«In
Germania i conti con il nazismo sono stati duri e definitivi»,
scrive Michele Serra (la
Repubblica,
9.4.2019), sicché «eventuali
eredi del vecchio Adolf avrebbero certamente provveduto a cambiare
cognome», mentre
«in
Italia, si sa, le cose sono molto diverse»,
e il fatto che qualcuno, che di cognome fa Mussolini, non soltanto
non abbia provveduto a cambiarlo, ma addirittura ne faccia motivo di vanto, al punto da servirsene per far politica senza altro merito da offrire (il riferimento, qui, è a un Caio
Giulio Cesare Mussolini, che le cronache di questi giorni danno
candidato alle prossime Europee nelle liste di Fratelli d’Italia),
è il più emblematico dei segni che qui da noi «i
conti con il fascismo non sono stati mai fatti per davvero».
Non si può pretendere che un corsivo possa dar spiegazione di questo dato, che è incontestabilmente vero, e tuttavia Michele Serra sembra volerne attribuire la ragione a un vizio tutto italiano. Se, infatti, «l’omone col fez è presente in molte case, e in molte strade, con assoluta naturalezza, come gli acquerelli delle zie, il limoncello nella credenza o il ficus sul pianerottolo» (sapiente parodia delle gozzaniane «buone cose di pessimo gusto» che ingombrano il salottino de L’amica di nonna Speranza), è perché siamo tragicamente privi di pudore: non ci risparmiamo l’ostensione dell’orrido feticcio che è in quel cognome, «incapaci anche di quei piccoli e confortanti ritocchi a un quadro largamente compromesso» dalla presenza di «tre partiti neofascisti (più la cospicua componente fascista della Lega)».
Non si può pretendere che un corsivo possa dar spiegazione di questo dato, che è incontestabilmente vero, e tuttavia Michele Serra sembra volerne attribuire la ragione a un vizio tutto italiano. Se, infatti, «l’omone col fez è presente in molte case, e in molte strade, con assoluta naturalezza, come gli acquerelli delle zie, il limoncello nella credenza o il ficus sul pianerottolo» (sapiente parodia delle gozzaniane «buone cose di pessimo gusto» che ingombrano il salottino de L’amica di nonna Speranza), è perché siamo tragicamente privi di pudore: non ci risparmiamo l’ostensione dell’orrido feticcio che è in quel cognome, «incapaci anche di quei piccoli e confortanti ritocchi a un quadro largamente compromesso» dalla presenza di «tre partiti neofascisti (più la cospicua componente fascista della Lega)».
Due
pregiudizi sono evidenti in questa analisi.
Il
primo è relativo a quel carattere
italiano che a ogni tentativo di definizione rivela essere
mera invenzione letteraria, ma che secondo molti sarebbe il primum
movens
della nostra storia patria, le cui origini sarebbero di almeno sei secoli antecedenti
all’Unità
d’Italia. Nel variegato spettro dei suoi tratti
peculiari spiccherebbe un connaturato deficit di responsabilità
individuale e collettiva, e allora ecco spiegata quell’incapacità
di fare i conti col passato che rimuove di ogni senso di colpa,
rendendoci insensibili a tutto ciò che la evoca.
Tanto
più deprecabile, quest’irresponsabilità,
se si fa proprio anche il secondo pregiudizio, quello che nel
fascismo vede «un
modo di pensare e di sentire, una serie di abitudini culturali, una
nebulosa di istinti oscuri e di insondabili pulsioni» (Umberto
Eco): tratti peculari anch’essi
del carattere
italiano,
se è in Italia che per la prima volta sono stati in grado di dar
vita ad un regime politico.
[Nell’epoca
in cui la lotta ai pregiudizi metteva in discussione tutto, un
illuminista ammoniva: «Certi
pregiudizi, diventati nazionali, devono essere risparmiati da ogni
uomo retto»,
e aggiungeva: «Chi
si cura più del bene degli uomini che della propria gloria non farà
trapelare la propria opinione su questi pregiudizi»
(Moses Mendelssohn). Sulla pagina trovo un tratto di matita a
sottolineare il «diventati
nazionali»
nella prima frase e, a fianco, un punto esclamativo: puoi anche
staccar dal muro il crocifisso, ma non t’azzardare
a toccare l’autopercezione
di un popolo, soprattutto quando espressa da un moralista. Un punto
interrogativo, invece, trovo a fianco alla seconda frase: che gloria
ci si procura a mettere in discussione le convinzioni che non hanno saldo fondamento, ma che pure sono care a tanti? L’odio,
piuttosto, o, peggio, il ludibrio. Proseguiamo, dunque, ma consci del
rischio che si corre col mettere in discussione Michele Serra. I suoi
sono pregiudizi «diventati
nazionali»,
anzi, per meglio dire, sono pregiudizi già da tempo cari alla parte
più qualificata della nazione, quella che al carattere
italiano ha da tempo offerto occasione di riscatto con la sua «protezione
paterna e padreternale»
(Antonio Gramsci) alternando, alla bisogna, pietà e disprezzo,
esortazione e biasimo. Proseguiamo con cautela, perché a voler
proporre una tesi alternativa alla ragione per la quale in Italia i
conti col passato non si sono fatti come in Germania, e a provarci suggerendo che
nazismo e fascismo sono due cose assai differenti, il pericolo è
grosso.]
Perché
«in
Germania i conti con il nazismo sono stati duri e definitivi»,
mentre in Italia «i
conti con il fascismo non sono stati mai fatti per davvero»?
La differenza sta tutta nella diversità caratteriale tra tedeschi e
italiani? Non è possibile, invece, che la ragione stia in quella «profonda
differenza» che
Renzo De Felice segnala tra fascismo e nazismo, e che al netto di
tutto ciò che li accomuna sul piano storico, destinando entrambi a
una condanna senza possibilità di appello (sottolineo e
risottolineo: condanna senza possibilità di appello), è innegabile
sul piano culturale, su quello ideologico e soprattutto su quello
psicologico? Non è possibile che proprio questa differenza possa
spiegare quel che altrimenti si spiega solo facendo propri
i pregiudizi paternamente e padreternalmente offertici da Michele
Serra?
Rileggendo
Intervista
sul fascismo,
più che possibile, pare necessario: fascismo e nazismo nascono da
condizioni diverse, servono istanze diverse, e hanno diversa visione
dell’uomo
e del mondo, diversa rappresentazione della società e della storia, diversa dimensione psicologica in cui si muovono; diversa è la natura del rapporto che Duce e Führer mirano a
stabilire con le masse, diverse le liturgie che allestiscono, diverso il disegno totalitario cui mirano; c’è più differenza tra nazismo e fascismo di quanto ce ne sia tra tedeschi e italiani, perché in ultima analisi il nazismo fu un tentativo di uscire dalla storia, in parte riuscito, mentre il fascismo fu un tentativo di progresso, platealmente fallito. Non è difficile capire cosa possa far più paura, dopo aver tentato, ed è questo che spiega perché «in Germania i conti con il nazismo sono stati duri e definitivi», mentre in Italia «non sono stati mai fatti per davvero».