È
da decenni che la ascolto per diverse ore al giorno, ma soprattutto
amo perdermi nel suo sterminato archivio. Poi c’è
che certe sue rubriche mi sono diventate appuntamento fisso,
inderogabile: Cindia
di Claudio Landi, Prime
pagine
di Enrico Rufi, Derrick
di Michele Governatori, giusto per citare le prime che mi vengono in
mente. E poi le voci: ci sono voci – Lembo, Jannuzzi, Punzi... –
che ormai mi sono diventate familiari come i ronf-ronf di Steve e
Brian (a chi non lo sapesse, sono i miei gatti). Fosse a pagamento,
insomma, pagherei, e anche molto, se necessario. Mi è d’obbligo,
quindi, spezzare una lancia in favore di Radio Radicale, che a fine
maggio potrebbe interrompere le sue trasmissioni. Non lo farò, però,
unendomi al coro di quanti pensano che questa sciagura – perché di
vera sciagura si tratterebbe – si possa scongiurare con i
piagnucolosi appelli dell’onorevole
acondroplastico o dell’attricetta
col birignao: ma vi pare che i barbari possano essere sensibili a una
tal perdita? Non so quali siano i reali motivi che stanno dietro alla
scusa del dover fare economie, potrebbe trattarsi di una mossa nel
più generale piano di dare una stretta alla libertà di
informazione, ma pure di un calcio nei coglioni a chi ogni mattina dà
del «Truce»
a questo e del «Giggino»
a quello, in ogni caso temo che i gialloverdi procederanno senza
ripensamenti, e dunque urgono soluzioni d’altro
genere. A questo mira il post: a esporre una proposta. Che però
necessita di una premessa, senza la quale potrebbe sembrare balzana.
Non stupisca quanto sto per dire dopo aver dichiarato la mia
dipendenza da Radio Radicale: una valida soluzione del problema può
essere trovata solo sgombrando il campo da passioni e pregiudizi. E
dunque.
Nel
panorama radiofonico italiano, che oggi è dato da poco più di 250
emittenti tra pubbliche e private per un totale di radioascoltatori
in media di 34.703.000 al giorno (Radio Ter 2018), Radio Radicale
assume un ruolo analogo a quello del giornalista politico così come
descritto da Enzo Forcella in Millecinquecento
lettori:
«Un giornalista
politico, nel nostro paese, può contare su circa millecinquecento
lettori: i ministri (tutti), i parlamentari (parte), i dirigenti di
partito, sindacalisti, alti prelati e qualche industriale che vuole
mostrarsi informato. Il resto non conta, anche se il giornale vende
trecentomila copia. Prima di tutto non è accertato che i lettori
comuni leggano le prime pagine dei giornali, e in ogni caso la loro
influenza è minima. Tutto il sistema è organizzato sul rapporto tra
il giornalista politico e quel gruppo di lettori privilegiati.
Trascurando questo elemento, ci si esclude la comprensione
dell’aspetto
più caratteristico del nostro giornalismo politico, forse
dell’intera
politica italiana: è l’atmosfera
delle recite in famiglia, con protagonisti che si conoscono fin
dall’infanzia,
si offrono a vicenda le battute, parlano una lingua allusiva e, anche
quando si detestano, si vogliono bene. Si recita soltanto per il
proprio piacere, beninteso, dal momento che non esiste pubblico
pagante».
L’analogia
è innanzitutto nei numeri: nel 2013, su un totale di 34.853.000
radioascoltatori al giorno, Radio Radicale ne aveva 294.000; l’anno
dopo ne aveva 244.000 su 34.314.000, con un calo del 20,5%; nessun
dato dal 2015 in poi, per la decisione di sospendere l’iscrizione
alle indagini di ascolto (occhio non vede, cuore non duole).
Altra
analogia è quella dei «lettori
privilegiati»,
come è evidente dall’elenco
dei bei nomi che in queste ultime settimane si stanno spendendo
perché venga ritirata la decisione del governo di dimezzare i fondi
da decenni assicurati a Radio Radicale per la trasmissione delle
sedute parlamentari, che la costringerebbe a chiudere i battenti: al
momento mancano solo gli «alti
prelati» al
trasversalissimo parterre
des rois,
ma non è detto che in
extremis
non vogliano dare anch’essi
il loro aiuto, visto che spesso sono stati tra i «protagonisti»
di quelle «recite
in famiglia» in
cui si finge di detestarsi, in fondo volendosi un gran bene.
Recite
in cui Radio Radicale ha sempre avuto l’agio
di interpretare sulla stessa scena il doppio ruolo di «organo
della Lista Marco Pannella»
e di «impresa
radiofonica che svolge attività di informazione di interesse
generale»,
godendo
della vantata contraddizione di stare «dentro,
ma fuori dal Palazzo»,
sfruttando le opportunità offerte dal «fuori»
e dal «dentro»,
come dimostra la legge che nel 1990 le fu cucita addosso su misura
risparmiandole il taglio del finanziamento pubblico per l’editoria
che colpì ogni altro «organo
di partito»,
consentendole così di continuare a prendere quasi quattro milioni e
mezzo di euro ogni anno. In tal senso andrebbe precisato che la
decisione del governo di dimezzare i fondi da decenni assicurati a
Radio Radicale per la trasmissione delle sedute parlamentari non
ridimensionerebbero le sue entrate da dieci a cinque milioni di euro,
ma da quasi quattordici e mezzo a quasi nove e mezzo.
Ma
questo è solo il tratto più prosaico della
contraddizione che a Radio Radicale è concessa more
et iure,
perché c’è
quello assai più redditizio sul piano del prestigio e
dell’autorevolezza:
essere – insieme – «istituzione»
e «voce
libera»,
bon
ton e
j’accuse.
Ma anche
qui possiamo farlo dire a Enzo Forcella: «C’è
quasi sempre un angolo dal quale si può fare un po’
di anticonformismo riscuotendo l’approvazione
di altri conformisti».
Da
quell’angolo,
secondo come mette la stagione, si può alternare un «no
taliban, no vatican»
a un «viva
il papa»,
dare del «buono
a nulla» a
Tizio e del «capace
di tutto»
a Caio per allearsi prima con l’uno
e poi con l’altro,
scatarrare sarcasmo sulle battaglie culturali de Il
Foglio
e poi diventare fogliante in servizio attivo permanente. Ma si
diceva: «protagonisti
che si conoscono fin dall’infanzia,
si offrono a vicenda le battute, parlano una lingua allusiva e, anche
quando si detestano, si vogliono bene».
Punto
di rottura nell’analogia:
«si
recita soltanto per il proprio piacere, beninteso, dal momento che
non esiste pubblico pagante».
Qui un pubblico pagante c’è,
ed è il contribuente, che, tornando ai numeri, tiene in piedi una
radio che ogni giorno fa poco più di 200.000 ascoltatori su oltre
34.000.000. Se non sbaglio, saremmo intorno allo 0,7%.
Col
taglio del contributo per la trasmissione delle sedute parlamentari
da dieci a cinque milioni di euro il governo vuole la chiusura di
Radio Radicale? Si accetti la sfida e si rinunci anche agli altri cinque.
Di più: si rinunci anche ai quattro milioni e mezzo che le arrivano
dai contributi per l’editoria.
Si apra una sottoscrizione e i duecentoquarantamilaedispari
ascoltatori di Radio Radicale si dichiarino disposti a pagare una
quota annua: sessanta euro (14.500.000/244.000≃60). Per quanto mi
riguarda – ma sono certo che c’è
chi la ama assai più di quanto la ami io – sono disposto ad
accettare che quanti amano Radio Radicale siano anche solo 122.000,
assumendomi quindi l’impegno
di pagarne 120. Sono disposto ad accettare pure che siano solo
61.000, pagandone 240. Se sono meno di 61.000, vuol dire che me ne
farò una ragione: Radio Radicale non aveva ragion d’essere.