lunedì 6 gennaio 2020

La morte di Luigi Calabresi





«La verità sulle questioni cruciali
appare esclusivamente tra le righe»
Leo Strauss



Una premessa alla premessa
Attenzione, il titolo di questa pagina è ingannevole!

Chiarimento della premessa alla premessa
Mettiamo caso andiate a teatro. Danno il Giulio Cesare di William Shakespeare. Ci andate in compagnia di un conoscente che sa tutto della Roma dei tempi di Cesare e dell’Inghilterra dei tempi di Shakespeare, e che a cena, dopo lo spettacolo, vi intrattiene in cento e cento note a pie’ di testo. Dice che, ai tempi di Cesare, la pederastia era ampiamente tollerata e non era affatto raro che il pederasta finisse con l’adottare il ragazzo cui si era affezionato: «Conosciamo i gusti sessuali di Cesare, non è da escludere che l’adozione di Bruto...». Poi passa a Shakespeare, dice che in molti suoi sonetti sono evidenti forti indizi di omosessualità: «Prendi il n. 20, per esempio, con quel “Master Mistress of my passion”...». Mettiamo che torniate a casa, andiate a letto e sogniate di Cesare, e di Bruto, e di Cassio, e di Marco Antonio. Il fatto è che i personaggi della tragedia sono gli stessi che avete visto qualche ora prima, ma nel sogno la vicenda scorre in tutt’altro modo. L’indovino, per esempio, dice a Cesare di guardarsi dalle idi di agosto, e dice proprio «agosto», il che è del tutto inverosimile, perché, ai tempi di Cesare, «agosto» è ancora «sestile» (lo diventerà solo una ventina d’anni dopo la sua morte, in onore di Augusto, che peraltro in quel momento neanche è «Augusto», ma ancora Gaio Ottavio). Cesare, poi, non viene pugnalato, ma freddato con due colpi di pistola. Idem per l’oratio funebris di Marco Antonio: più che aizzare il popolo contro i cospiratori, sembra voler calmar le acque, roba del tipo «vabbè, è andata, e certo non è stata cosa bella, non si fa, ma adesso che vogliamo fare, un’altra guerra civile come quella dei tempi di Mario e Silla?». Non basta, perché su tutta vicenda, nel sogno, sentite che aleggia una pesante ambiguità, come se i moventi dell’assassinio di Cesare fossero tutti passionali, segnati da una sottintesa trama di relazioni omosessuali: perdutamente innamorato di Bruto, Cassio cerca di portarlo via a Cesare; Marco Antonio, che fin lì di Cassio è stato amante, cerca di far capire a Cesare cosa stia accadendo a sua insaputa; Bruto non sa cosa fare, volentieri cederebbe alle attenzioni di Cassio, però i sensi di colpa lo frenano. Quasi un erotic thriller, diciamo, non fosse che tutto è tanto sottinteso da poter passare per allegoria politica.
Non vi è del tutto chiaro, vero? Perfetto, procediamo.
Mettiamo che al risveglio vi venga voglia di annotare da qualche parte il sogno che avete fatto, e che alla pagina decidiate di mettere un titolo, e che La morte di Giulio Cesare vi possa sembrare vada bene, perché in fondo è della sua morte che avete sognato. Però mettetevi nei panni di chi abbia a trovarsi tra le mani quella pagina: il titolo rimanda alla Roma del 44 a.C., ma l’incipit dà voce a un Marullo che rimanda a The Tragedy of Julius Caesar (Atto I, Scena I); è chiaro, dunque, che la pagina rimanda alla trasfigurazione artistica di una vicenda storica, se non fosse che anche quella deve aver subito una trasfigurazione, perché Marullo cita brani da Die Geschäfte des Herrn Julius Cäsar di Brecht; «sarà una fiction», penserà a quel punto chi legge, ma qui sorge un problema, perché in esergo alla pagina c’è una frase tratta da Persecution and the art of writing di Leo Strauss, che parrebbe insinuare che la fiction sta solo nell’aver confezionato la pagina come annotazione di un sogno, che in realtà non avete fatto.
Niente affatto chiaro, vero? Benissimo, procediamo.

Premessa
Quando fu ucciso Luigi Calabresi, avevo quindici anni. A quei tempi ero iscritto alla Fgci e, fra i sei o sette quotidiani cui la sezione del Pci che ci ospitava era abbonata, c’era pure Lotta Continua (non stupisca, c’era pure Il Secolo d’Italia, in ossequio al principio che «il nemico va studiato»), sulla quale, qualche giorno dopo quell’omicidio, lessi che doveva essere inteso come «un atto in cui gli sfruttati riconoscono la propria volontà di giustizia». La cosa mi colpì particolarmente (si tenga conto ai quei tempi ancora non s’era inaugurata la stagione di caccia al servitore dello Stato, che di lì a poco avrebbe visto in gara estremisti di destra e di sinistra a chi di più riempiva il carniere), perché, in buona sostanza, ci leggevo la fierezza del boia. Un boia molto sui generis, ovviamente, perché quando ti senti avanguardia degli «sfruttati», fai tua la loro «volontà di giustizia», additi in un tizio il loro «nemico», e scrivi «gli siamo alle costole», «dovrà rispondere di tutto», «di questi nemici del popolo vogliamo la morte» (Lotta Continua, 6.6.1970), non cè bisogno che tu lo sia materialmente.
Impressione, questa, che non sono mai più riuscito a rimuovere nei decenni trascorsi fin qui, e che, pur nella convinzione che le responsabilità penali di quellomicidio siano state attribuite a Sofri, Pietrostefani e Bompressi in modo assai opinabile, quelle morali e politiche, una volta tanto coincidenti, fossero tutte da ascrivere a Lotta Continua, come daltronde, seppur decenni dopo, gli stessi dirigenti della formazione politica si dichiararono disposti a concedere. Che Calabresi avesse ucciso Pinelli, sia chiaro, era un fatto che a quei tempi non era solo Lotta Continua a dar per certo – a tratteggiare il contesto basta pensare a un film come Indagine di un cittadino al di sopra di ogni sospetto (Elio Petri, 1970) e a una commedia come Morte accidentale di un anarchico (Dario Fo, 1970) – e tuttavia nessun altro in quella vicenda ebbe ad arrogarsi, insieme, il ruolo di pubblico accusatore, di giudice e, se non proprio di boia per quanto già detto, di suo mandante. Da un quindicenne, però, capirete, non si può pretendere troppa finezza di distinguo.
Uscito da quegli anni, teatro di mille altre nefandezze, quella rimaneva un chiodo fisso, al quale appendevo via via tutto ciò che se ne diceva e scriveva. Poi, un giorno, quando già da un pezzo Sofri e Bompressi erano in carcere e Pietrostefani in Francia, mi ritrovai a parlarne con Bordin, uno che della sinistra extraparlamentare degli anni 70 era più esperto di quanto Mommsen lo fosse della Roma del 44 a.C., però con quel di più di conoscenza «minuta» sulla quale la storiografia ha saputo darci lumi solo da Bloch in poi. Nella Römische Geschichte, infatti, non troverete traccia di cosa usassero i romani al posto della carta igienica, né ne L’orda d’oro di Balestrini e Moroni chi fosse il miglior pokerista dell’avanguardia proletaria. Bordin, invece, sapeva tutto di tutti, e alla terza grappa era un fiume in piena. Il fesso che sta a sentinella del buonsenso li avrebbe definiti pettegolezzi, fatto sta che quegli incredibili ritratti umani e quelle ancor più incredibili vicende personali davano modo di comprendere il «method» di tutta quella «madness», sicché sembrava di poter cogliere il cosiddetto «fattore umano» dei cosiddetti «anni di piombo», e – voilà! – perdeva senso chiedersi se Barbone avesse ucciso Tobagi perché manovrato da qualcuno che lavorava al Corriere della Sera o perché pensava che quell’omicidio gli avrebbe fatto maturare credito per diventare un capocolonna delle Br: «Lasci da parte il “perché”, Castaldi, e guardi il “chi”: si “pente” due minuti dopo l’arresto».
Così sullomicidio Calabresi. Sarà stato nel 2005 o nel 2006, non lho annotato, ma di certo era estate, perché nella bella stagione uno dei ristoranti dove eravamo soliti pranzare piazzava una mezza dozzina di tavoli nel suo cortile interno coperto da un bel pergolato, dove era possibile fumare, e ho ben chiaro il ricordo che in quelloccasione fossimo allaperto. Poi cè che ogni volta che ci incontravamo ero solito portargli in dono un libro, ma solo per imbarazzarlo, perché di regola erano del tutto astrusi ai suoi interessi ed era delizioso vedere la sua reazione al mio «è un classico, ma sono certo che le manca». Giacché la volta prima, al Momo di Leon Battista Alberti, mi aveva detto: «Questi non sono doni, sono accuse di ignoranza», quel giorno gli porsi lopera omnia di Spinoza dicendo: «Guardi come la copertina di questo Meridiano si intona bene alla sua giacca». Una delle sue peggiori giacche, occorre dire, però dun celestino decisamente estivo. E visto che fu proprio da Spinoza che partì la discussione, cioè, per meglio dire, la sua lectio magistralis sul caso Sofri, sì, si era in estate o sarà stato tuttal più maggio o settembre, agosto certamente no, perché ad agosto non ci incontravamo mai.
Mi sto perdendo nei dettagli, vero? Ok, salto Spinoza e arrivo subito a quelle nove o dieci frasi dette nello stile terso e vivace che lo rendevano tanto amabile.
«È un errore pensare che gli omicidi degli Anni di piombo siano stati ideati da menti diaboliche. Rammenta cosa ha scritto Massimo Fini poco tempo fa in quell’articolo che ha fatto tanto incazzare Oreste Scalzone? Riuscita l’analisi del contesto, ma il fatto che anche lui creda a Leonardo Marino... Inconcepibile! Delitti come quello di Calabresi si spiegano in modo assai più semplice. E direi che è proprio questa semplicità che li fa tragici. La cosa non deve essere stata poi tanto diversa dall’omicidio Pecorelli, solo che in quel caso Andreotti può aver detto “O.P. sta a ròmpe er cazzo”, mentre Lotta Continua ha scritto “Calabresi è un assassino e pagherà”. Un cretino, uno zelota, un picciotto che vuole diventare capomandamento – non ha importa cosa – si sente investito di un mandato, e Andreotti e Sofri di botto diventano mandanti? Cazzate. A mio modesto avviso, a uccidere Calabresi è stato un militante di Lotta Continua che faceva parte del servizio d’ordine, ma non a Milano...».
E qui fece un nome, ma, subito pentito daverlo fatto, aggiunse: «Si tratta solo di un’ipotesi, ovviamente». E non sembrò bastasse, perché seguì: «Conto sul fatto che lei dimentichi quel che ho detto». Risposi: «Proverò. In caso contrario potrà sempre dire che me lo son sognato: lei gode di ottima reputazione, io no».

Materiali e metodo
«La persecuzione dà luogo a una particolare tecnica letteraria, in cui la verità delle questioni cruciali appare esclusivamente tra le righe. Questa letteratura è indirizzata non già al lettore qualunque, bensì esclusivamente al lettore fidato e intelligente. Ha tutti i vantaggi della comunicazione privata (di raggiungere, cioè, soltanto i conoscenti dell’autore); gode i vantaggi della comunicazione pubblica, senza sottostare al suo svantaggio più rimarchevole (cioè, la pena capitale per l’autore). Ma come è possibile inverare, pubblicando i propri scritti, un tale miracolo: quello, cioè, di parlare a una minoranza restando però muti per la maggioranza dei lettori? […] Tono tranquillo, senza dare spettacolo e, anzi, perfino un po’ annoiato, in modo tale da ottenere un effetto di assoluta naturalezza […] Abbonderebbe in citazioni e attribuirebbe una importanza spropositata a dettagli insignificanti […] Ma una volta arrivato al cuore dell’argomentazione, allora scriverebbe tre o quattro frasi in quello stile terso e vivace che è in grado di attrarre l’attenzione di chi ama pensare» (Leo Strauss – Persecution and the art of writing).
«Nella copia che Bach inviò al re, sulla pagina che precede il primo foglio di musica, c’era la seguente scritta: “Regis Iussu Cantio Et Reliquia Canonica Arte Resoluta”» (Douglas Hofstader – Gödel, Escher, Bach: un’Eterna Ghirlanda Brillante).

Sviluppo
Lultimo scorcio del 2019 ci ha offerto su Il Foglio un interessante battibecco tra Adriano Sofri e Giampiero Mughini sul dettaglio che ha avuto ruolo centrale lungo tutto liter processuale esitato in via definitiva con la condanna di Sofri e Pietrostefani come mandanti e di Bompressi come esecutore, in concorso con Marino: il 13 maggio 1972, al comizio in conclusione al quale sarebbe stato mandato a Marino, piovve, non piovve o prima piovve e poi spiovve? Interessante per modo di dire, perché, con tutte le incongruità di cui son state infarcite le versioni date da Marino, è incredibile che sia ancora questo il punto ritenuto decisivo, a fronte del fatto che Pietrostefani non era a Pisa il 13 maggio, come invece a lungo sostenuto da Marino, e molto probabilmente Bompressi neppure era a Milano il 17 maggio, tanto più che alla guida dellauto con la quale il riccioluto Marino affermava di aver condotto Bompressi in via Cherubini più dun testimone riferiva di aver visto un tizio dai capelli lunghi e lisci, forse una donna, mentre al posto di un Bompressi dai capelli scuri, dalla pelle olivastra e alto quasi un metro e novanta cera un sempronio dalla carnagione chiara, coi capelli di color castano chiaro, alto intorno al metro e settantacinque. Anche in questa occasione, d’altronde, Sofri ribadisce che «la pioggia non era affatto un motivo per sostenere che io non avessi incontrato il mio accusatore»: poteva averlo incontrato, certo, ma questo non provava che gli avesse conferito il mandato di uccidere Calabresi.
Un processo costruito tutto sulle dichiarazioni di un pentito manifestamente inattendibile, costretto a rettificare di continuo le innumerevoli contraddizioni della sua versione iniziale con aggiustamenti ancor più contraddittori, senza mai riuscire a offrire dati di riscontro certi, sennò offrendone di risibili. E questo a voler sorvolare sulla genuinità degli scrupoli morali che egli diceva fossero ragione del suo pentimento, e ancor più su come i suoi ricordi furono rappezzati alla meno peggio in una caserma dei carabinieri a confezionare unipotesi accusatoria che poteva reggere solo a volergli credere comunque, qualsiasi cosa dicesse. Non era il caso di invocare lo stato di diritto, bastava appoggiarsi alla sola logica e i tre andavano assolti. E invece furono condannati.
Come fu possibile? Qui un accanito anticomplottista come Bordin ipotizzava un complotto. Semplifico, ovviamente, perché lui era in grado di porgere lipotesi in modo assai più elegante: Sofri era vicinissimo al Psi, in particolare a Martelli; tra Pci e Psi si andava a preparare uno scontro senza esclusioni di colpi che avrebbe visto il culmine in Mani pulite; la magistratura era schierata quasi tutta col Pci; e poi Sofri era una pedina da sacrificare senza farsi troppo scrupoli perché «antipatico», come finì per farsi scappar di bocca pure il pm che sosteneva laccusa al processo dappello del 1990. Dellipotesi di Bordin solo questultimo punto mi è sempre sembrato solido e – so bene che sto per fare unaffermazione scandalosa – perfino sufficiente, qui in Italia, a maldisporre un giudice alle ragioni della difesa. Quindi, di là dal fatto che a qualcuno Sofri sarà simpatico e a qualcuno no, non sarà superfluo porsi il problema di quali fossero gli elementi che potessero generare questa fatale antipatia. Qui torna utile larticolo di Fini cui faceva cenno Bordin.
«Negli anni Settanta tutta l’“intellighentia” italiana si era spostata allestrema sinistra. Non cera intellettuale, scrittore, giornalista (con leccezione di Montanelli, Biagi e qualche altro cane sciolto), sociologo da terza pagina del Corriere, mondana, mignottina da salotto che non si dichiarasse per la rivoluzione. E la borghesia, con i suoi giornali, aveva seguito londa. Sia per opportunismo, sia perché in fondo, si trattasse del Movimento studentesco, di Lotta Continua, di Avanguardia operaia o di Potere Operaio, quei rivoluzionari da salotto erano, nella stragrande maggioranza, “figli di famiglia”, erano figli suoi e se li coccolava e vezzeggiava. La copertura alle violenze di quegli anni non fu data tanto dal Pci, che anzi mal tollerava di essere scavalcato a sinistra da degli extraparlamentari che predicavano una rivoluzione a cui i comunisti avevano rinunciato da tempo […] Del resto qualche anno dopo, quando il terrorismo brigatista mieteva una vittima al giorno e altre ne “gambizzava” come si diceva allora con un orrendo neologismo, due guru della cultura italiana, Alberto Moravia e Leonardo Sciascia, si dichiararono “né con lo Stato né con le Br”. [...] La magistratura non poteva indagare nella galassia dellestremismo extraparlamentare di sinistra senza essere sommersa dallunanime coro della “montatura”, della “provocazione”, del “complotto”. Le piste dovevano essere sempre e solo “nere”. […] Persino per lomicidio Calabresi si preferì imboccare la strada delle “piste nere” e perdere tempo a inseguire un certo Nardi, figlio di armaioli di San Benedetto del Tronto, e altri stracci del genere, nonostante Lotta Continua, sul suo giornale, si fosse attribuita, almeno moralmente, lassassinio e fosse del tutto improbabile, almeno allora, che della gente di destra ammazzasse un commissario di polizia, oltretutto accusato da tutto lambiente di sinistra di aver fatto volare dal quarto piano della Questura di Milano un anarchico, Giuseppe Pinelli. È anche per questo che bisognerà aspettare alcuni lustri e la confessione di Leonardo Marino per arrivare a Bompressi, a Pietrostefani e a Sofri. Del resto tutti sapevano che Lotta Continua, come peraltro Potere Operaio, aveva un “livello illegale” che si occupava quantomeno di far delle rapine, per finanziare, oltre che con gli “espropri proletari”, il gruppo. [...] Ma al processo Sofri, Pietrostefani e Bompressi negarono anche lesistenza del “livello illegale”, anche levidenza, e penso che sia anche per queste menzogne puerili che poi non furono creduti dal Tribunale sulle questioni più importanti».
Si può essere daccordo o no con questo spaccato sociologico, di fatto, dopo la Marcia dei Quarantamila del 1980 e dopo il referendum sulla scala mobile del 1985, il clima cambia di colpo, lanelito rivoluzionario accusa un repentino riflusso, e – prosegue Fini – «questi rivoluzionari da burletta che il giorno scendevano in piazza a gridare slogan truculenti, a spaccare vetrine e crani, a ingaggiare battaglie con la polizia a colpi di molotov, e la sera, tornati a casa dai loro babbi e mamme borghesi, tutti orgogliosi di quei loro figlioli così deliziosamente antiborghesi, si precipitavano a telefonare alle loro amiche per organizzare feste in qualche bella villa, [...] non solo non hanno pagato alcun dazio per le loro imprese, ma sono stati premiati e oggi fanno i deputati, i senatori, i direttori di giornale, di reti televisive, gli opinionisti. Sono degli impuniti. E non ci si può quindi meravigliare se non hanno nessun senso delle proprie responsabilità. Loro hanno sempre ragione. Avevano ragione quando facevano i comunisti e hanno ragione adesso che sono diventati liberali. Oggi questi irresponsabili costituiscono una buona parte della classe dirigente, equamente distribuiti fra destra e sinistra».
Comprensibile che questo fosse intollerabile per chi non poteva digerirli prima, ma ancor più comprensibile che questo generasse risentimento, per esempio, in un Marino, che non era riuscito a riciclarsi come un Liguori, un Panella, un Deaglio, un Guarini, un Capuozzo, un Miccichè, un Vincino, tutti un tempo lottacontinuisti come lui. Ben lungi da essere un dato di riscontro oggettivabile, dunque, l«antipatia» di Sofri bastava e avanzava per chiamarlo a pagare in nome e per conto di tutti quelli che lo avevano avuto a leader carismatico. Può far orrore, anzi, deve, ma, al pari della «giustizia proletaria» che non riuscì a trovare altra forma che quella della vendetta per chiudere i conti con la morte di Pinelli, floppando, anche la «giustizia borghese» non trovò di meglio per chiudere i conti con la morte di Calabresi, con un altro flop: la responsabilità morale e quella politica dovevano coincidere con quella penale, Marino dove esser creduto, perché, seppure quel 17 maggio 1972 in via Cherubini non cerano stati lui e Bompressi, qualcun altro cera stato, e il mandato non gli era stato dato a Pisa quattro giorni prima, ma comunque da Sofri, dalle pagine di Lotta Continua. Ma ripeto: può far orrore, anzi, deve.

Annotazione di un sogno
Tornato a Napoli, quella notte sognai. E sognai chi a pranzo Bordin mi aveva detto fosse per lui il vero assassino di Calabresi. Mi fissò coi suoi occhi azzurri e disse: «Gli hai creduto? Sbagli».



venerdì 27 dicembre 2019

Inter caecos regnat strabus





Un saggio di quanto in realtà siano ignoranti quelli che nel cortile di casa nostra fanno i pavoni aprendo a ventaglio la coda della loro molto millantata cultura ci è offerto dallestasiato coro di elogi cui essi hanno dato vita a sentire che Boris Johnson – ne cito uno a caso – «sa a memoria, e sa recitarlo, quasi un intero capitolo dellIliade di Omero» (Giuliano Ferrara – Il Foglio, 27.12.2019).
Se si può sorvolare sul fatto che lIliade non sia composta di «capitoli», ma di «libri» (ventiquattro, per lesattezza), e che del primo leccentrico premier inglese ha declamato («recitato» è termine improprio per un poema epico) solo una trentina dei suoi 611 versi, credo sia imperdonabile non aver fatto caso al fatto che ha saltato lottavo («Τίς γάρ σφωε θεῶν ἔριδι ξυνέηκε μάχεσθαι;») e il quindicesimo («χρυσέῳ ἀν σκήπτρῳ, καὶλίσσετο πάντας Ἀχαιούς»), che nel testo non hanno funzione incidentale, ma reggono il senso di quanto segue. Se non bastasse questo a dimostrare che Boris Johnson si è limitato a ripetere, e male, quanto gli è stato fatto imparare a memoria da quindicenne allEton College – la pratica è stata in uso anche nei nostri licei almeno fino ai primi anni Settanta, e a chi di noi, che oggi abbia i cappelli bianchi, non è rimasta in testa una dozzina di versi dellEneide? – si segua il video che lo mostra prodursi nella performance che tanto ha fatto scalpore, ma avendo sotto mano il testo originale in greco antico: dal ventesimo verso in poi la memoria zoppica vistosamente, sicché Agamennone parla come da ubriaco. Poteva fermarsi prima, ma lo studio televisivo che lo ospitava era manifestamente preso dallesibizione, e dunque ha proseguito, show must go on.
Questo è bastato a far di Boris Johnson, qui da noi, un pilastro della cultura occidentale. E dove più che altrove ha fatto colpo questo malrattoppato residuo di mnemonica liceale? Un aiutino? Si tratta della redazione del giornale che pretende il finanziamento pubblico in virtù dellessere il più colto e intelligente di quelli oggi in edicola: «Lo dico da circa due anni che Boris Johnson è colto e raffinato» (@AnnalisaChirico); «Ha recitato l’Iliade in greco antico. È quello che intendo almeno io per “Occidente”» (@giuliomeotti).
È proprio vero, «inter caecos regnat strabus» (Erasmo da Rotterdam, Adagia) , che, tradotto dal latino, sta più o meno per «non ti sputo ché timprofumo» (Antonio Albanese, Qualunquemente).

mercoledì 25 dicembre 2019

Fingiamoci in ansia, ma nessuna paura


«Con il taglio del contributo per la trasmissione delle sedute parlamentari da dieci a cinque milioni di euro – chiedevo – il governo vuole la chiusura di Radio Radicale? Si accetti la sfida – proponevo – e si rinunci anche agli altri cinque. Di più – aggiungevo – si rinunci anche ai quattro milioni e mezzo che le arrivano dai contributi per leditoria. Si apra una sottoscrizione e i duecentoquarantamilaedispari ascoltatori di Radio Radicale si dichiarino disposti a pagare una quota annua di sessanta euro (14.500.000/244.000 ≃ 60)». E qui facevo cenno a mettere mano alla tasca, fidando nei mirror neurons dei tanti che, come me, erano precipitati nello sconforto alla notizia che, senza quei cinque milioni, Radio Radicale era destinata a chiudere.
60 euro allanno, mi dicevo, sono uninezia, e tanti fra gli sconfortati sono tuttaltro che indigenti, chissà che di milioni non finiremo a metterne insieme trenta, quaranta e, perché no, cinquanta. E già mi immaginavo il titolone nel sommario del tg delle 20,00: «Schiaffo morale di Radio Radicale a Vito Crimi: “Ficcateli nel culo, i soldi della convenzione: diventiamo società ad azionariato diffuso”»; neppure un cenno a chi aveva avuto l’idea, ma, vabbè, fa niente, tanto sono abituato a non veder riconosciuti i miei meriti.
Quella, peraltro, a me sembrava una proposta che avrebbe avuto il pregio di inchiodare tutti alla coerenza del ruolo che ciascuna delle parti aveva imposto allaltra: i «barbari» si sarebbero comportati da veri barbari, dandone prova con la plateale barbarie di colpire al cuore una radio seguitissima dallo 0,7% dei 34 milioni di radioascoltatori italiani, pochi forse, ma créme de la créme della nostra società civile; e i «liberali de sto cazzo» si sarebbero comportati da liberali come Dio comanda, rinunciando a continuare a fare impresa col denaro pubblico, affidando le proprie sorti allapprezzamento che il prodotto avrebbe riscosso sul mercato.
È che, da incallito fruitore a gratis del servizio offertomi da Radio Radicale, proiettavo il mio sgomento per la decisione presa dallodiato governo giallo-verde sullo sgomento che constatavo negli altrettali incalliti fruitori a gratis che, forti dellautorevolezza loro conferita da ruoli di prestigio svolti in campo politico, culturale, economico, ecc., si erano tosto mobilitati perché la decisione fosse revocata, così mostrando, però, di fidare, da un lato, che i «barbari» non fossero barbari fino in fondo e, dallaltro, che, almeno per lItalia, Dio comanda solo «liberali de sto cazzo»: lidea di mettere mano alla propria tasca per evitare la tragedia non sfiorò neppure uno dei tanti eroici paladini scesi in campo, costringendomi allamara constatazione che avevo proiettato male il mio sgomento. Ne ebbi la prova dal succedersi degli eventi, che portarono alla revoca del taglio. Solo provvisoria, è vero, ma, in un paese dove il provvisorio è istantanea del permanente, è come dire: «Cara Radio Radicale, scusaci tanto, era tanto per dire».
Gli eventi, quelli, sono noti a tutti, e danno ragione del sistema che Enzo Forcella illustrò magistralmente in Millecinquecento lettori: «Un giornalista politico, nel nostro paese, può contare su circa millecinquecento lettori: i ministri (tutti), i parlamentari (parte), i dirigenti di partito, sindacalisti, alti prelati e qualche industriale che vuole mostrarsi informato. Il resto non conta, anche se il giornale vende trecentomila copia. Prima di tutto non è accertato che i lettori comuni leggano le prime pagine dei giornali, e in ogni caso la loro influenza è minima. Tutto il sistema è organizzato sul rapporto tra il giornalista politico e quel gruppo di lettori privilegiati. Trascurando questo elemento, ci si esclude la comprensione dellaspetto più caratteristico del nostro giornalismo politico, forse dellintera politica italiana: è latmosfera delle recite in famiglia, con protagonisti che si conoscono fin dallinfanzia, si offrono a vicenda le battute, parlano una lingua allusiva e, anche quando si detestano, si vogliono bene. Si recita soltanto per il proprio piacere, beninteso, dal momento che non esiste pubblico pagante».
E tuttavia queste «recite in famiglia» hanno un costo e, visto che sono indispensabili alla «famiglia», qualcuno deve pur sostenerlo: nessun problema, cè il denaro pubblico, che incidentalmente è nelle disponibilità della «famiglia». Nessuno stupore, allora, nel vedere in soccorso di Radio Radicale anche chi mai lingenuo avrebbe immaginato – vescovi, leghisti, parlamentari di destra e di sinistra che fino al giorno prima Pannella aveva definito «palermitani» e «corleonesi», e perfino qualche membro della Corte Costituzionale, quella da sempre definita «cupola della mafiosità partitocratica» – un po come sorprendere in trattoria, dopo lo spettacolo, Cesare e Bruto allo stesso tavolo. Non poteva che andare comè andata, e confesso che un po mi vergogno di aver temuto che Radio Radicale potesse chiudere, e di averlo temuto al punto da metter mano alla tasca perché non chiudesse. Meno male che ho lasciato adito a pensare che fosse una provocazione, va.

Non commetterò lo stesso errore con Il Foglio, che ieri apriva con straziante strillo: «Un tentativo che non riuscirà per colpire il Foglio e cercare di chiuderlo». Il lessico – sconnesso ad arte, cè da scommetterci – mira a trasmettermi panico, ma non ci casco: Il Foglio è troppo simile a Radio Radicale per temere che gli si possano negare quegli ottocentomilaedispari euro allanno, da pazzi pretendere che sotto la testata, come fa Il Fatto Quotidiano, metta un «non riceve alcun finanziamento pubblico», alzando il prezzo per copia: perché i suoi lettori dovrebbero accollarsi lonere personale di dimostrare quanto sia indispensabile il giornale quando tanti di loro hanno modo di convincere chi di dovere che lonere spetta a tutti? Stavolta, dunque, assisterò alla recita senza patemi: dietro lennesima tragedia che vede opposte civiltà e barbarie saprò godermi la solita commedia allitaliana coi suoi più divertenti caratteri, i «barbari» di buon cuore e i «liberali de sto cazzo». E comincerò col godermi proprio il coro che apre la prima scena del primo atto: «Un tentativo che non riuscirà per colpire il Foglio e cercare di chiuderlo».
«Che non riuscirà» sta messo lì un po a cazzo, fa confusione, forse ci andavano una virgola prima e una dopo, e «tentativo... per cercare» è senza dubbio pleonasmo che stride, ma si diceva: non è ignoranza, è tecnica per indurre allansia, e sono certo che otterrà l’effetto. Se il titolo tende a mettere il lettore della postura giusta perché il pugno nello stomaco sia massimamente efficace, il testo lo sferra con tutta la forza necessaria: «La decisione è di escludere il Foglio dai contributi all’editoria per il 2018 [e] la motivazione non è chiara [ma] qualche tempo fa, nell’era Salvini-Di Maio, il portavoce di Palazzo Chigi, Rocco Casalino, aveva sarcasticamente domandato al nostro Salvatore Merlo perché mai si desse tanto da fare visto che il Foglio sarebbe stato chiuso».
Motivazione, dunque, chiarissima: per sua natura, lo zoticume ha in odio la signorilità, e signore, Il Foglio, lo nacque, basti pensare al fatto che per anni a preparare le mesate per i redattori era lo stesso Spinelli che preparava le buste per le olgettine, a compenso per la partecipazione a cene altrettanto signorili. In buona sostanza, siamo chiamati a scegliere, a schierarci: stiamo con un avanzo della più trucida tv di fine secolo o col giornale caro alla créme della créme della società civile?
Ma, di là dai contendenti in campo, dove sta il quid del contendere? Primo: allepoca in cui il turpe Casalino mozzava la testa a un cavallo e la ficcava sotto le coperte di Cerasa, «la Guardia di Finanza aveva rispolverato una vecchia inchiesta di accertamento giacente da sette anni nei cassetti sui contributi per gli anni 2009-2010 [in base alla quale emergeva che] il Foglio non aveva diritto in quel biennio ai contributi di legge perché non aveva raggiunto la percentuale del 25% delle vendite calcolate sull’intera tiratura», e questo non è vero, perché la percentuale sarà stata almeno del 26%, forse addirittura del 27%, che forse sarà sempre poco, ma solo per chi sguazza nella Nutella e neanche ha idea di cosa sia la créme de la créme.
Secondo: per la Guardia di Finanza, «il Foglio era organo di un movimento inesistente, la Convenzione per la giustizia, il che era gravemente falso, visto che il movimento esisteva, aveva tenuto un suo congresso di fondazione a Firenze […] e dunque il suo giornale tribuna, che non ha mai risparmiato parole di commento e fatti raccontati in materia di giustizia e garantismo giuridico, aveva il collegamento di legge necessario, per non parlare della legittimazione politica civile e culturale, con una struttura effettivamente costituita».
E anche questo è sacrosanto, basta digitare «Convenzione per la giustizia» nella finestrella di Google: la prima voce non centra un cazzo con Il Foglio, ma la seconda rimanda proprio alla scheda audio dellarchivio di Radio Radicale che dà registrazione integrale di quel «congresso di fondazione», nel 1998; a seguire, solo voci malevole che la danno come «trucchetto per prendere i contributi pubblici», ma si sa che il mondo è cattivo, la cosa, quindi, non fa testo.
Terzo: «La cooperativa per la Finanza non era una vera cooperativa in quanto le forze che avevano dato origine al Foglio come Srl vi erano rappresentate e la sostenevano in relazione alla valorizzazione della testata, che il Foglio aveva da loro in affitto». E qui Il Foglio commenta: «È l’ultima falsificazione di una serie», ma senza spiegare perché.
Fa niente, in fondo anche se fosse vero, e anche se la Convenzione per la giustizia fosse solo un trucchetto per prendere i contributi pubblici, anche se negli anni 2009-2010 Il Foglio avesse venduto solo l1% dellintera tiratura, il «sistema» è inattaccabile e i soldi per la «recita in famiglia» di cui Il Foglio è prestigioso teatrino, vedrete, si troveranno. Fingiamoci in ansia, dunque, ma nessuna paura: le leggi del mercato sono valide per gli operai dellIlva e della Whirpool, mica per i giornalisti de Il Foglio.
In fondo, poi, si tratta di 800mila euro allanno, fa meno di 0,03 euro per ciascuno dei 28,6 milioni di contribuenti attivi che lIstat calcolava lanno scorso: è un reddito di cittadinanza che ci possiamo permettere.


Appendice


martedì 17 dicembre 2019

[...]




C’è chi sostiene che la Sinistra ha perso tutto ciò che l’ha contraddistinta nella seconda metà del Novecento, che già era meno di quanto la contraddistingueva prima, sicché oggi sarebbe solo un guscio vuoto, un tanto per dire. Bene, un tweet di Luca Bizzarri ci offre modo di smentire questa tesi.
Perché, certo, la Sinistra avrà smarrito l’ideale di giustizia sociale, sostituendolo con quell’anodino solidarismo che di fatto è indistinguibile dal cosiddetto «capitalismo caritatevole».
Avrà, altresì, rinnegato quasi tutti i miti che un tempo considerava sacri, anche questo è vero, per non parlare del suo Pantheon, in cui oggi, al posto di Marx, Engels e Lenin, troviamo Saviano, Jovanotti e la Rackete.
E sì, anche il suo radicamento sociale non sarà più quello di una volta, come dimostra il fatto che ad una ad una sono cadute quasi tutte le sue storiche roccaforti, e ormai operai e pensionati votano in gran parte Lega.
D’accordo anche sul fatto che conseguentemente pure tutta la sua estetica è andata a farsi fottere: sono iperboli, è ovvio, ma si può convenire che «partito ztl» e «comunisti col rolex» rilevino comunque il tratto della mutazione cui è andata incontro l’etichetta che un tempo garantiva la genuinità del prodotto.
Tutto perso, però, no: in quanto a presunzione di superiorità morale e culturale, la Sinistra resta quella di sempre, la stessa di quando questa sua presunzione riusciva ad ottenere un ben più ampio riconoscimento, che tuttavia oggi residua in molte enclavi d’opinione pubblica (salotti, case editrici, centri sociali, nicchie televisive, conventicole digitali, ecc.).
Il tweet di Luca Bizzarri ha il pregio di essere emblematico di questa presunzione ed è per questo che merita attenzione.

Non credo sia necessario dar ragguagli sul contesto, noto ai più e peraltro tutto esplicito nel testo: Checco Zalone lancia la canzone-trailer che annuncia l’uscita del suo prossimo film e l’Italia si spacca tra chi ci legge quello che descrive, e cioè la molesta invadenza di un immigrato nella vita di un italiano medio, e chi dà per scontato che quella sia ironia, e cioè la figura retorica con la quale – qui non sarà superfluo rammentare – si dice il contrario di quel che in realtà s’intende dire.
Tertium non datur, com’è d’uso nelle guerre civili e nei suoi succedanei: o si capisce che quella è ironia, e che con essa Checco Zalone intende sbertucciare le risibili paure che l’italiano medio nutre per un immigrato che in realtà non è mai invadente, non è mai molesto, o si è ignoranti e xenofobi, cioè leghisti. Vedremo perché in realtà qui il tertium c’è, per il momento pensiamo ad analizzare il tweet.

Senza virgola tra invocazione e vocativo, che pure era ancora in uso ai tempi de l’Unità di «Scusasi, Principessa», Luca Bizzarri attacca con un «Scusaci Checco» che della presunzione di superiorità morale e culturale mostra la vocazione a farsi carico di colpe altrui, in questo caso di chi ha oltraggiosamente travisato il messaggio dell’artista, che, in quanto artista, è chiaro che ne avrà sofferto.
Un farsi carico di colpe altrui che è ulteriormente ribadito da quanto segue, quel «siamo diventati un paese che non capisce le battute, che ha perso il senso dell’umorismo e il senso del ridicolo», nel quale il «noi» rivela l’autoinvestura a rappresentare il paese nel suo insieme, come viene naturale a chi se ne sente paternalisticamente responsabile in virtù delle sue superiori virtù.
La psicoanalisi ci porterebbe nelle desolate plaghe del delirio di grandezza, e non è il caso, basti rilevare in questo atteggiamento il caratteristico sentirsi in missione permanente per l’emancipazione dell’Umanità dal bisogno e dall’errore. Del tutto comprensibile, quindi, la nota di dolente scoramento nel constatare che tanto ancora c’è da fare se dai più refrattari a emanciparsi s’è dovuto sentire: «Se non l’abbiamo capita in tanti[,] avremo qualche ragione». Altrettanto comprensibile l’amaro sfogo in chiusa: «Come se i deficienti, per definizione, debbano essere pochi».
Come non essere d’accordo con Luca Bizzarri? Siamo circondati da deficienti: deficienti che in «Immigrato» vedono rappresentato il malessere che in larghi strati della popolazione italiana è venuto sempre più ad acuirsi a fronte di un’immigrazione che le sottrae risorse e ne minaccia identità e tradizioni, cogliendo così in Checco Zalone chi trova una ragione della xenofobia che ne deriva, cui conferisce dignità costruendo un idealtipo che la rappresenta nella sua dimensione tragicomica; ma pure deficienti che invece ci vedono ironia.

Come, non è ironia, quella di Checco Zalone? Se le parole hanno un senso, e «ironia» ne ha uno ben preciso, no, quella di Checco Zalone non è ironia.
Il Treccani dice che si tratta di una «figura retorica che consiste nell’esprimere il contrario di ciò che in realtà si vuole significare» e che ha per scopo quello di «evidenziare l’insostenibilità di ciò che si simula di sostenere o la validità di ciò che si finge di disapprovare».
Per restare al genere canoro, un esempio di canzone perfettamente ironica è quella di Cappelletti e Lamberti, portata al successo da Ugolino, nel 1969 (non farete fatica a trovarla su Youtube): descrizione della giornata infernale di un tizio che a ogni strofa fa seguire a ritornello uno sconsolato e amaro «ma che bella giornata!», che dà titolo alla canzone. Qui sì che si evidenzia l’insostenibilità di ciò che si simula di sostenere, esprimendo il contrario di ciò che in realtà si vuole significare.
È così che accade con «Immigrato»? È ironico il lamento del protagonista che viene ritratto alle prese con un immigrato che, «alluscita del supermercato», «al distributore di benzina» e «al semaforo», lo assilla con la richiesta di «due euro per un panino»? È ironico lo sconcerto nel ritrovarselo, tornato a casa dopo una giornata di lavoro, «senza permesso nel soggiorno», con inequivoco indizio che si sia scopato la moglie?
Certo, con la tresca tra moglie e immigrato ci troviamo dinanzi a un luogo comune che da sempre nutre la xenofobia: gli immigrati vengono a rubarci le donne. Ma questo è proprio quanto accade al protagonista di «Immigrato», che tuttavia al fatto pare rassegnarsi con la stessa arrendevole passività che in precedenza ha offerto allinsistenza con la quale gli era richiesta la solita monetina, peraltro mai negata.

Dove sarebbe, qui, la validità di ciò che si finge di disapprovare? Dove sarebbe il contrario di ciò che in realtà si vuole significare? In tutta evidenza non c’è traccia di ironia. Siamo piuttosto alla rappresentazione delle paure dello xenofobo, alle quali si dà corpo con situazioni fattuali che descrivono l’invadenza/invasione dell’immigrato/immigrazione come oggettivamente molesta: avremmo ironia solo se assumessimo come pacifico che la molestia è in realtà cosa gradevole e che è piacevole trovarsi un estraneo nel letto coniugale. Temo sia difficile.

È per questo che «Immigrato» va letto in modo diverso da come si è voluto leggerlo da un lato (Checco Zalone ammicca agli xenofobi) e dallaltro (ma quale ammicco, smerda gli xenofobi): il tertium di cui dicevo è che resta nel mezzo, e lì, giocando con ambiguità ed equivoco, fa contenti tutti: allo xenofobo regala il tragicomico ritratto di un italiano in cui identificarsi come vittima, che all’antixenofobo rifila come caricatura dello xenofobo da sbertucciare.
Operazione assai sofisticata, che però non è detto sia stata scientemente elaborata, perché, come su queste pagine dicevo tempo fa riguardo al grattarsi il culo, per farlo non c’è bisogno di conoscere tutto il complesso meccanismo che coordina le almeno tre dozzine di muscoli interessati, né le sette aree neuronali implicate, nel grattarselo.

martedì 10 dicembre 2019

Parliamo di sardine, vi va?





Parliamo di sardine, vi va? Bene, allora comincerei col dire che ritengo impropri i termini che sono in uso per indicare l’ordine (Clupeiformes) e la famiglia (Clupeidae) in cui Walbaum sistemò la Sardina pilchardus, e questo perché tutte le fonti antiche che fanno cenno alla clupea (Ennio, Plinio, Ausonio, ecc.) ce la descrivono come pesce assai simile alla lampreda (Petromyzon marinus), che ovviamente non ha niente a che vedere con la sardina. D’altronde c’è da capirlo, povero Walbaum, ai suoi tempi il Systema naturae di Linneo era una Bibbia e lì dentro l’aringa, in tutto affine alla sardina fatta eccezione per la taglia, era Clupea harengus, ordine Clupeiformes, famiglia Clupeidae, e quindi...

Vi sto prendendo in giro, penserete. Ma no, vi stavo solo didascalizzando – in modo grossolano, convengo – uno dei più comuni infortuni in cui si incorre quando ci si mette a discutere senza un preliminare accordo sul significato da dare al termine che designa l’oggetto in discussione, dando per scontato sia superfluo, quando invece molto spesso non lo è affatto. Molto parlare a vuoto si consuma proprio in questo modo, non credete?
Qui, per evitare l’infortunio in cui celiavo di coinvolgervi, bastava dire Sardine o «sardine»: la maiuscola o le virgolette avrebbero fatto capire che non intendevo parlare dei gustosi pesciolini ricchi di omega-3, ma degli aderenti alla cosa che ha preso vita con la manifestazione tenutasi in Piazza Maggiore, a Bologna, lo scorso 14 novembre. Manifestazione cui i promotori si limitavano a dare come obiettivo unicamente quello di «dimostrare che a Bologna siamo più di loro», e cioè più dei 5.570 che può ospitare il Paladozza, dove quello stesso giorno si teneva un comizio elettorale di Salvini: «sardine», quindi, perché, tenuto conto della capienza del crescentone di Piazza Maggiore, in 6.000 ci si poteva stare solo «stretti come».

Successo assai superiore alle aspettative, con conseguente decisione di replicare l’iniziativa in altre piazze (Modena, Sorrento, Genova, Firenze, Napoli, ecc.), che otteneva risultati ancor più lusinghieri, con comprensibile interesse dei media, che promuovevano la cosa a movimento. Ed è qui che, tornando a quanto dicevamo prima, direi si corra il rischio di dare per scontato quello che non lo è, perché in realtà per movimento si intende l«azione convergente, più o meno organizzata, di più persone che hanno ideologie e programmi operativi comuni» (Treccani).
In via preliminare, dunque, decidiamo: possiamo definire movimento, quello delle «sardine»? Nessun problema in quanto a convergenza ed organizzazione, ma quale ideologia, quale programma operativo, hanno in comune i partecipanti a queste manifestazioni di piazza?
«È venuto il momento – si leggeva nellannuncio del «primo flash mob ittico della storia» (così presentato nel lancio dalle pagine di Facebook) – di cambiare l’inerzia della retorica populista, di dimostrare che i numeri contano più della prepotenza, che la testa viene prima della pancia e che le persone vengono prima degli account social». Vederci ideologia mi pare estremamente arduo, ma almeno cera traccia di un programma operativo? Se sì, sembrava darsi nelleffimera presenza in piazza «dalle ore 20:30 alle 20:45» di quel 14 novembre, che in coda diventavano «20 minuti oggi per salvare 5 anni del tuo futuro»: dobbiamo ritenere che in quei 5 minuti di scarto ci fosse in nuce il «fenomeno di aggregazione e mobilitazione di individui che, in seguito a mutamenti socioeconomici intervenuti, sviluppano la coscienza della loro identità di gruppo sociale e si impegnano attivamente per realizzare un mutamento della loro condizione o dello stesso sistema politico» (ancora Treccani)? Non credo si possa arrivare a tanto: le «6.000 sardine contro Salvini» sembrano limitarsi a esprimere avversione – legittima avversione, peraltro ampiamente condivisibile, come dimostrano le simpatie di cui son state prontamente fatte oggetto – a chi in questo paese oggi sta allopposizione, sicché non si capisce a quale «mutamento del sistema politico» possano mai aspirare visto che in sostanza scendono in piazza in difesa di quello che Salvini – si paventa – vorrebbe sovvertire.
Né credo vada meglio con quella «identità di gruppo sociale» di cui dovrebbero avere «coscienza», perché, se è a un manifesto che di solito si affida il compito di chiarire natura e intenti di un movimento, quello delle «sardine» lo elude: quello che mobilita, infatti, non è un «gruppo sociale», ma uno stato d’animo, sicché sarebbe più opportuno parlare di un «manifesto», mettendoci le stesse virgolette che abbiamo messo a sardine e a movimento.

Chi siete? «Siamo un popolo di persone normali, di tutte le età: amiamo le nostre case e le nostre famiglie, cerchiamo di impegnarci nel nostro lavoro, nel volontariato, nello sport, nel tempo libero. Mettiamo passione nell’aiutare gli altri, quando e come possiamo. Amiamo le cose divertenti, la bellezza, la non violenza (verbale e fisica), la creatività, l’ascolto».
E questo sarebbe un «gruppo sociale»? Non scherziamo, si tratta solo di bellurie gettate in mare come reti a maglie molto strette per pescare di tutto, a strascico. Non c’è da meravigliarsi che dentro possa finirci ogni cosa, una viscida bavosa come la Pascale («Potrei scendere in piazza con loro»), una velenosa manta di fondale come Ferrara («Lasciate nuotare in pace le sardine, fenomeno consolante e nuovo»), un Cerasa che da pesce cardinale si nutre di quello che a Ferrara è rimasto incastrato tra i denti («La bellezza delle sardine è quella di essere non solo un veicolo di resistenza contro i nazionalismi nemici della libertà ma anche uno specchio del nostro impegno personale per difenderci dagli amici delle democrazie illiberali») e perfino uno spinoso pesce palla come il Mantellini («Le piazze piene di sardine, sottolineando gli abissi della destra populista, rendono palese, in maniera inedita e fragorosa, anche il vuoto culturale del centro sinistra. Le sardine sono un’occasione»).

Dai consensi che raccolgono, dalle speranze che nutrono, si ha l’impressione che si tratti dell’ennesimo «populismo dall’alto», espressione di un «popolo» che ha la pretesa di rappresentare in esclusiva le ragioni del cuore e del cervello nella perfetta sintesi di buon senso, buona educazione e buoni sentimenti, a fronte del montante «populismo dal basso», quello del «popolo» che sa farsi forte delle ragioni del ventre, che è fegato e stomaco, acido e bile, e naturalmente merda, ma anche milza, e cioè spleen, che insieme è inquietudine e tedio, accidia e sordo malumore. Qui suppongo sia superfluo segnalare quanto in entrambi casi siamo all’organicismo, che, a dispetto dell’irriducibilità con la quale rappresenta il conflitto sociale, in tasca ha già in partenza la ricetta per risolverlo in trattativa e compromesso.
Nessuna minaccia di guerra civile, dunque, nel fenomeno delle «sardine», anche se i toni suonano bellicosi, oltre che ridondanti di una retorica assai sciatta, in qualche punto francamente ridicola: «Per troppo tempo avete tirato la corda dei nostri sentimenti. L’avete tesa troppo, e si è spezzata. Per anni avete rovesciato bugie e odio su noi e i nostri concittadini: avete unito verità e menzogne, rappresentando il loro mondo nel modo che più vi faceva comodo. Avete approfittato della nostra buona fede, delle nostre paure e difficoltà per rapire la nostra attenzione. Avete scelto di affogare i vostri contenuti politici sotto un oceano di comunicazione vuota. Di quei contenuti non è rimasto più nulla. Per troppo tempo vi abbiamo lasciato fare. Per troppo tempo avete ridicolizzato argomenti serissimi per proteggervi buttando tutto in caciara. Per troppo tempo avete spinto i vostri più fedeli seguaci a insultare e distruggere la vita delle persone sulla rete. Per troppo tempo vi abbiamo lasciato campo libero, perché eravamo stupiti, storditi, inorriditi da quanto in basso poteste arrivare. Adesso ci avete risvegliato. E siete gli unici a dover avere paura. Siamo scesi in una piazza, ci siamo guardati negli occhi, ci siamo contati. È stata energia pura. Lo sapete cosa abbiamo capito? Che basta guardarsi attorno per scoprire che siamo tanti, e molto più forti di voi».
Quello che tuttavia rende evidente la reale natura del fenomeno, che peraltro non è affatto nuovo (basti pensare a quel che De Magistris è riuscito a confezionare a Napoli mettendo insieme spezzoni di borghesia post-bassoliniana, sottoproletariato urbano, e centri sociali), è l’irrinunciabile aggancio ai potentati partitici che le «sardine» chiamano a sostenere l’operazione, ma tenendosene fuori, per evitare il rischio di delegittimarla come espressione della cosiddetta «società civile»: «Crediamo ancora nella politica e nei politici con la P maiuscola. In quelli che pur sbagliando ci provano, che pensano al proprio interesse personale solo dopo aver pensato a quello di tutti gli altri. Sono rimasti in pochi, ma ci sono». E chi sono, di grazia? Perché non farne i nomi?

In quanto al «nemico», niente di nuovo, cioè, per meglio dire, di nuovo c’è che l’«uccidere un fascista non è reato» che le teste calde mettevano a ciliegina sulla torta del cosiddetto «arco costituzionale», che i partiti della Prima Repubblica si spartivano col Manuale Cencelli, qui trova forma soffice (si fa per dire), perfino rassicurante (si fa per dire), in un democraticissimo (si fa per dire) «non avete il diritto di avere qualcuno che vi stia ad ascoltare».
Poi, a sigillo, la citazione da una canzonetta, l’inconfondibile firma di chi con la sensibilità, il gusto e la cultura è rimasto ai tempi del liceo, quando il ventaglio psicologico raramente esorbita dal Postalmarket delle emozioni indossate dai cantautori. Provando a sostituire l’evocazione della prosaica scatoletta di latta con quella indubbiamente assai più lirica de Le acciughe [che] fanno il pallone mettendo in fuga il predone, a Genova sarà la volta di De André, ma a Bologna il genius loci è Dalla, e dunque: «È chiaro che il pensiero dà fastidio, anche se chi pensa è muto come un pesce. Anzi, è un pesce. E come pesce è difficile da bloccare, perché lo protegge il mare. Com’è profondo il mare». Resistendo alla tentazione di unirsi al coro, dove sarebbe questo pensiero che dà fastidio?

Personalmente sottoscrivo quanto ha detto Buttafuoco: «Sembrano usciti da una canzone di Jovanotti: da Che Guevara a Madre Teresa, un’unica chiesa... L’unica salamoia che li tiene è quella del conformismo, perché non sono forse ascrivibili al Pd, ma di sicuro lo sono al mainstrem, all’establishment... Sono tutti pronti per diventare senatori a vita, se non fosse che la piazza degli aspiranti è troppo affollata... Non fanno altro che lisciare il pelo nel verso giusto. Se c’è una cosa certa, è che non sono ribelli: non sono certo “indiani metropolitani”, non sono punk, sono benevolmente accolti da tutti i giornali più importanti, nelle trasmissioni fighette sono ospiti d’onore... Sono diventate delle star funzionali alla perenne ricerca che la sinistra fa del “papa straniero”, una volta è Saviano, una volta è l’attuale pontefice, una volta lo vanno a trovare in Carola Rackete...». Parlava a braccio, gli si può scusare qualche sbavatura di stile.