martedì 10 maggio 2016

La seconda volta come farsa

«Hegel nota in un passo delle sue opere
che tutti i grandi fatti e i grandi personaggi
della storia universale si presentano
per, così dire, due volte. Ha dimenticato
di aggiungere: la prima volta come tragedia,
la seconda volta come farsa»

Karl Marx, Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte



Uomo di Sinistra, il Depretis. È con la nascita del suo V governo, il 19 maggio 1883, che il trasformismo diventa esplicito programma politico. Senza scrupoli di sorta, perché il termine non ha acquistato ancora laccezione negativa che acquisterà dopo, molto dopo (al momento è solo quellanima bella di De Sanctis a storcere il muso), ed è sinonimo di evoluzione, «la legge generale delle cose viventi», come dirà il Minghetti, uomo di Destra, per dichiararsi – potenza delleufemismo – disponibile a discuterne.
Il trasformismo non è il cambio di casacca: a trasformarsi devono essere i partiti, perché Destra e Sinistra sembrano categorie superate, per giunta logoranti. Ad essere logorata, in realtà, è solo la Sinistra, e Depretis cerca di darle una base più solida in Parlamento, in nome di qualcosa che unisca gli eletti di là dalle ideologie. Il bene comune? Senza dubbio, ma cosa è comune agli uomini dei fin lì opposti schieramenti?
«In buona coscienza fanno prima di tutto e soprattutto gli interessi loro propri, dei parenti, dei congiunti, degli amici, dei protetti, facendovi entrare, quando si possa senza proprio incomodo, anche quelli del pubblico»: qualunquista ante litteram, padre Carlo Maria Curci, ma, nel concedere che «Destri e Sinistri si dividevano e si dividono ancora così per i riguardi personali, per divergenze in particolari opinioni, ma quanto al principio generale l’uno vale sostanzialmente l’altro», ammette che il programma di Depretis abbia una solidità di fatto nellevidenza che ormai Destra e Sinistra sono termini «arcaici»Sbarazziamoci delle ideologie, si faccia largo a un sano pragmatismo che porti a confluire tutti gli uomini di buona volontà e di solido appetito in un bel Partito della Nazione.
Vabbè, qui sono andato un po oltre, perché Depretis e Minghetti non si azzardarono a immaginare di poter far confluire Sinistra e Destra in un partito unico. Uomini dellOttocento, cè da capire.

Dovendo sbarazzarsi delle ideologie per poter meglio conciliare i traffici e le spartizioni, era necessario liberarsi degli abiti che si erano indossati fino ad allora per officiare ai riti dello scontro tra chi era al governo e chi allopposizione. Lappartenenza ad una tradizione culturale diventava dimpaccio e chi ne coltivava il culto – si noti dal bisticcio che occupazione stronza – diventava un solenne rompicoglione, un idealista del cazzo, un seccante brontolone.
Quel gufo del Carducci, per esempio: «A questa nazione, giovine di ieri e vecchia di trenta secoli, manca del tutto lidealità... Uomini e partiti non hanno idee, o per idee si spacciano affocamenti di piccole passioni, urti di piccoli interessi, barbagli di piccoli vantaggi: dove si baratta per genio labilità, e per abilità qualche cosa di peggio; dove tromba di legalità e alfiere dellautorità è la vergogna sgattaiolante tra articolo e articolo del codice penale». Peggio di uno Zagrebelsky, via, quasi un Davigo.
Per fortuna non mancò chi seppe dare una copertura culturale alloperazione. Provate a indovinare. Bravi, fu quella merdaccia di Benedetto Croce: non importa se il politico sia onesto o meno, limportante che è sia bravo. Bravo a che? Che domande, bravo a far politica, che è scienza dell’utile. Utile a chi? Basta con le domande, ché Sua Eccellenza ha cose più importanti a cui pensare, ha da scrivere un saggio sulla poesia barocca e non può perdere tempo a battibeccare sui social. Date tempo al tempo, aspettate che tutto questo schifo diventi fascismo e vi concederà di venerarlo come iconetta dell’antifascismo. Riempitelo di like, ché ci tiene tanto.

lunedì 9 maggio 2016

[...]

Cè da supporre che, se ci fosse stato il quadrumane, il posto a tavola sarebbe costato duemila euro; di Matteo Renzi, invece, cera solo il braccio destro, quello addetto ai lavori sporchi, e la cena ne costava solo cinquecento. Chi cera dice che Luca Lotti è stato perentorio: «Matteo è disposto a perdere anche Roma, ma Napoli deve essere nostra». A questo – dice chi cera – la sguessa della Valente è parsa ancora più volitiva, tanto che di profilo non aveva nulla da invidiare alla prua di Mascalzone Latino. Sul volto dei verdiniani e dei cosentiniani – dice – è passata una rapida espressione di commozione per tanta fiducia accordata loro, ma da uomini tutto dun pezzo lhanno subito affogata in battutacce indirizzate a Bassolino, fra le quali la più divertente è risultata quella in rima con bucchino. Uommene scic e femmene pittate, il Vesuvio guardava, ma molto strafottente. 

Frasi che costeranno care / 2

Dellintervista che ieri sera Matteo Renzi ha concesso a Fabio Fazio (Che tempo che faRaitre, 8.5.2016) stamane ogni quotidiano ha dato il resoconto con scrupolosa analisi in dettaglio, ma nessuno sembra aver trovato alcunché da ridire su un passaggio che a me pare contenga unaffermazione estremamente grave, e mi riferisco a quella che fotografa una patologia ormai cronica nel nostro sistema politico, quella che ha trasformato il governare nelle leggi, e cioè nellambito delle leggi, nel governare mediante le leggi, che poi è un modo di sottrarsi al loro controllo (cfr. Giovanni Sartori, Democrazia: cosa è, Rizzoli 2006). Con la consueta aria da gradasso, il Sommo Cretino ha sparato: «Io dico: “Cari giudici, fate il vostro lavoro, io faccio il mio: io devo fare le leggi, voi dovete applicarle”».
Tu devi fare le leggi? E allora il Parlamento a che serve? Domanda retorica: serve solo a convertire in legge i decreti del Governo, tutti coperti dalla foglia di fico dellurgenza. Come non dargli lopportuna delega, al Governo, quando si è dei semplici cooptati dalle segreterie dei partiti che lo sostengono? Fanculo alla separazione dei poteri: esecutivo e legislativo possono ben stare in capo a una sola persona, meglio se poi cumula le cariche di Presidente del Consiglio e di Segretario del partito di maggioranza relativa, che lapposita legge elettorale trasformerà in assoluta. Perché tutto proceda in modo snello, togliamo lintoppo di una seconda Camera, e poi che manca? Ah, sì, manca che al Quirinale ci sia un Mattarella e al Csm un Legnini: presto, portate una corona dalloro, ché il gradasso la pretende. 

Frasi che costeranno care / 1


Quando Renzi ripete che andrà a casa in caso di sconfitta al referendum che si terrà ad ottobre, è chiara la consegna ai suoi: ogni mezzuccio è lecito per incassare il risultato, sennò tutti si torna ad essere insignificanti merdine, proprio come si era prima. Comprensibile che a dare il meglio debba essere la Maria Elena, che a toglierle la poltrona di sotto tornerebbe buona solo per qualche comparsata in discoteca, come spetta di diritto a chi ha partecipato a una edizione del Grande Fratello. E allora eccola: «Chi voterà no alla riforma costituzionale si metterà sullo stesso piano di Casapound». Frase da appuntare, per quando ci sarà da pagare il conto. 

Come fosse il Leicester, si fa per dire


Non cè una Chirico, non cè un Manconi, non cè un Cerasa, non cè un Bordin, non cè neppure un Rondolino, un Facci, un Taradash che spenda una parolina per il poveretto – si fa per dire – accusato di aver gettato dallottavo piano di un palazzone di Caivano una bambina di sei anni dopo averla stuprata. I disegni della vittima, le testimonianze di alcune sue amichette, qualche intercettazione telefonica: tutta roba che un garantista di quelli in servizio permanente non avrebbe alcuna difficoltà a ridurre al classico pugno di mosche, per passare subito ad accusare gli inquirenti.
E invece niente, non cè uno straccio di giornale che ci provi, neppure Il Foglio, che di solito non lascia mai un fetente senza assistenza legale, e più fetente è, più lassistenza è generosa, perfino temeraria. Zero, nessuno ci rammenta che il poveretto – si fa per dire – è da considerare innocente fino a condanna definitiva, eventualmente pure dopo: nessuno, in questo caso, a difendere il principio. Neppure per lucrare un po di quellattenzione che non si nega mai a chi difende il principio a dispetto di tutto. Neppure per una scommessa di quelle sul Leichester, metti caso saltasse fuori che il colpevole è un altro.
Sarà che in questo caso il reato è davvero abominevole. Sarà che limpianto accusatorio è più solido che in altri casi. Sarà che il poveretto – si fa per dire – ha dei precedenti. (Pardon, come non detto, per un vero garantista i precedenti tornano a favore dellaccusato.) E però il poveretto – si fa per dire – piange in carcere, e si dichiara innocente, e in sostanza lo è davvero, perché non è stato condannato neanche in primo grado per il reato che gli è contestato. Non è un politico, non è un imprenditore, capisco, ma è possibile non ci sia un cane a prenderne le difese?
Io? Neanche a pensarci, e poi può darsi che sia vero quel che si mormora, può darsi che, a forza di leggere Kant prima di andare a letto, io sia diventato un giustizialista. No, io non mi azzardo. Aspetto che per il presunto – solo presunto – assassino della piccola Fortuna qualcuno spenda almeno la metà della metà della metà di quanto spende per Uggetti o Cosentino. Ci conto. Come fosse il Leicester. 

sabato 7 maggio 2016

Segnalibro

«Mi basta accavallare le gambe»


Ho letto molti commenti allintervista che Piergiorgio Morosini ha concesso ad Annalisa Chirico (Il Foglio, 5.5.2016), ma in nessuno mi è parso sia stato dato il dovuto peso alla cornice. Ci si è soffermati a considerare se una chiacchierata informale possa considerarsi intervista, se sia stato corretto titolarla con un virgolettato non contenuto nel testo, se le frasi attribuite al magistrato rispettino fedelmente quel che ha veramente detto: questioni dun certo interesse, non voglio sottovalutarne il peso, ma del tutto irrilevanti rispetto a quanto avrebbe dato occasione al colloquio.
Non smentita al riguardo nelle precisazioni che Morosini ha fatto seguire al vespaio sollevato dall’articolo, Chirico riferisce che si trovava a Palazzo dei Marescialli, sede del Csm, per tuttaltra ragione che un incontro col magistrato, e che da questi, per linterposta persona di un suo assistente, è stata invitata ad un colloquio nel suo ufficio: «Dottoressa, mi scusi, il dottor Morosini lha vista passare nel corridoio e vorrebbe salutarla». A mio modesto avviso, è qui che quanto segue perde ogni importanza, perché al magistrato non poteva sfuggire che la persona con la quale si disponeva a chiacchierare fosse una giornalista da sempre impegnata su un fronte opposto a quello espresso dalla corrente di Magistratura democratica, di cui egli è autorevole esponente, e che dunque qualsiasi affermazione si fosse lasciato scappare su temi relativi al rapporto tra politica e giustizia avrebbe potuto essere opportunamente lavorata a suo danno. Delle due, una: o Morosini è uno sprovveduto o si è scientemente costruito la trappola in cui si è poi lasciato cadere.
Questa seconda ipotesi è la più affascinante, perché a sostenerla potrebbero esservi solo ragioni luciferine. Tanto luciferine che non mi azzardo neppure a prospettarle, implicherebbero scenari fantapolitici. Diversamente, saremmo in presenza solo di un povero diavolo. Che vede passare davanti al suo ufficio la teorica del «siamo tutti puttane», quella che mena vanto di darla preferibilmente ad anzianotti prestigiosi, e tenta lacchiappo, per giunta servendosi di un assistente, va a capire se per evitare di beccarsi di persona un due di picche o per dar sfoggio della servitù alle proprie dipendenze. In questo caso, sarebbe facile trovare spiegazione a tutto, ma con un po’ di rammarico nel dover rinunciare alla fantapolitica. «Mi basta accavallare le gambe per disporre meglio il mio interlocutore», spiegò la giornalista qualche tempo fa (Il Foglio, 26.6.2013), e qui linterlocutore vi si sarà ottimamente disposto. Neanche avrà detto niente di tremendo – né più, né meno, probabilmente, di quanto ha detto Piercamillo Davigo a giornalisti assai meno accavallanti – ma ci avrà messo un po più ardore e, voilà, avrà davvero assunto le parvenze di una sanguinaria toga rossa. 

giovedì 5 maggio 2016

Cerchiamo di non ridicolizzare il garantismo

Gianluca De Feo (la Repubblica, 4.5.2016) scrive di aver letto le carte e di non aver bisogno che si celebri il processo per esser certo che Simone Uggetti abbia commesso «un reato grave», ma di ritenere eccessiva la misura cautelare della sua detenzione in carcere in attesa che il processo si celebri. In linea di principio, direi che fili, perché chi ha certezze da giudice di Corte di Cassazione può ben permettersi di fare un cazziatone a un gip. In pratica, però, direi non fili troppo, perché De Feo è solo un giornalista. Garantista, si potrebbe aggiungere, se non fosse che non attende neppure il primo grado di giudizio per dichiarare fondato, e «tutto fondato», limpianto accusatorio del pm. In realtà, nemmeno aspetta che lavvocato difensore di Uggetti apra bocca per aver modo di dimostrare che eventualmente non lo sia: per esser certo che Uggetti abbia commesso «un reato grave» – un reato «che mina la competitività del sistema economico, favorendo l’arricchimento di cricche e camarille» – gli basta «la denuncia di una funzionaria, che ha registrato le riunioni con il sindaco, le email che la testimone ha consegnato, le intercettazioni telefoniche [che] descrivono con chiarezza la manipolazione del bando e la spregiudicatezza con cui un professionista interessato all’appalto entrava negli uffici e partecipava alla stesura del capitolato». Ma neanche è tutto, perché riesce a produrre perfino un argomento in favore della misura cautelare del carcere, che però – incomprensibilmente – contesta: riconosce che «Uggetti e il professionista riescono a venire a conoscenza dell’indagine e tentano di cancellare le prove», ma cosa recita lart. 274 del Codice di Procedura Penale? La misura cautelare è legittima – si legge – «quando sussistono specifiche ed inderogabili esigenze attinenti alle indagini relative ai fatti per i quali si procede, in relazione a situazioni di concreto ed attuale pericolo per lacquisizione o la genuinità della prova». Perché non gli arresti domiciliari, invece del carcere? Nel suo dispositivo il gip lo spiega, e De Feo ne prende atto – «con l’attuale progresso tecnologico è impossibile monitorare e controllare gli indagati» – ma sembra che la spiegazione non lo convinca troppo, anche se poi non riesce ad obiettare altro che allora si tratterebbe di «una valutazione sull’obbligo del carcere che può essere applicata a chiunque». E anche qui sbaglia, perché non tutti gli indagati vengono pizzicati a confabulare al telefono sul miglior modo per far sparire dai loro pc le prove del reato che hanno commesso e del quale in sostanza si autoaccusano: è con questa condotta che si realizza un «concreto ed attuale pericolo» a danno di un giusto processo, condotta che direttamente o indirettamente può essere agevolmente reiterata avendo a disposizione anche i più elementari strumenti elettronici di cui ogni casa è ormai piena.
Un garantista un po confuso, direi, ma è ancora niente a confronto di Francesco Merlo (la Repubblica, 5.5.2016), che riprende gli stessi argomenti e li pompa a dismisura, senza per questo renderli più convincenti. Vale la pena, tuttavia, di farsi largo nella lussureggiante selva del suo articolo per affrontare un altro tema che pure era stato sollevato da De Feo, ma non con gli stessi toni febbricitanti. Dove, infatti, il gip ha scritto che «la personalità negativa dei due imputati porta a ritenere con decisa verosimiglianza che gli stessi abbiano potuto sistematicamente gestire la cosa pubblica con modalità illecite», a De Feo sembra che «si pass[i] dalla presunzione di innocenza alla presunzione di colpevolezza, senza che negli atti ci sia anche una sola traccia di altri crimini». In realtà, una «verosimiglianza», ancorché «decisa», non fa capo di imputazione, mentre è del tutto evidente che una pratica illecita resa possibile da un ruolo o da una funzione sia illimitatamente reiterabile al persistere delle condizioni che rendono attivi quel ruolo o quella funzione. Così per quanto si porrebbe con laffermare che i due imputati abbiano dato segno di «personalità negativa» o, come tiene a sottolineare Merlo citando un altro passaggio del dispositivo firmato dal gip, «abietta e negativa»: robe – scrive Merlo – che «avrebbero spaventato Robespierre e confortato Stalin». Un giudizio morale o, peggio, psicologico? Manco per niente: laggettivo «abietto» è duso comune nel Codice Penale, mentre il termine «personalità» vi ricorre con analoga frequenza senza che abbia alcun riferimento allambito morale o psicologico del soggetto interessato, ma solo a quello relativo allesercizio della sua capacità giuridica. Merlo si straccia le vesti per uno scandalo che non sussiste: il gip si è limitato a considerare che il reato di cui i due indagati si sono autoaccusati «desta notevole allarme sociale» in forza della «sua gravità e negatività, per le ricadute pubbliche che comporta», e che, commettendolo, essi «hanno dimostrato assoluta spregiudicatezza non solo nelle modalità concrete tenute nel delinquere, ma portando avanti con protervia i loro fini, intraprendendo attività volte a distruggere ed eliminare tracce del loro accordo illecito». E che cè di tanto scandaloso nellaffermare questo?
Benedetto sia il garantismo, sempre, ma cerchiamo di non ridicolizzarlo a questo modo. A differenza di De Feo e di Merlo, per i quali pare scontato che Uggetti e il suo compare siano colpevoli del reato loro ascritto, anche se poi si tratterebbe solo di poche migliaia di euro, quindi basterebbe una tiratina d’orecchio ciascuno perché la società possa sentirsi risarcita del danno inflitto alla credibilità delle istituzioni, prim’ancora che all’erario pubblico – a differenza di De Feo e di Merlo – io non so se quei due siano colpevoli o meno. Per meglio dire, ne ho una mezza idea, ma aspetto un’eventuale condanna definitiva per dire che sono due mariuoli. Perché sia una condanna giusta, se condanna avrà da essere, voglio che gli elementi di prova non siano inquinati o addirittura sottratti alla formazione di un corretto giudizio, sarebbe altrettanto grave che se ne producessero di falsi per condannarli ingiustamente: ogni garanzia in favore degli indagati non può e non deve ostacolare la formazione di un corretto giudizio. Benedetto il garantismo, dunque, ma evitiamo che il garantista si riduca alla patetica macchietta del portaborse dellavvocato difensore.

mercoledì 4 maggio 2016

martedì 3 maggio 2016

[...]

Intervistato da Cazzullo (Corriere della Sera, 3.5.2016), Napolitano dà forza al sospetto che la vecchiaia non sia affatto il prezioso tabernacolo di virtù descrittoci da Cicerone e da Seneca, ma solo il prepuzio in cui si ritrae il vizio che la gioventù ha orgogliosamente esibito in tutto il suo turgore. Così, come da giovane definiva «spregevoli provocatori» gli ungheresi in rivolta contro la dittatura comunista, salutando larrivo dei carri armati sovietici come «contributo alla pace nel mondo», oggi Napolitano liquida come «conservatori» i contrari allo scempio della Costituzione.
Se non «conservatori», «perfezionisti»: a dire che la merda è merda, vuol dire che si è incontentabili. Se non «conservatori», se non «perfezionisti», intellettualmente disonesti: «si colpisce la riforma per colpire Renzi». Ma chi, se non lo stesso Renzi, ha inteso fare del referendum che si terrà in ottobre un plebiscito sulla sua persona? Sì, è vero, «Renzi non avrebbe dovuto dare questa accentuazione politica personale», ma, «prima del voto definitivo sulla legge ha corretto il tiro, ha evitato quella accentuazione, è entrato nel merito», fa niente che un minuto dopo abbia ricominciato a dire che a ottobre si giocava il culo e la faccia, dimostrando ancora una volta che in lui coincidono.

Sempre lo stesso, Napolitano: diligentemente fascista, fino a quando il fascismo resse; diligentemente togliattiano, fino a quando Togliatti fu vivo; di simpatie craxiane, quando Craxi era allo zenith; cantore della questione morale ai tempi di Mani pulite; gradito a Berlusconi il tanto che bastasse a non buscarsi un veto per il Quirinale; e ora renziano, sennò che altro?
Il governo Renzi procede a colpi di decreti sui quali mette di continuo la fiducia? Tutto normale, finito il tempo in cui «le distinzioni e le garanzie già fissate nella nostra Costituzione, e in leggi di particolare rilevanza istituzionale, vanno rigorosamente rispettate [perché non venga meno] il ruolo di indirizzo e di controllo del Parlamento, della sua autorità e dignità di suprema rappresentanza democratica [altrimenti mortificate dai] comportamenti di governo [che invece è tenuto ad un] ossequio non formale, alieno da insofferenze e arroganze, alle prerogative delle Camere» (Dove va la Repubblica, Rizzoli 1994 - pag. 180).
Referendum del 17 aprile: Renzi invita allastensione? L’invito è legittimo. Nel 2005 non lo era: era un «venir meno a una norma di comportamento fondamentale, che è quella del sollecitare i cittadini a esprimersi» (Radio Radicale, 8.6.2005).
Anche quando sembrerebbe avere riserve sugli atti del governo Renzi, è solo per esortare a votare tutte le schifezze che scodella, poi eventualmente si miglioreranno, le opposizioni saranno benevolmente invitate a dare una mano, e chissà che questo non possa creare il clima favorevole a un tanto atteso Partito della Nazione: così l’anno scorso con l’Italicum, così oggi con la riforma costituzionale, perché, sì, è legittimo che si abbiamo riserve, ma è indispensabile approvarla, e poi, «una volta approvata, bisognerà mettersi al lavoro per costruire davvero questo nuovo Senato, e trarre dall’esperienza le possibili conseguenze».

Genuinamente renziano, dunque: fare per fare, e fare subito, poi eventualmente, se intanto non ci è caduto tutto addosso, si tappano i buchi, ma intanto fare, fare, fare, ché, «se si affossa anche questo sforzo di revisione costituzionale, allora è finita: l’Italia apparirà come una democrazia incapace di riformare il proprio ordinamento e mettersi al passo con i tempi». Come sottovalutare l’allarme chi ha sempre dimostrato di saper essere al passo coi tempi, e tutti i tempi?

lunedì 2 maggio 2016

Questa riforma costituzionale è incostituzionale

Una sentenza della Corte costituzionale, la n. 1146 del 29 dicembre 1988, recita: «La Costituzione italiana contiene alcuni principi supremi che non possono essere sovvertiti o modificati nel loro contenuto essenziale neppure da leggi di revisione costituzionale o da altre leggi costituzionali. Tali sono tanto i principi che la stessa Costituzione esplicitamente prevede come limiti assoluti al potere di revisione costituzionale, quale la forma repubblicana, quanto i principi che, pur non essendo espressamente menzionati fra quelli non assoggettabili al procedimento di revisione costituzionale, appartengono allessenza dei valori supremi sui quali si fonda la Costituzione italiana». È quanto basta perché la riforma costituzionale votata da questo Parlamento possa essere messa in discussione, fino ad essere dichiarata costituzionalmente illegittima, anche se venisse confermata dallesito del referendum che si terrà ad ottobre: sarebbe sufficiente dimostrare che quanto è stato riscritto, nel dettaglio o nel complesso, sovverta o modifichi, nel suo contenuto essenziale, uno o più principi non assoggettabili al procedimento di revisione. La stessa sentenza della Corte costituzionale, daltronde, rammentava di aver «già riconosciuto in numerose decisioni come i principi supremi dellordinamento costituzionale abbiano una valenza superiore rispetto alle altre norme o leggi di rango costituzionale», riaffermando di essere «competente a giudicare sulla conformità delle leggi di revisione costituzionale e delle altre leggi costituzionali», perché, «se così non fosse, si perverrebbe allassurdo di considerare il sistema di garanzie giurisdizionali della Costituzione come difettoso o non effettivo proprio in relazione alle sue norme di più elevato valore».
Ciò premesso, si potrebbe già passare, articolo per articolo, allanalisi del testo costituzionale così come riscritto dalla banda di mascalzoni da oltre due anni inserrata a Palazzo Chigi e approvato dal Parlamento di cooptati sub condicione consegnatoci dal Porcellum. Lo faremo, fino a ottobre cè tempo, daltronde non sarebbe neanche necessario, perché fin qui non è mancato chi ha segnalato più di un vulnus ai principi contemplati dalla I parte della Costituzione in un testo che peraltro abbonda di fumose ambiguità e sconcertanti paradossi, al netto di un lessico di merda, che rivela tutta la zoticaggine di chi lha steso. Tutto sommato, però, sarà superfluo: da un lato, è nel suo insieme che questa riforma costituzionale è incostituzionale, dallaltro, solo la Corte costituzionale è autorizzata a sancirlo. Non sto affermando che il referendum di ottobre sia inutile: è di piana evidenza che una vittoria dei no farebbe a pezzi la riforma. Di fatto, tuttavia, una vittoria dei sì non ne assicurerebbe la tenuta al vaglio della Consulta, anche se potrebbero volerci due o tre anni prima di mandarla al macero.
Anche nel caso del referendum confermativo, dunque, come ampiamente discusso su queste pagine nel caso di quello abrogativo, il risultato della consultazione non sarebbe dirimente. E meno male, vorrei aggiungere. Dove un popolo smarrisce ogni dignità, è più che sacrosanto perda ogni sovranità, è più che ovvio perda voce in capitolo sui fondamenti della legge, è più che naturale – direi salutare – una supplenza della magistratura.

Flatus vocis

È credibile che nessuno, a Palazzo Chigi, sapesse che Federica Guidi fosse moglie, fidanzata, semiconvivente o sguattera, che dir si voglia, di Gianluca Gemelli? Ma certo che è credibile, figuriamoci se in Consiglio dei Ministri, con tutta quella fregola del fare per fare, presi com’erano, tutti quei cervelloni, da una riforma costituzionale come quel bel po di riforma costituzionale, da un Job Acts come quel bel po di Job Acts, da un Italicum come quel bel po di Italicum, abbiano mai avuto un attimo di tempo per frivoli pissi-pissi erotico-sentimentali. No, mi ci gioco un coglione: nessuno sapeva, e poi quell’emendamento era bello di suo.
Per questo non ho difficoltà a giocarmi anche l’altro coglione sul fatto che nessuno, a Palazzo Chigi, sappia del tenero idillio che, almeno a detta delle più perfide malelingue di Afragola e dintorni, pare a tutt’oggi stringa un ministro e un’aspirante alla guida di uno dei municipi in palio alle imminenti elezioni amministrative.  Poco probabile che l’amante del ministro diventi sindaco, poi  va a sapere se il flatus vocis corrisponda al vero, va a sapere quanto ci acchiappino, i sondaggisti. Però già immagino il contenuto di eventuali intercettazioni telefoniche tra i due, e il voyeur sopito in me fa il tifo per il povero ministro: «Mi tratti come un toy boy di Capoverde...»

giovedì 28 aprile 2016

Paralisi

Dal ribaltamento sintattico dei luoghi comuni (per esempio, «luomo è il miglior amico del cane») e dalla conversione lessicale di uno o più elementi che in essi sono inclusi (per esempio, «il pesce puzza dalla coda»), per conseguente e pressoché costante effetto ironico, iperbolico o paradossale, si ricavano spesso delle inaspettate e sorprendenti perle di saggezza che dimprovviso illuminano aspetti del reale che la frase fatta, il motto, il proverbio, la sentenza, ma anche la semplice espressione idiomatica, sembrano allora come aver voluto fin lì occultare sotto la rassicurante coltre di ovvio che conferiva loro autorità. È per questo che, anche quando non è intenzionale, il risultato di queste operazioni assume spesso un tratto dissacrante, talvolta perfino eversivo, comunque di sfida, così comè con quelle che sono di comune impiego nellenigmistica (bisenso, scarto, cambio, zeppa, metatesi, ecc.), dove il fine è quasi esclusivamente posto nella sorpresa. Altre volte, tuttavia, rovesciare il concetto espresso da un luogo comune non aggredisce affatto il fondo di realtà di cui ogni luogo comune, anche il più abusato, può a buon diritto dichiararsi depositario, con ciò riuscendo solo a offrirsi come prova che ogni tentativo sia inutile, e che quel fondo di realtà sia inattaccabile, sicché assume la funzione del buffone a corte, cui è concesso e perfino richiesto che sia irriverente nei confronti del re, ma solo perché sia data prova di quanto sia ridicolo ogni tentativo di lesa maestà. Così accade anche con la satira di regime, che non a caso si serve spesso di strumenti opportunamente smussi, com’è nel caso della parodia dell’oppositore. Un esempio è offerto dal tweet di ...

Uno prova ad argomentare, poi arriva il tizio che, cacchio cacchio, tomo tomo, al tweet di ... risponde: battuta che manco mi nonna, pure senza apostrofo, e ti risparmia il post, però rimani paralizzato per due giorni. 


lunedì 25 aprile 2016

Parla il Papa

Allora dieci, cento, mille Davigo

Vorrei parlare dellintervista che Piercamillo Davigo ha concesso ad Aldo Cazzullo (Corriere della Sera, 22.4.2016), ma mi sono indispensabili due premesse, senza le quali temo sarei pesantemente frainteso. Non escludo affatto che sarò frainteso lo stesso, ma premettere quanto segue mi farà sentire con la coscienza a posto. Cercherò di essere breve.
Tempo fa, su queste pagine, scrivevo che «la caricatura del giustizialista è un gioco da ragazzi», mentre col garantista è molto più difficile. La maschera del giustizialista è «ciliosa, biliosa, ha labbra strette, reca lo stampo di un cruccio perenne che si stempera in un malvagio sorriso di soddisfazione, sempre spietata, solo quando vede il cappio stringersi al collo del colpevole, anche quando è solo presunto tale», ma comè, mi domandavo, «la maschera del tizio che pretende sempre tre gradi di giudizio per dire colpevole chi è colto in flagrante, e che dinanzi all’intercettazione telefonica nella quale un criminale si autoaccusa di un delitto solleva la questione se mettergli la cimice sia stato lecito, e che riesce sempre a trovare un diritto negato a ogni fetente della peggior risma, e più fetente è, più sembra andare in brodo di giuggiole a trovargliene uno da spendersi per garantirglielo?». Bene, direi che unottima caricatura del garantista ci è stata offerta da quanti hanno reagito allintervista di Piercamillo Davigo cadendo in convulsione isterica.
Seconda premessa. Suonerà patetico, so bene, ma io continuo a credere nella democrazia e nel liberalismo. Ormai sono irriconoscibili, non c’è bisogno di farmelo notare, concedo che negli ultimi trent’anni abbiano dato il peggio, finendo per dar ragione perfino a chi afferma che siano impossibili in assoluto e incompatibili l’una all’altro. Ci sarà chi mi vorrà convincere che il guasto è intrinseco alla loro stessa natura, e anche qui io non solleverò obiezioni: basta un niente, e la democrazia si svuota per lasciar di sé al massimo la forma, pronta a riempirsi di orribili schifezze, e così il liberalismo, che troppo spesso offre spiragli a tutto ciò che è illiberale, finendo per tollerare, come unica diversità, la diseguaglianza. Non farò come i marxiani, che in nessuno degli esempi offerti dalla storia riconoscono il vero socialismo (altra cosa dai marxisti, che spesso si accontentano anche del peggio), né farò come i cristiani, che per la comprensione di quanto sia perfetta la creazione rimandano a quanto ci sarà rivelato dopo la morte, ma solo se da vivi ne sopportiamo i difetti e rinunciamo a metterci mano: democrazia e liberalismo sono solo metodi, non reggono in virtù di una teoria che gli dà un fine ultimo, né tanto meno reggono sulla forza di una fede che sospenda il giudizio sui dati dellesperienza. Democrazia e liberalismo reggono solo sul rispetto delle leggi che ne impediscono il fallimento, e nulla più della corruzione lo favorisce: con la corruzione che alimenta linteresse personale nell’adempimento di una funzione pubblica, il principio della rappresentanza viene minato alla base; con la corruzione che altera la misura del merito nelle dinamiche della libera concorrenza, il mercato diventa un tritacarne. Lassassino ne uccide uno, due, dieci, cento, ma il patto tra corrotto e corruttore ferisce tutti.
Vabbè, volevo essere breve, e non ci sono riuscito. Vorrà dire che invece di analizzare frase per frase ciò che Piercamillo Davigo ha detto ad Aldo Cazzullo, mi limiterò a considerare solo il passaggio che ha sollevato più polemiche: «Non hanno smesso di rubare; hanno smesso di vergognarsi. Rivendicano con sfrontatezza quel che prima facevano di nascosto. Dicono cose tipo: “Con i nostri soldi facciamo quello che ci pare”. Ma non sono soldi loro; sono dei contribuenti».
È sembrato fosse unodiosa generalizzazione, laffermazione di una presunzione di colpevolezza per tutta la classe politica italiana. Impressione errata, a mio modesto avviso. Volutamente errata, forse, nel tentativo di far quadrato contro quello che così potesse essere denunciato come il tentativo di una generale condanna preventiva. Sta di fatto che allappello hanno risposto solo i partiti che hanno fra i loro eletti il maggiore numero di indagati, rinviati a giudizio e condannati in primo grado o in via definitiva, con ciò dando conferma di quanto il presidente dellAnm aveva detto appena due giorni prima, e proprio a smentire ogni insinuazione di vulnus al diritto: «La presunzione d’innocenza è un fatto interno al processo, non c’entra nulla coi rapporti sociali e politici» (Il Fatto Quotidiano, 20.4.2016). La responsabilità penale è personale, certo, ma, dinanzi al reato come costante sistemica, cè una responsabilità politica che è di sistema, ed è in tale sistema che «non esistono innocenti, ma solo colpevoli non ancora scoperti». Quando la classe politica non è in grado di darsi strumenti per prevenire la corruzione, prima, ed emarginare i corrotti, poi, è colpevole: contro la democrazia, contro il liberalismo. Quando in favore dell’indagato, dell’imputato, del condannato, se appartenente alla classe politica, la garanzie diventano guarentigie, il garantismo diventa una maschera, anche parecchio grottesca. Allora dieci, cento, mille Davigo.

domenica 24 aprile 2016

La fine dell’assoluto

Riproduco qui sotto il primo e lultimo capoverso dellarticolo a firma di Edoardo Boncinelli che oggi è su la Lettura (Corriere della Sera, 24.4.2016), a prolegomeno per ogni ciancia metafisica.


venerdì 22 aprile 2016

[...]


«L’italiano non è l’italiano: è il ragionare»
Leonardo Sciascia, Una storia semplice (1989)

Quando si parla di analfabetismo funzionale, ci si limita a considerare l’incapacità di comprendere un testo relativamente semplice, produrne uno sufficientemente adeguato a esprimere quanto sia nelle intenzioni di chi scrive, eseguire calcoli anche estremamente facili e risolvere problemi non eccessivamente complicati – incapacità che per ciascuna delle dette operazioni è opportunamente valutabile grazie a test che ne rivelano la gravità caso per caso – come espressione di un mero deficit di nozioni, che per quanto attiene al leggere e allo scrivere sarebbero grammaticali, sintattiche e lessicali, quasi che il problema debba ritenersi relativo solo al grado di istruzione, e in sostanza all’acquisizione, al corretto uso, alla necessaria manutenzione degli utensili impiegati per comunicare, dimenticando che a informare la struttura del linguaggio sono le leggi della logica, sicché non è affatto azzardato affermare che a ogni analfabeta funzionale corrisponda un individuo che non ragiona affatto o che ragiona male.
Questo primo capoverso poteva essere spezzettato in dieci frasi per renderne più agevole la lettura? Senza dubbio, ma a che scopo? Per non pretendere dal lettore una continuità di attenzione che già a un terzo della sua lunghezza – concedo – può risultare faticosa. È così che deve aver preso piede la premura di costruire frasi brevi: dal tronco della proposizione principale vengono potate le coordinate, le subordinate e le incidentali, senza togliere efficacia comunicativa al testo, sia chiaro, ma rinunciando a dargli una forma che corrisponda allarticolazione logica che lo sostiene. In altri termini, la scelta è quella di disarticolare i processi logici, ritenendo che non sia essenziale assicurarne la continuità per dar ragione del loro sviluppo. Daltronde, se si ha contezza del fatto che di analfabetismo funzionale soffre oltre l’80% degli italiani (nella sua forma più grave la percentuale è del 47%), non cè altra scelta: occorre rinunciare a produrre testi che impongano al lettore la fatica di ragionare. Non mi si fraintenda: con una scrittura semplice, non faticosa, si possono adeguatamente esprimere concetti anche assai complessi, senza che limpianto argomentativo venga a perdere solidità, né che venga meno la possibilità di saggiarla. Di fatto, tuttavia, il saggiarla implica dover ricostruire il processo attraverso il quale limpianto argomentativo è venuto a strutturarsi. Poco male, si dirà, in fondo nulla andrà perso. Certo, ma solo per chi sarà in grado di riattaccare i rami al tronco: lanalfabeta funzionale non ne sarà capace, anzi, neppure ne comprenderà il senso. Si saranno così create le premesse perché a persuaderlo possa bastare ciò che pensa di aver capito, laddove il testo gliene offra occasione, poco importa quanto reale. La breccia sarà fatta per lasciare passare non solo paralogismi e tautologie, ma anche argomenti validi, se però esposti in modo didattico, il che giocoforza presuppone la disponibilità ad assegnare autorità senza poterne valutare pienamente la legittimità.
Il primato europeo di analfabetismo funzionale di cui lItalia continua ad essere lincontrastata detentrice fin dalla prima indagine effettuata sul fenomeno non è, dunque, solo un problema strettamente culturale, ma anche, e forse soprattutto, una questione antropologica, tanto più rimarcabile in quanto tale per lenorme divario che la separa dagli altri paesi: a dispetto degli autori che ci hanno scoraggiato dalla costruzione di quegli idealtipi cui si dà il nome di «carattere», quello italiano esiste, e ha una ben distinguibile cifra identitaria, che è l’incapacità di ragionare

martedì 19 aprile 2016

Bah, chissà, forse la fretta

I tecnici nominati dalla Procura di Vibo Valentia ritengono in via preliminare che gli incidenti verificatisi sul tratto della Salerno-Reggio Calabria ora sottoposto a sequestro cautelativo siano dovuti a difetti nella realizzazione delle opere di ammodernamento che di recente vi sono state apportate. Bah, vedremo come andrà a finire, può darsi che tutte quelle morti siano dovute solo al caso e che limpresa incaricata dei lavori non abbia alcuna responsabilità dellaccaduto. Certo, se ne avesse, sarebbe legittimo chiedersi cosa possa aver causato gli errori di progettazione e di messa in opera. Chissà, forse la fretta. Sappiamo, infatti, che entro il 22 dicembre la A3 deve essere completata, perché linquilino di Palazzo Chigi possa inaugurarla, come ha promesso lo scorso febbraio, quando allannuncio in conferenza stampa tutti gli hanno riso addosso, e allora – mirabile visu – sulle sue gote si è colto un lieve accenno di rossore, del tipo che si osserva in certe balaniti: quelloltraggio alla sua credibilità può averlo spinto a mettere il pepe al culo ai responsabili dei cantieri aperti sulla A3, e si sa che col pepe al culo lerrore scappa sempre. Fare per fare, e fare in fretta, di rilancio in rilancio, in perenne sfida: è la filosofia di Matteo Renzi, i morti nella galleria Tremisi-San Rocco ne sarebbero i paralipomeni.

lunedì 18 aprile 2016

Guerri su Buonaiuti


Rammentandoci che il 20 aprile ricorre il 70° anniversario della morte di Ernesto Buonaiuti, Giordano Bruno Guerri ne tratteggia la figura di intellettuale che subì feroci persecuzioni da parte del papato, chiudendo il suo articolo con l’auspicio che Bergoglio ne faccia ammenda, tanto più doverosa da parte di Bergoglio perché è proprio il suo pontificato ad aver dato segno di «voler recuperare lo spirito più profondo del messaggio di Buonaiuti», e poi perché Bergoglio è un gesuita, e proprio i gesuiti furono i suoi più accaniti detrattori (Adesso Papa Francesco perdoni l’«eretico» Buonaiuti - il Giornale, 18.4.2016).
L’auspicio sembra assai sentito, d’altronde basta aver letto la biografia di Buonaiuti che Guerri diede alle stampe tempo fa (Eretico e profeta, Mondadori 2001) per capire quanta compassione abbiano suscitato in lui i torti subìti dall’«esponente più importante del modernismo» qui in Italia. Né sembra strumentale, l’auspicio, anche se le posizioni anticlericali di chi lo formula sono note, perché, da storico che non si è mai adeguato a una conformistica lettura del fascismo, Guerri non dimentica di denunciare anche i torti che Buonaiuti subì dal regime fascista (tutte recepite, in occasione del Concordato e dei Patti Lateranensi, le richieste vessatorie avanzate dal Vaticano nei suoi confronti), né, da liberale, fa sconti ai liberali, Croce in testa, che per la sorte di Buonaiuti spesero solo indifferenza («pensando a torto che si trattasse di battaglie che non riguardavano la vita laica»).
Tutto bene, diremmo, se non fosse che in quarta di copertina, sulla prima edizione della biografia di Buonaiuti, si legge: «non potrà mai essere perdonato dalla Chiesa: o eretico o santo». Che, da un lato, rivela la piena comprensione delle ragioni che ancora oggi costringono la Chiesa a rigettare i capisaldi del modernismo (evoluzione creatrice, lettura storico-critica delle Scritture, recupero dell’ecclesiologia del primo cristianesimo, ecc.) con una fermezza di cui invece si sente in grado di poter fare a meno quando fa l’ecumenica con ortodossi, anglicani e lefebvriani, e, dall’altro, esprime in modo plastico la coincidenza di strategia e di tattica nel modo che essa adotta per riscrivere la sua storia. Proprio perciò, e in virtù del suo quasi sfacciato candore, l’auspicio appare sottilmente provocatorio. 

Come diceva il poeta

Sette italiani su dieci, ieri, hanno disertato le urne. Trattandosi di un referendum, direi che le ragioni – valide o meno, a piacere – possano ridursi alle seguenti, ma senza che ciascuna escluda necessariamente le altre:
(1) rigetto di ogni forma di voto, come espressione di sfiducia nel metodo democratico o addirittura di ripudio del principio che lo informa;
(2) rigetto del voto referendario, per generica contrarietà ad ogni forma di democrazia diretta, per specifico dissenso al senso che questa assume nello strumento del referendum, per sfiducia maturata dall’esperienza delle numerose volte in cui l’esito del voto è stato disatteso;
(3) rigetto del quesito posto in questa occasione, perché non adeguatamente compreso, perché ritenuto di peso irrilevante, perché considerato strumentale, perché non proposto da 500.000 cittadini, ma da 9 regioni;
(4) contrarietà all’evenienza che dalle urne uscisse vincitore il sì e conseguente scelta di far forte il no con l’astensione motivata dalla somma delle suddette ragioni.
È ovviamente impossibile discernere in quota percentuale quanto abbia pesato l’una o l’altra ragione nel mancato raggiungimento del quorum, ma un astensionismo ormai stabile intorno al 30-40% per ogni genere di consultazione elettorale tenutasi negli ultimi dieci anni, con un marcato incremento quando si trattava di referendum, consente di ridimensionare il peso tutto apparente che assume la pur incontestabile vittoria di chi voleva che andasse come è andata.

Relativamente più semplice è l’elenco delle ragioni che hanno portato alle urne i restanti tre italiani su dieci:
(1) c’era chi non diserta mai il voto, perché lo ritiene un dovere civico, non intende venirvi meno neppure se ha coscienza che ormai conta sempre meno, e va a votare sempre, anche se non ha le idee ben chiare, dove probabilmente lascia la scheda in bianco;
(2) poi c’era chi, a torto o a ragione, pensava di aver chiara la questione che era in gioco, e su quella intendeva esprimere la propria idea, ritenendo indispensabile darle un peso col voto, sia per votare sì, nel tentativo di abrogare una norma ritenuta ingiusta, sia per votare no, perché indisposto a vederla confermata dal mancato raggiunto del quorum o disposto a vederla confermata anche in quel modo, ma personalmente indisposto a servirsene;
(3) infine c’era chi al voto riconosceva la legittimità del valore strumentale che era venuto assumendo come espressione di sfiducia al governo, poco importa se per la natura stessa del quesito o per la sfida lanciata da Matteo Renzi col suo invito all’astensione.
Anche qui è difficile separare una ragione dall’altra per assegnare a ciascuna il proprio peso percentuale, sta di fatto che l’invito di Matteo Renzi all’astensione rende in qualche modo omogeneo il 32,15% che si è recato alle urne, conferendogli un profilo politico che il 67,85% che se n’è tenuto lontano non ha. In buona sostanza, questo referendum ha creato un collante tra chi è andato a votare perché l’indifferenza è un peccato mortale, chi ci è andato pensando a cazzo di cane che il suo voto servisse a salvare l’albatros dall’atroce agonia in una pozza di catrame e chi invece l’ha fatto semplicemente perché sperava di poter vedere Matteo Renzi schiattare di rabbia: un collante che manca alle componenti dell’elettorato astensionista, sul quale oggi il buffone ha buon gioco a puntare i piedi, ma che in realtà è meno affidabile della superficie delle sabbie mobili. In più, non è da sottovalutare l’effetto frustrante di un mancato quorum in chi è andato a votare, non importa quale fosse il motivo che portasse alle urne.

In definitiva, direi che il fine immediato posto dal referendum, come ampiamente previsto, è senza dubbio fallito, ma quello che, scientemente o meno, gli era insito alla media e lunga distanza ha trovato pieno successo, come ne ha dato plastica dimostrazione la conferenza stampa tenuta da Matteo Renzi, dove la voglia di incassare il risultato è stata cautamente raffrenata da toni di ricomposizione: la vittoria non era del governo, ma dei lavoratori addetti alle trivelle; la sconfitta non era di chi era andato a votare, ma di chi ce l’aveva portato. Può darsi che questo tentativo di blandire il risentimento dei tanti che sono stati sbeffeggiati dai suoi sgherri possa avere qualche effetto, ma l’impressione è che con la vittoria ottenuta ieri, soprattutto col modo in cui se l’è procurata, Matteo Renzi abbia dato un altro colpo di vanga allo scavarsi la fossa nella quale sarà seppellito vivo. Non è dato sapere quando, e comunque non è ragionevole pensare che accadrà presto, in fondo quella italiana è plebe dai riflessi assai ottusi, quasi spenti.
«E poi perdere ogni tanto ci ha il suo miele», come diceva il poeta. Che aggiungeva: «si pianga solo un po’ perché è un peccato e si rida poi sul come andrà a finire»; «la ragione diamo e il vincere ai coglioni, oppure ai bari»; «ne abbiam visti geni e maghi uscire a frotte per scomparire»; «ghignando ce ne andremo pian pianino per sederci lungo il fiume ad aspettare»... Conviene riascoltare tutta la sua poesia.


Per oggi abbandoniamoci al lirismo, via, ché poi, quando verrà il momento di saldare i conti non ce ne sarà tempo, né motivo.