabili al procedimento di revisione costituzionale,
appartengono all’essenza
dei valori supremi sui quali si fonda la Costituzione italiana».
È quanto basta perché la riforma costituzionale votata da questo
Parlamento possa essere messa in discussione, fino ad essere
dichiarata costituzionalmente illegittima, anche se venisse
confermata dall’esito del
referendum che si terrà ad ottobre: sarebbe sufficiente dimostrare
che quanto è stato riscritto, nel dettaglio o nel complesso,
sovverta o modifichi, nel suo contenuto essenziale, uno o più
principi non assoggettabili al procedimento di revisione. La stessa
sentenza della Corte costituzionale, d’altronde,
rammentava di aver «già
riconosciuto in numerose decisioni come i principi supremi
dell’ordinamento
costituzionale abbiano una valenza superiore rispetto alle altre
norme o leggi di rango costituzionale»,
riaffermando di essere «competente
a giudicare sulla conformità delle leggi di revisione costituzionale
e delle altre leggi costituzionali»,
perché, «se
così non fosse, si perverrebbe all’assurdo
di considerare il sistema di garanzie giurisdizionali della
Costituzione come difettoso o non effettivo proprio in relazione alle
sue norme di più elevato valore».
Ciò
premesso, si potrebbe già passare, articolo per articolo,
all’analisi
del testo costituzionale così come riscritto dalla banda di
mascalzoni da oltre due anni inserrata a Palazzo Chigi e approvato
dal Parlamento di cooptati sub condicione consegnatoci dal Porcellum.
Lo faremo, fino a ottobre c’è
tempo, d’altronde
non sarebbe neanche necessario, perché fin qui non è mancato chi ha
segnalato più di un vulnus ai principi contemplati dalla I parte
della Costituzione in un testo che peraltro abbonda di fumose
ambiguità e sconcertanti paradossi, al netto di un lessico di merda,
che rivela tutta la zoticaggine di chi l’ha
steso. Tutto sommato, però, sarà superfluo: da un lato, è nel suo
insieme che questa riforma costituzionale è incostituzionale,
dall’altro,
solo la Corte costituzionale è autorizzata a sancirlo. Non sto
affermando che il referendum di ottobre sia inutile: è di piana
evidenza che una vittoria dei no farebbe a pezzi la riforma. Di
fatto, tuttavia, una vittoria dei sì non ne assicurerebbe la tenuta
al vaglio della Consulta, anche se potrebbero volerci due o tre anni
prima di mandarla al macero.
Anche
nel caso del referendum confermativo, dunque, come ampiamente
discusso su queste pagine nel caso di quello abrogativo, il risultato
della consultazione non sarebbe dirimente. E meno male, vorrei
aggiungere. Dove un popolo smarrisce ogni dignità, è più che
sacrosanto perda ogni sovranità, è più che ovvio perda voce in
capitolo sui fondamenti della legge, è più che naturale – direi
salutare – una supplenza della magistratura.
Flatus vocis
È
credibile che nessuno, a Palazzo Chigi, sapesse che Federica Guidi fosse moglie, fidanzata, semiconvivente o sguattera, che dir si voglia, di Gianluca Gemelli? Ma certo che è credibile, figuriamoci
se in Consiglio dei Ministri, con tutta quella fregola del fare per
fare, presi com’erano, tutti quei cervelloni, da una riforma costituzionale come quel bel po’
di riforma costituzionale, da un Job Acts come quel bel po’
di Job Acts, da un Italicum come quel bel po’
di Italicum, abbiano mai avuto un attimo
di tempo per frivoli pissi-pissi erotico-sentimentali. No, mi ci
gioco un coglione: nessuno sapeva, e poi quell’emendamento era bello di
suo.
Per questo non ho difficoltà a giocarmi anche l’altro coglione sul fatto che nessuno, a Palazzo Chigi, sappia del tenero idillio che, almeno a detta delle più perfide malelingue di Afragola e dintorni, pare a tutt’oggi stringa un ministro e un’aspirante alla guida di uno dei municipi in palio alle imminenti elezioni amministrative. Poco probabile che l’amante del ministro diventi sindaco, poi va’ a sapere se il flatus vocis corrisponda al vero, va’ a sapere quanto ci acchiappino, i sondaggisti. Però già immagino il contenuto di eventuali intercettazioni telefoniche tra i due, e il voyeur sopito in me fa il tifo per il povero ministro: «Mi tratti come un toy boy di Capoverde...».
Per questo non ho difficoltà a giocarmi anche l’altro coglione sul fatto che nessuno, a Palazzo Chigi, sappia del tenero idillio che, almeno a detta delle più perfide malelingue di Afragola e dintorni, pare a tutt’oggi stringa un ministro e un’aspirante alla guida di uno dei municipi in palio alle imminenti elezioni amministrative. Poco probabile che l’amante del ministro diventi sindaco, poi va’ a sapere se il flatus vocis corrisponda al vero, va’ a sapere quanto ci acchiappino, i sondaggisti. Però già immagino il contenuto di eventuali intercettazioni telefoniche tra i due, e il voyeur sopito in me fa il tifo per il povero ministro: «Mi tratti come un toy boy di Capoverde...».
giovedì 28 aprile 2016
Paralisi
Uno prova ad argomentare, poi arriva il tizio che, cacchio cacchio, tomo tomo, al tweet di ... risponde: battuta che manco mi nonna, pure senza apostrofo, e ti risparmia il post, però rimani paralizzato per due giorni.
lunedì 25 aprile 2016
Allora dieci, cento, mille Davigo
Vorrei
parlare dell’intervista
che Piercamillo Davigo ha concesso ad Aldo Cazzullo (Corriere
della Sera,
22.4.2016), ma mi sono indispensabili due premesse, senza le quali
temo sarei pesantemente frainteso. Non escludo affatto che sarò
frainteso lo stesso, ma premettere quanto segue mi farà sentire con
la coscienza a posto. Cercherò di essere breve.
Tempo
fa, su queste pagine, scrivevo che «la
caricatura del giustizialista è un gioco da ragazzi»,
mentre
col garantista è molto più difficile. La maschera del
giustizialista è «ciliosa,
biliosa, ha labbra strette, reca lo stampo di un cruccio perenne che
si stempera in un malvagio sorriso di soddisfazione, sempre spietata,
solo quando vede il cappio stringersi al collo del colpevole, anche
quando è solo presunto tale»,
ma com’è, mi domandavo, «la
maschera del tizio che pretende sempre tre gradi di giudizio per dire
colpevole chi è colto in flagrante, e che dinanzi
all’intercettazione telefonica nella quale un criminale si
autoaccusa di un delitto solleva la questione se mettergli la cimice
sia stato lecito, e che riesce sempre a trovare un diritto negato a
ogni fetente della peggior risma, e più fetente è, più sembra
andare in brodo di giuggiole a trovargliene uno da spendersi per
garantirglielo?».
Bene, direi che un’ottima
caricatura del garantista ci è stata offerta da quanti hanno reagito
all’intervista
di Piercamillo Davigo cadendo in convulsione isterica.
Seconda
premessa. Suonerà patetico, so bene, ma io continuo a credere nella
democrazia e nel liberalismo. Ormai sono irriconoscibili, non c’è
bisogno di farmelo notare, concedo che negli ultimi trent’anni
abbiano dato il peggio, finendo per dar ragione perfino a chi afferma che
siano impossibili in assoluto e incompatibili l’una all’altro.
Ci sarà chi mi vorrà convincere che il guasto è intrinseco alla
loro stessa natura, e anche qui io non solleverò obiezioni: basta un
niente, e la democrazia si svuota per lasciar di sé al massimo la
forma, pronta a riempirsi di orribili schifezze, e così il
liberalismo, che troppo spesso offre spiragli a tutto ciò che è
illiberale, finendo per tollerare, come unica diversità, la
diseguaglianza. Non farò come i marxiani, che in nessuno degli
esempi offerti dalla storia riconoscono il vero socialismo (altra
cosa dai marxisti, che spesso si accontentano anche del peggio), né
farò come i cristiani, che per la comprensione di quanto sia
perfetta la creazione rimandano a quanto ci sarà rivelato dopo la
morte, ma solo se da vivi ne sopportiamo i difetti e rinunciamo a
metterci mano: democrazia e liberalismo sono solo metodi, non reggono
in virtù di una teoria che gli dà un fine ultimo, né tanto meno
reggono sulla forza di una fede che sospenda il giudizio sui dati
dell’esperienza. Democrazia e
liberalismo reggono solo sul rispetto delle leggi che ne impediscono
il fallimento, e nulla più della corruzione lo favorisce: con la
corruzione che alimenta l’interesse
personale nell’adempimento di una
funzione pubblica, il principio della rappresentanza viene
minato alla base; con la corruzione che altera la misura del merito
nelle dinamiche della libera concorrenza, il mercato diventa un
tritacarne. L’assassino ne
uccide uno, due, dieci, cento, ma il patto tra corrotto e corruttore
ferisce tutti.
Vabbè,
volevo essere breve, e non ci sono riuscito. Vorrà dire che invece
di analizzare frase per frase ciò che Piercamillo Davigo ha detto ad
Aldo Cazzullo, mi limiterò a considerare solo il passaggio che ha
sollevato più polemiche: «Non
hanno smesso di rubare; hanno smesso di vergognarsi. Rivendicano con
sfrontatezza quel che prima facevano di nascosto. Dicono cose tipo:
“Con i nostri soldi facciamo quello che ci pare”. Ma non sono
soldi loro; sono dei contribuenti».
È sembrato fosse un’odiosa
generalizzazione, l’affermazione
di una presunzione di colpevolezza per tutta la classe politica
italiana. Impressione errata, a mio modesto avviso. Volutamente
errata, forse, nel tentativo di far quadrato contro quello che così
potesse essere denunciato come il tentativo di una generale condanna
preventiva. Sta di fatto che all’appello
hanno risposto solo i partiti che hanno fra i loro eletti il maggiore
numero di indagati, rinviati a giudizio e condannati in primo grado o
in via definitiva, con ciò dando conferma di quanto il presidente
dell’Anm
aveva detto appena due giorni prima, e proprio a smentire ogni
insinuazione di vulnus al diritto: «La
presunzione d’innocenza è un fatto interno al processo, non
c’entra nulla coi rapporti sociali e politici»
(Il Fatto
Quotidiano,
20.4.2016).
La responsabilità penale è personale, certo, ma, dinanzi al reato
come costante sistemica, c’è
una responsabilità politica che è di sistema, ed è in tale sistema che «non esistono innocenti, ma solo colpevoli non ancora scoperti». Quando la classe
politica non è in grado di darsi strumenti per prevenire la
corruzione, prima, ed emarginare i corrotti, poi, è colpevole:
contro la democrazia, contro il liberalismo. Quando in favore
dell’indagato,
dell’imputato, del condannato, se appartenente alla classe
politica, la
garanzie diventano
guarentigie, il garantismo diventa una maschera, anche parecchio
grottesca. Allora dieci, cento, mille Davigo.
domenica 24 aprile 2016
La fine dell’assoluto
Riproduco
qui sotto il primo e l’ultimo
capoverso dell’articolo a firma
di Edoardo Boncinelli che oggi è su la Lettura (Corriere
della Sera, 24.4.2016), a prolegomeno per ogni ciancia metafisica.
venerdì 22 aprile 2016
[...]
«L’italiano
non è l’italiano: è il ragionare»
Leonardo
Sciascia, Una storia semplice (1989)
Quando
si parla di analfabetismo funzionale, ci si limita a
considerare
l’incapacità
di comprendere un testo relativamente semplice, produrne
uno sufficientemente adeguato a esprimere quanto sia nelle intenzioni
di chi scrive, eseguire calcoli anche estremamente facili e risolvere
problemi non eccessivamente complicati – incapacità che per
ciascuna delle dette operazioni è opportunamente valutabile grazie a
test che ne rivelano la gravità caso per caso – come espressione
di un mero deficit di nozioni, che per quanto attiene al leggere e
allo scrivere sarebbero grammaticali, sintattiche e lessicali, quasi
che il problema debba ritenersi relativo solo al grado di istruzione,
e in sostanza all’acquisizione,
al corretto uso, alla
necessaria manutenzione degli utensili impiegati per comunicare,
dimenticando che a informare la struttura del linguaggio sono le
leggi della logica, sicché non è affatto azzardato affermare che a
ogni analfabeta funzionale corrisponda un individuo che non ragiona
affatto o che ragiona male.
Questo
primo capoverso poteva essere spezzettato in dieci frasi per renderne
più agevole la lettura? Senza dubbio, ma a che scopo? Per non
pretendere dal lettore una continuità di attenzione che già a un
terzo della sua lunghezza – concedo – può risultare faticosa. È
così che deve
aver preso piede la premura di costruire frasi brevi: dal tronco
della proposizione principale vengono potate le coordinate, le
subordinate e le incidentali, senza togliere efficacia comunicativa
al testo, sia chiaro, ma rinunciando a dargli una forma che
corrisponda all’articolazione
logica che lo sostiene. In altri termini, la scelta è quella di
disarticolare i processi logici, ritenendo che non sia essenziale
assicurarne la continuità per dar ragione del loro sviluppo.
D’altronde,
se si ha contezza del fatto che di analfabetismo
funzionale soffre oltre l’80% degli italiani (nella sua forma più
grave la percentuale è del 47%),
non c’è
altra scelta: occorre rinunciare a produrre testi che impongano al
lettore la fatica di ragionare. Non mi si fraintenda: con una
scrittura semplice, non faticosa, si possono adeguatamente esprimere
concetti anche assai complessi, senza che l’impianto
argomentativo venga a perdere solidità, né che venga meno la
possibilità di saggiarla. Di fatto, tuttavia, il saggiarla implica
dover ricostruire il processo attraverso il quale l’impianto
argomentativo è venuto a strutturarsi. Poco male, si dirà, in fondo
nulla andrà perso. Certo, ma solo per chi sarà in grado di
riattaccare i rami al tronco: l’analfabeta
funzionale non ne sarà capace, anzi, neppure ne comprenderà il
senso. Si saranno così create le premesse perché a persuaderlo
possa bastare ciò che pensa di aver capito, laddove il testo gliene
offra occasione, poco importa quanto reale. La breccia sarà fatta
per lasciare passare non solo paralogismi e tautologie, ma anche
argomenti validi, se però esposti in modo didattico, il che
giocoforza presuppone la disponibilità ad assegnare autorità senza
poterne valutare pienamente la legittimità.
Il
primato europeo di analfabetismo funzionale di cui l’Italia
continua ad essere l’incontrastata
detentrice fin dalla prima indagine effettuata sul fenomeno non è, dunque, solo un problema strettamente culturale, ma anche, e forse soprattutto, una questione
antropologica, tanto più rimarcabile in quanto tale per l’enorme
divario che la separa dagli altri paesi:
a dispetto degli autori che ci hanno scoraggiato dalla
costruzione di quegli idealtipi cui si dà il nome di «carattere»,
quello italiano
esiste, e ha una ben distinguibile cifra identitaria, che è l’incapacità di ragionare.
martedì 19 aprile 2016
Bah, chissà, forse la fretta
I tecnici nominati dalla
Procura di Vibo Valentia ritengono in via preliminare che gli incidenti verificatisi sul tratto della Salerno-Reggio Calabria ora sottoposto a sequestro
cautelativo siano dovuti a difetti nella realizzazione delle opere
di ammodernamento che di recente vi sono state apportate. Bah, vedremo come andrà a
finire, può darsi che tutte quelle morti siano dovute solo al caso e che
l’impresa incaricata dei lavori
non abbia alcuna responsabilità dell’accaduto.
Certo, se ne avesse, sarebbe legittimo chiedersi cosa possa aver
causato gli errori di progettazione e di messa in opera. Chissà, forse
la fretta. Sappiamo, infatti, che entro il 22 dicembre la A3 deve essere completata, perché
l’inquilino di Palazzo Chigi
possa inaugurarla, come ha promesso lo scorso febbraio, quando
all’annuncio in conferenza
stampa tutti gli hanno riso addosso, e allora – mirabile visu –
sulle sue gote si è colto un lieve accenno di rossore, del tipo che
si osserva in certe balaniti: quell’oltraggio alla sua credibilità può averlo spinto a mettere il pepe al culo ai responsabili dei
cantieri aperti sulla A3, e si sa che col pepe al culo l’errore
scappa sempre. Fare per fare, e fare in fretta, di rilancio in
rilancio, in perenne sfida: è la filosofia di Matteo Renzi, i morti nella galleria Tremisi-San Rocco ne sarebbero i paralipomeni.
lunedì 18 aprile 2016
Guerri su Buonaiuti
Rammentandoci
che il
20 aprile ricorre il 70° anniversario della morte di Ernesto
Buonaiuti, Giordano Bruno Guerri ne tratteggia
la figura di intellettuale che subì feroci persecuzioni da parte del
papato, chiudendo il suo articolo con l’auspicio che Bergoglio ne
faccia ammenda, tanto più doverosa da parte di Bergoglio perché è
proprio il suo pontificato ad aver dato segno di «voler
recuperare lo spirito più profondo del messaggio di Buonaiuti»,
e poi perché Bergoglio è un gesuita, e proprio i gesuiti furono i
suoi più accaniti detrattori (Adesso
Papa Francesco perdoni l’«eretico» Buonaiuti -
il
Giornale, 18.4.2016).
L’auspicio sembra assai sentito, d’altronde basta
aver letto la biografia di Buonaiuti che Guerri diede alle stampe
tempo fa (Eretico
e profeta,
Mondadori 2001) per capire quanta compassione abbiano suscitato in
lui i torti subìti dall’«esponente
più importante del modernismo» qui
in Italia. Né sembra strumentale, l’auspicio, anche se le
posizioni anticlericali di chi lo formula sono note, perché, da
storico che non si è mai adeguato a una conformistica lettura del
fascismo, Guerri non dimentica di denunciare anche i torti che
Buonaiuti subì dal regime fascista (tutte recepite, in occasione del
Concordato e dei Patti Lateranensi, le richieste vessatorie avanzate
dal Vaticano nei suoi confronti), né, da liberale, fa sconti ai
liberali, Croce in testa, che per la sorte di Buonaiuti spesero solo
indifferenza («pensando
a torto che si trattasse di battaglie che non riguardavano la vita
laica»).
Tutto bene, diremmo, se non fosse che in quarta di copertina, sulla
prima edizione della biografia di Buonaiuti, si legge: «non
potrà mai essere perdonato dalla Chiesa: o eretico o santo».
Che, da un lato, rivela la piena comprensione delle ragioni che
ancora oggi costringono la Chiesa a rigettare i capisaldi del
modernismo (evoluzione creatrice, lettura storico-critica delle
Scritture, recupero dell’ecclesiologia del primo cristianesimo,
ecc.) con una fermezza di cui invece si sente in grado di poter fare a meno quando fa l’ecumenica
con ortodossi, anglicani e lefebvriani, e, dall’altro, esprime in
modo plastico la coincidenza di strategia e di tattica nel modo che
essa adotta per riscrivere la sua storia. Proprio perciò, e in virtù del suo quasi sfacciato candore, l’auspicio
appare sottilmente provocatorio.
Come diceva il poeta
Sette
italiani su dieci, ieri, hanno disertato le urne. Trattandosi di un
referendum, direi che le ragioni – valide o meno, a piacere –
possano ridursi alle seguenti, ma senza che ciascuna escluda
necessariamente le altre:
(1) rigetto di ogni forma di voto, come
espressione di sfiducia nel metodo democratico o addirittura di
ripudio del principio che lo informa;
(2) rigetto del voto
referendario, per generica contrarietà ad ogni forma di democrazia
diretta, per specifico dissenso al senso che questa assume nello
strumento del referendum, per sfiducia maturata dall’esperienza
delle numerose volte in cui l’esito
del voto è stato disatteso;
(3) rigetto del
quesito posto in questa occasione, perché non
adeguatamente compreso, perché ritenuto di peso irrilevante, perché
considerato strumentale, perché non proposto da 500.000 cittadini,
ma da 9 regioni;
(4) contrarietà all’evenienza
che dalle urne uscisse vincitore il sì e conseguente scelta di far
forte il no con l’astensione
motivata dalla somma delle suddette ragioni.
È ovviamente
impossibile discernere in quota percentuale quanto abbia pesato l’una
o l’altra ragione nel
mancato raggiungimento del quorum, ma un astensionismo ormai stabile
intorno al 30-40% per ogni genere di consultazione elettorale
tenutasi negli ultimi dieci anni, con un marcato incremento quando si
trattava di referendum, consente di ridimensionare il peso tutto
apparente che assume la pur incontestabile vittoria di chi voleva che
andasse come è andata.
Relativamente più semplice è l’elenco
delle ragioni che hanno portato alle urne i restanti tre italiani su
dieci:
(1) c’era chi non diserta mai il voto,
perché lo ritiene un dovere civico, non intende venirvi meno neppure
se ha coscienza che ormai conta sempre meno, e va a votare sempre,
anche se non ha le idee ben chiare, dove probabilmente lascia la
scheda in bianco;
(2) poi c’era chi, a torto o a ragione, pensava
di aver chiara la questione che era in gioco, e su quella intendeva
esprimere la propria idea, ritenendo indispensabile darle un peso col
voto, sia per votare sì, nel tentativo di abrogare una norma
ritenuta ingiusta, sia per votare no, perché indisposto a vederla
confermata dal mancato raggiunto del quorum o disposto a vederla
confermata anche in quel modo, ma personalmente indisposto a
servirsene;
(3) infine c’era chi al voto riconosceva la legittimità
del valore strumentale che era venuto assumendo come espressione di
sfiducia al governo, poco importa se per la natura stessa del quesito
o per la sfida lanciata da Matteo Renzi col suo invito
all’astensione.
Anche qui è difficile separare una ragione
dall’altra per assegnare a ciascuna il proprio peso percentuale,
sta di fatto che l’invito di Matteo Renzi all’astensione rende in
qualche modo omogeneo il 32,15% che si è recato alle urne,
conferendogli un profilo politico che il 67,85% che se n’è tenuto
lontano non ha. In buona sostanza, questo referendum ha creato un
collante tra chi è andato a votare perché l’indifferenza è un
peccato mortale, chi ci è andato pensando a cazzo di cane che il suo
voto servisse a salvare l’albatros dall’atroce agonia in una
pozza di catrame e chi invece l’ha fatto semplicemente perché
sperava di poter vedere Matteo Renzi schiattare di rabbia: un
collante che manca alle componenti dell’elettorato astensionista,
sul quale oggi il buffone ha buon gioco a puntare i piedi, ma che in
realtà è meno affidabile della superficie delle sabbie mobili. In più, non è da sottovalutare l’effetto
frustrante di un mancato quorum in chi è andato a votare, non
importa quale fosse il motivo che portasse alle urne.
In definitiva,
direi che il fine immediato posto dal referendum, come ampiamente
previsto, è senza dubbio fallito, ma quello che, scientemente o
meno, gli era insito alla media e lunga distanza ha trovato pieno
successo, come ne ha dato plastica dimostrazione la conferenza stampa
tenuta da Matteo Renzi, dove la voglia di incassare il risultato è
stata cautamente raffrenata da toni di ricomposizione: la vittoria
non era del governo, ma dei lavoratori addetti alle trivelle; la
sconfitta non era di chi era andato a votare, ma di chi ce l’aveva
portato. Può darsi che questo tentativo di blandire il risentimento
dei tanti che sono stati sbeffeggiati dai suoi sgherri possa avere
qualche effetto, ma l’impressione è che con la vittoria ottenuta
ieri, soprattutto col modo in cui se l’è procurata, Matteo Renzi
abbia dato un altro colpo di vanga allo scavarsi la fossa nella quale
sarà seppellito vivo. Non è dato sapere quando, e comunque non è
ragionevole pensare che accadrà presto, in fondo quella italiana è
plebe dai riflessi assai ottusi, quasi spenti.
«E
poi perdere ogni tanto ci ha il suo miele»,
come diceva il poeta. Che aggiungeva: «si
pianga solo un po’ perché è un peccato e si rida poi sul come
andrà a finire»;
«la
ragione diamo e il vincere ai coglioni, oppure ai bari»;
«ne
abbiam visti geni e maghi uscire a frotte per scomparire»;
«ghignando
ce ne andremo pian pianino per sederci lungo il fiume ad
aspettare»...
Conviene riascoltare tutta la sua poesia.
Per oggi abbandoniamoci al
lirismo, via, ché poi, quando verrà il momento di saldare i conti
non ce ne sarà tempo, né motivo.
domenica 17 aprile 2016
Siamo onesti, via
Siamo
onesti, via, quello che si è tenuto oggi era un referendum fallito
in partenza. A gente come quella che intasa la canna fecale che da
Aosta scende fino ad Enna non si pongono quesiti così astrusi, ma
domande semplici e su questioni che tocchino davvero la viva realtà
del suo quotidiano.
Karma
È
giovane, questo è vero, ma non si può mai dire, la morte è
capricciosa, pesca a caso, e poi ultimamente non mostra un’ottima
cera, è gonfio, chiude la frase con un lieve affanno, appena
percettibile, questo sì, ma non sarei affatto sorpreso se la minima
fosse sui 90/95, la creatininemia sforasse anche di poco, avesse
qualche occasionale disritmia cardiaca... Poi c’è
che i giovani si sentono immortali, sottovalutano i sintomi,
sperperano energie pensando siano inesauribili... Se poi sono drogati
di vitalismo e di autostima, perennemente su di giri, convinti di
avere il mondo in pugno, basta un nonnulla, chessò, un piccolo
aneurisma cerebrale, e il karma non perde l’occasione
di dar prova di quanto sappia essere stronzo. Insomma, non c’è
da disperare, occorre solo esser pazienti.
«Nessuno strumentalizzi il voto», dice. Ti verrebbe da sparargli in bocca, ma perché scomodarsi? Lasciamo fare al fato, che in ogni vita è piantato come una trivella, e succhia e succhia e succhia, senza rinnovo della concessione, fino a esaurimento.
«Nessuno strumentalizzi il voto», dice. Ti verrebbe da sparargli in bocca, ma perché scomodarsi? Lasciamo fare al fato, che in ogni vita è piantato come una trivella, e succhia e succhia e succhia, senza rinnovo della concessione, fino a esaurimento.
sabato 16 aprile 2016
venerdì 15 aprile 2016
Napolitano 2005
Mai
avrei immaginato che Napolitano avesse fan tanto agguerriti.
Ammiratori, sì, sapevo che ne avesse, ma non immaginavo che fossero
capaci di esprimere la loro ammirazione per Re Giorgio con insulti
così violenti all’indirizzo
di chi azzardasse a sollevargli critica. La regola, qui, è di cestinare ingiurie e minacce, ma a questi corazzieri di complemento in pensione devo una risposta, e mi pare non ce ne
sia una migliore che proporre un Napolitano d’annata.
Non così lontano nel tempo, poi: si tratta dell’intervista
concessa ad Alessio Falconio, per Radio Radicale, l’8
giugno del 2005. Concetti chiari, e chiaramente espressi, peraltro
ribaditi nel 2011, anche lì in occasione di una chiamata
referendaria. Ascoltatelo, l’emerito,
poi andate a fare in culo assieme a lui.
[Commenti di tenore analogo a
quelli riservati al post qui sotto saranno allegati a documento di
querela contro ignoti.]
Un emerito
Quando
si trattò di discutere su quale valore attribuire al voto, la
Costituente si spaccò in due: c’era
chi voleva
che la Costituzione ne affermasse l’obbligatorietà
giuridica e chi invece riteneva fosse un pochino esagerato schiaffare
in galera chi disertasse le urne. Si arrivò al compromesso e il voto
fu dichiarato «dovere
civico».
In quanto «dovere»,
era implicito dovesse stabilirsi una sanzione per chi se ne sottraeva. Avendo rinunciato a trattarla come un reato, l’astensione
fu punita con l’iscrizione
in un apposito albo, che per un mese restava esposto al pubblico
nella bacheca delle ordinanze comunali, e con l’annotazione
«non
ha votato»
sul certificato di buona condotta per i cinque anni successivi, a
norma dell’art.
115 del testo unico della legge elettorale del 30.3.1957, che
definiva il voto come «obbligo
al quale nessun cittadino può sottrarsi».
Sarà solo un caso, ma tutto questo ha termine solo quando le leggi
elettorali virano al maggioritario, quasi a concedere un vero e
proprio diritto di astensione dal voto proprio quando la cosiddetta
governabilità comincia ad essere sentita prioritaria rispetto alla
rappresentatività. Come a dire: togliamo al tuo voto il suo
effettivo peso, ma in cambio ti concediamo la libertà di non votare,
lasciando al biasimo la mera maniera.
La Costituzione continua a
recitare che il voto è un «dovere
civico»,
ma al rispetto del principio sembrerebbe sia tenuta solo la figura
istituzionale, visto che continua ad essere vigente, per esempio, la
legge
352 del 25.5.1970 (Norme
sui referendum previsti dalla Costituzione e sulla iniziativa
legislativa del popolo)
che punisce con la reclusione da sei mesi a tre anni «chiunque
investito di un pubblico potere [...] si adopera [...] ad indurli
[gli
elettori] all’astensione».
Vigente per modo di dire, visto che il Presidente del Consiglio continua ad invitare a disertare il referendum che si terrà
dopodomani senza che una Procura della Repubblica senta il bisogno di
intervenire.
Poi c’è
l’emerito,
e a emerito non aggiungo Presidente della Repubblica perché alludo ad altro. Dalle pagine de
la
Repubblica,
ieri, l’emerito
diceva che «l’astensione
è un modo di esprimere la convinzione dell’inconsistenza e della
pretestuosità di questa iniziativa referendaria»,
alla faccia dell’Ufficio
centrale per il referendum presso la Corte suprema di cassazione che
l’ha
dichiarata legittimamente fondata. Il rispetto del principio viene così ad essere dichiarato eludibile anche da chi sia investito di un pubblico potere.
Sarà solo un caso, ma tutto questo accade col degrado della funzione rappresentativa in una delle più plastiche rappresentazioni del cosiddetto «populismo dall’alto»: il pubblico potere trae legittimità dal silenzio-assenso più che dal dichiarato consenso e l’invito all’astensione diventa il modo per poter dichiarare legittima la pretesa della delega in bianco.
Ne è ulteriore conferma la
procedura che l’emerito ritiene
più adeguata a correggere quelli che non ha difficoltà a riconoscere
come punti deboli della riforma costituzionale per la cui
approvazione così com’è da
parte del parlamento non ha risparmiato impegno: «Bisogna
soprattutto farla, una riforma come quella appena approvata, eppoi
impegnarsi per la sua migliore attuazione. A questo compito
dovrebbero partecipare, una volta confermata la legge con il
referendum, anche i gruppi politici che oggi la osteggiano». Scriverla come viene, approvarla anche se ha dei difetti, chiedere al popolo bue di dare il non obstat, e poi procedere a migliorarla per quanto possibile coinvolgendo chi avrebbe voluto emendarla prima che fosse approvata, ovviamente se disposto al supino assumere la ratio di un tombale neoconsociativismo. Che vi dicevo? Un emerito.
Iscriviti a:
Post (Atom)