domenica 2 febbraio 2020

La partita del 26 gennaio


L’attesa ha caricato di notevole tensione l’appuntamento del 26 gennaio, per settimane e settimane praticamente non si è parlato d’altro. Comprensibile, dunque, che l’esito della contesa abbia assunto importanza via via crescente, forse anche più di quanto in realtà ne avesse, e che sul risultato, che ha dato qualche grattacapo anche ai bookmakers, fossero puntati gli occhi di tutto il Paese. Partita quanto mai sentita, sulla quale, ora, a una settimana di distanza, si può fare il punto con più serenità, e soprattutto con più lucidità, di quanto è stato all’indomani, quando ogni analisi ancora risentiva del febbricitante clima della vigilia, che ha surriscaldato più del dovuto campo e spalti.
Questa è l’intenzione che mi pongo, senza sottovalutare il rischio di aspre critiche, e da entrambe le tifoserie, per quella che metto in conto vorrà esser letta come mancanza di sensibilità calcistica, perché suppongo abbiate capito che qui m’intratterò sulla partita Napoli-Juventus, giocata giusto sette giorni fa. Suppongo sappiate pure come è andata: 2-1.
Il Napoli aveva il vantaggio di giocare in casa, forte di un tifo che da sempre in città è vissuto come fede, ultimamente tuttavia alquanto scossa da una lunga serie di sconfitte.
I tempi di Maradona sembravano lontani un secolo, e le speranze accese a inizio di ogni campionato, spesso illusoriamente nutrite da un buon esordio, anche stavolta si erano spente. Anche stavolta lo scudetto era diventato un miraggio e, partita dopo partita, ormai si scendeva in campo con l’apparente unico scopo di evitare figuracce. E non si riusciva ad evitarle. Sicché lo spogliatoio ormai era un inferno. E gli sponsor storcevano il muso. Mai così basso il numero di abbonamenti. Mai così pochi i tifosi al seguito nelle partite in trasferta, ridotti a uno zoccolo duro sempre più eroso da sconforto e rabbia.
Colpa dell’allenatore? Cambiarlo non aveva dato risultati. In ogni caso, i giocatori apparivano demotivati. Per tacer del presidente, un taccagno senza onore e senza sentimento.
Ma queste son cose che probabilmente sapevate già, mi scuso col lettore che avrò tediato con l’averle rammentate, e ancor più con quello che, da tifoso del Napoli, potrà rimproverarmi di averle illustrate in modo troppo grossolano, senza un grammo di empatia, trascurando il peso che sulle deludenti prestazioni della squadra hanno di volta in volta avuto le scorrettezze degli avversari e le ingiuste decisioni arbitrali.
È che il calcio, per dirla con un eufemismo, non è tra i miei interessi principali. Né mai lo è stato. Le poche volte che ci ho messo mano su queste pagine è per l’abuso allegorico che ne faceva la politica, da me peraltro sempre severamente biasimato.
Concedendo che il mio disinteresse per il calcio possa aver dato un quadro non precisissimo delle condizioni in cui versava il Napoli, questa era la squadra che il 26 gennaio ospitava al San Paolo la Juve, e cioè la squadra in cima alla classifica, la squadra che nel Paese conta il maggior numero di tifosi, fieri di dirsi «gobbi», la Juve cinica, cattiva e opportunista, che da un bel po’ vince e stravince, godendo d’essere odiata da chi sconfigge, apparentemente motivata più dallo «juvemerda» di chi la odia che dal «forzajuve» di chi la ama.
Una macchina da guerra contro undici depressi: quello del San Paolo era un risultato che in tanti davano per scontato. Sbagliando. Perché le cose sono andate come sapete: il Napoli ha vinto.
Ora, quando la propria squadra vince, il giubilo è sacrosanto. Poi, giacché ciascuno ha l’indole che si ritrova, è sacrosanto pure che il giubilo si esprima come a ciascuno pare più appropriato. Il tifo, tuttavia, eccita l’indole anche di chi solitamente è persona mite e ragionevole. Così, in tutta la pur ampia gamma di espressioni di giubilo cui abitualmente si abbandonano i tifosi di una squadra che ha vinto, costante è un che di esagerato, se non di irrazionale. Chi, come me, non ha mai fatto il tifo per una squadra può essere tentato alla condanna di quella che spesso ha tutti i tratti della pazzia, ma non è giusto e, seppure lo fosse, non è consigliabile. Non è giusto, perché il tifo è questione di testa solo per il poco che alla testa basta per dargli dignità di passione. Non è consigliabile, perché la passione non tollera critiche, tanto meno paternali. 
Non ci si azzardi, dunque, a far presente ai tifosi del Napoli che il loro giubilo è folle. Che il campionato non dà loro alcuna speranza. Che la Juve resta la Juve. 

domenica 26 gennaio 2020

Il buon Severino


Il buon Severino ha optato per la cremazione, suppongo sappiate. Ora, da cadavere a cenere penserete che la cosa abbia implicato un divenire, vero? Sbagliato, sguazzate nellerrore in cui sguazza tutto lOccidente, praticamente da sempre. In realtà, come ogni divenire, la combustione è fenomeno illusorio, giacché l’essere è immutabile, ingenerato, finito, immortale, unico, omogeneo, immobile, eterno, come insegnava Parmenide. E dunque che ne è stato del buon Severino? Illusoriamente è diventato cenere, ma in realtà, stante l’«apparir di esser sé in ogni essente» nell’eterno S₁, nell’eterno S₂, nell’eterno S₃, eccetera, adesso di Severini ne abbiamo 8, e tutti buoni, e tutti eterni.

venerdì 24 gennaio 2020

[...]


È escluso che la Lega riesca a conquistare l’Emilia-Romagna, a ingannare chi di qua lo teme e di là lo spera è lo stesso tipo di dispercezione, quella che ingrandisce a dismisura ciò che pare eloquentemente emblematico, e invece è solo vistosamente eccezionale, come l’ultra-ottantenne che per una vita si è orgogliosamente dichiarato comunista e ora dice che voterà Borgonzoni. Certo, la regione non è più quella di un tempo, quando le elezioni erano una formalità e il Pci-Pds-Ds-Pd vinceva a mani basse, e ha il suo bel peso il fatto che alle Regionali del 2014 a Bonaccini sia andato un 49% del solo 38% recatosi ai seggi: un’astensione al 62% segnala senza dubbio qualche malessere in cui Salvini può pescare come alternativa a un sistema di potere che per oltre 70 anni è stato incontrastato, inamovibile, capillarmente radicato sul territorio. E tuttavia Salvini è Salvini, anche per chi ha smania di cambiare per cambiare non sarà facile votare Lega infrangendo il tabù etico-estetico che lo vieta. Saranno i dati dellaffluenza alle urne a darci un primo segno che si è temuto di qua e sperato di là più del dovuto: tra gli emiliano-romagnoli che stavolta andranno a votare, mentre cinque anni fa si sono astenuti, prevarranno senza dubbio quelli cui Salvini ha placato la smania, costringendoli a tapparsi il naso per evitare che la regione viri dal rosso al verde.
Si tratta solo di quanto riesco a immaginare mettendo insieme i fatti e un po di logica, dunque è assai probabile chio sia in errore, perché oggi sui fatti è folle fare affidamento, e ancor più è farlo sulla logica. Nella malaugurata ipotesi che non vada come prevedo, tuttavia, a chi, come me, ne sarà afflitto non mancherebbe una consolazione, grama quanto si vuole, certo, ma nellafflizione uno si fa bastare il poco che ha a disposizione: mi consolerà il veder così punito il cedimento alla disonestà intellettuale di quanti – tanti – contro Salvini hanno deciso fosse legittimo fare, «a imbroglione, imbroglione e mezzo». Mai visto tante schifezze in nome di una buona causa, mi dirò che è giusto se ne paghi il prezzo. Se ritieni che lo strumento della fallacia possa tornar buono a convincerti, prima che a convincere, basta che sia appena un po’ più sofisticato di quello che impugna il tuo avversario, è giusto che tu perda. Soffri e non star lì a rompere il cazzo coi piagnucolii. Se vinci, invece, comincia a calcolare gli interessi: prima o poi pagherai.  

venerdì 17 gennaio 2020

Potrebbero derivarne problemi


Per un editoriale a sua firma, apparso sul Corriere della Sera di sabato 11 gennaio (Il razzismo e i suoi confini), Ernesto Galli della Loggia è stato fatto oggetto di molte critiche, che evidentemente aveva messo in conto, perché le rigettava in anticipo, laddove, in chiusa al testo, faceva cenno a quell’«algido idealismo che affida tutta la sua capacità di convinzione alla forza del tabù che per ogni persona civilizzata rappresenta l’accusa di razzismo».
Per come gran parte delle critiche al suo editoriale sono state argomentate, si è costretti a dargli ragione, perché a muovergli laccusa di criptorazzismo è parso potesse bastare quel suo aver fatto cenno alla percezione di diversità che si può trarre dal confronto con l«altro» come a «un dato normale dei comportamenti umani»: cosa, infatti, se non un «algido idealismo», può ardire a criminalizzare ciò che è «umano» perché «normale» e/o viceversa?

Largomento è delicato e non voglio lasciar adito a fraintendimenti, quindi chiarisco subito la mia posizione riguardo a questo aspetto, e lo faccio avanzando unipotesi.
Io credo che Galli della Loggia non si sia solo limitato a mettere in conto le critiche al suo editoriale, ma abbia anche cercato di fare in modo che fossero tali da poter essere agevolmente, a suo parere, rigettate come espressione di quegli «alti principi» che guardano all«umanità» e alla «normalità» come a «bassi istinti». «Alti principi» e «bassi istinti», infatti, sono proprio le locuzioni che sceglie, virgolettandole nel testo, per rappresentare il conflitto dal quale i primi corrono il rischio di uscire sconfitti, sicché il suo editoriale pone una questione fondamentalmente tattica: a una «politica [che] è sempre tentata di sfruttare, esasperandolo, il dato culturale-identitario, dal momento che essa vede in ciò la possibilità di fare appello alla nostra parte meno razionale, di sollecitare le nostre reazioni più immediate e magari sconsiderate», è sensato opporre solo «la forza del tabù»?
Domanda retorica, come è ovvio, e noi sappiamo che una domanda retorica mira sempre ad ottenere una risposta predeterminata. Se qui chiede e ottiene il nostro «no», è chiaro che diventa possibile e per certi versi addirittura necessaria una mediazione tra «alti principi» e «bassi istinti», una terza posizione che non criminalizzi la percezione di diversità dell«altro», a patto che da essa non discendano «misure a qualunque titolo discriminatorie».
Certo – concede Galli della Loggia – siamo in presenza di razzismo «quando con atti o con parole ci si comporta verso chi non condivide la nostra cultura in un modo che ci guarderemmo bene da adoperare con coloro che invece la condividono», ma è conveniente prima che legittimo – o, a piacere, è legittimo prima che conveniente – stigmatizzare come razzista l«umanità» e la «normalità» di quella percezione di diversità?

Altra domanda retorica. Qui la risposta suggerita come la sola possibile è un po più articolata: «denunciarla come razzista rischia solo di fare il gioco del nemico dal momento che molte persone ingenue si diranno: se questo è razzismo, ebbene io allora sono razzista». Convincente? Occorre un chiarimento. Indispensabile a procedere, come vedrete.
Questultimo virgolettato, infatti, come un altro più sopra riportato («un dato normale dei comportamenti umani»), sono nel corpo del testo pubblicato dal Corriere della Sera, ma tratti da un volume di Claude Lévi-Strauss (più propriamente da una sua conversazione con Didier Eribon, edita in Francia nel 1988, per i tipi di Odile Jacob, col titolo De près et de loin), che Galli della Loggia ha ritenuto poter addurre a incontestabile argumentum ab auctoritate. In sostanza, la risposta predeterminata che qui ci era richiesta coincideva col doveroso assenso al parere di quello che i dizionari enciclopedici definiscono «padre dellantropologia».
Indispensabile, questo chiarimento, ad introdurre la più argomentata delle critiche alleditoriale di Galli della Loggia, che infatti è stata prontamente mutuata da chiunque ha avvertito che non si potesse dargli torto opponendo solo «la forza del tabù». Mi riferisco a ciò che ha scritto Piero Vereni, «antropologo, professore associato allUniversità di Roma Tor Vergata», come apprendo dalla homepage del suo blog, Fuori tempo massimo: il suo post è divenuto in breve argumentum ab auctoritate di chi altrimenti avrebbe dovuto accontentarsi di costruire lipotesi accusatoria di criptorazzismo solo sulla base di alcune pur infelicissime immagini prodotte da Galli della Loggia a esempio di percezione di diversità dell«altro», che in quanto espressioni di stereotipi, peraltro anche abbastanza logori, avevano in radice il vizio della generalizzazione e del pregiudizio («non volere avere troppo a che fare con i nigeriani, dico per dire, a causa del loro modo di fare, o sentirsi infastiditi dall’odore del cibo cucinato dai bengalesi, o trovare sgradevole l’idea di avere dei vicini di casa rom»).

Quanto sia stato letto con attenzione, il Vereni, non ha importanza, contava che, da antropologo, potesse offrirsi ad argumentum ab auctoritate a destituire di auctoritas largumentum ab auctoritate scelto da Galli della Loggia. E in questo, occorre dire, non si è risparmiato, perché quasi la metà delle sue 26.653 battute spazi inclusi è spesa a dirci che quello di De près et de loin è un Lévi-Strauss ultra-ottantenne e semi-rincoglionito, «rincantucciato in un conservatorismo imbarazzante, che gli veniva benevolmente concesso, almeno in Francia, per la grandiosità di quel che aveva pensato e scritto fino agli anni Settanta», e che il volume stesso altro non è che «un piccolo esercizio di furbizia editoriale, che immagino Eribon abbia saputo sfruttare per la sua carriera accademica».
Sarà che i maldicenti pettegolezzi degli accademici sono sempre molto più affascinanti di quelli delle shampiste, ma almeno a me il Vereni ha dato limpressione di sapere il fatto suo.
Poi, però, cè che l’impressione non basta, e per una diagnosi di semi-infermità mentale, per una condanna al ludibrio per posizioni ideologiche, è possibile venga voglia di argomenti, e uno non ne trovi di convincenti. Però almeno trova le ragioni per le quali Lévi-Strauss avrebbe torto, e con lui ovviamente anche Galli della Loggia. Vale la pena darci un’occhiata.
È che entrambi hanno un errato concetto di cultura: le attribuiscono due caratteristiche (compattezza interna e distinzione) che non hanno e non possono avere.
«Oggi – scrive il Vereni – l’antropologia culturale non vede più le culture come entità separate e nettamente distinte, ma dispone “il culturale” in un continuo che non è meno significativo né meno distintivo per il fatto che, oggettivamente, non consente la tracciatura di confini oggettivi nitidi. Ogni individuo dispone di porzioni di quella che lui considera “la sua cultura” ma contemporaneamente dispone di porzioni di culture “altre”, senza eccezioni».
Se però è così che stanno le cose, il problema non è solo il vecchio Lévi-Strauss: in quale opera del giovane Lévi-Strauss, infatti, vè cenno a questo «continuo culturale» che renderebbe immotivata, se non per pregiudizio criptorazzista, la percezione di diversità che un cacciatore nambikwara del Mato Grosso può avvertire dinanzi a un ragioniere brianzolo e viceversa? E allora che senso aveva calcare tanto la mano sulla vecchiaia del Lévi-Strauss di cui si serve Galli della Loggia? Bastava dire che, sì, sarà stato pure il «padre dellantropologia», ma poi quella è cresciuta e lha ripudiato.

Ma cè di più. Volendo, infatti, recepire in toto la critica a un concetto di cultura cui si attribuiscano stati danimo e sentimenti autonomi – in realtà solo per metonimia, perché è evidente che questi sentimenti e stati d’animo sono attribuiti a chi si percepisce, a torto o a ragione, in un distinto perimetro culturale – in che modo pensiamo di poter fare i conti con la percezione di diversità che il cacciatore del Mato Grosso può avvertire rispetto al ragioniere di Monza, e viceversa? Più in generale, il concetto di cultura che il Vereni ci assicura essere quello genuino consente ancora, chessò, a un forlivese di poter dire che un certo tipo di cucina – bengalese o meno – non gli aggrada? Potrà scappargli ancora di dire, distinto, che trova più graziosi i genitali femminili al naturale che dopo uninfibulazione?
Perché è chiaro che dopo la lectio magistralis del Vereni nessuno oserà più disegnare confini netti tra cultura e cultura, ma poi può darsi che nel «continuo culturale» a qualcuno possa scappare lo stesso di cogliere un «di qua» e un «di là» e dallarco riflesso del nostro aggiornatissimo concetto di cultura possa partire il dardo di unaccusa di criptorazzismo. Ho come il presentimento che potrebbero derivarne problemi.


martedì 7 gennaio 2020

Nessuno tocchi Taradash


Non farete fatica a trovare in rete le prove dellindefesso impegno profuso da Marco Taradash in favore dell’istituzione del Tribunale penale internazionale, organo giurisdizionale fortemente voluto dai Radicali come presidio di garanzia nella somministrazione di giusta pena, dopo giusto processo, ai responsabili di crimini commessi in nome e per conto di stati canaglia, altrimenti punibili solo con iniziative arbitrarie, colpi di mano, roba più simile alla vendetta che alla giustizia. Né farete fatica a rintracciare le iniziative che l’hanno visto in prima linea contro la pena di morte, solidale, quando non organico, alle storiche battaglie di un’organizzazione eloquentemente denominata Nessuno tocchi Caino.
Vi avverto, nel cercare potrà capitare v’imbattiate pure in questo:


Qui non fate l’errore di pensare che quell«è bastata» faccia sfregio a Caino col considerare la sua morte una bazzecola o che Taradash non abbia chiara la gravità dell’andare ad ammazzare a casa sua uno che agli iraniani era più caro di quanto negli ultimi tempi Pannella lo fosse ai Radicali. È che di tanto in tanto un tiramento mette in moratoria i principi, ma è questione di attimi, poi semmai un drone iraniano incenerisce Mike Pompeo mentre sta al barbecue nel suo giardino, e i valori tornano valori, la vita umana ridiventa vita umana, la stella polare della giustizia giusta torna a risplendere, eccetera, eccetera. Mai smesso di esser Radicale, Marco Taradash, si può chiudere un occhio su questa piccola parentesi sunnita. 

[...]


La compassione che ci muove al gesto caritatevole procede figuratamente dal cuore, ma anche dallo stomaco. È per questo che, quando il gesto caritatevole è solo formale, stomaco e cuore ci paiono impermeabili alla compassione, figuratamente ricoperti di pelo, il che rivela in quel gesto, come si è soliti dire, una «carità pelosa».
Ogni atteggiamento caritatevole può lasciar adito a ritenere sia peloso, e questo è quanto in realtà accade con quella forma assai evoluta di carità che vediamo in atto nel cosiddetto garantismo, in cui la χάρις dà ragione delle sue accezioni quali grazia, rispetto, buon ufficio, e la caritas non sta per elemosina, favore o cortesia, ma per quel fraterno amore che dovrebbe unire tutti gli uomini in nome, se non di Dio,  della comune umanità, della pari dignità umana, ecc.: qui, in effetti, non di rado accade che la compassione agisca in modo discontinuo, estremamente sollecita con chi ci è amico, assai poco con chi non lo è, per niente con chi ci è nemico (dove la diade amico/nemico è rimpiazzabile da quelle similari quali simpatico/antipatico, vicino/lontano, ecc.).
Cè bisogno di qualche esempio di questo «garantismo peloso»? Sia.
Dicembre 2016, Lotti risulta indagato per favoreggiamento e rivelazione di segreto istruttorio nellinchiesta sugli appalti Consip, e cè chi ne chiede le dimissioni (è stato Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei Ministri col Governo Renzi, sarà Ministro per lo Sport col Governo Gentiloni quando la mozione di sfiducia sarà votata in Parlamento nel marzo 2017). Renzi chiede e ottiene che le forze politiche che sostengono il Governo respingano la mozione: «Si è colpevoli solo dopo condanna definitiva».
È lo stesso Renzi che ha chiesto le dimissioni di Alfano sul caso Shalabayeva, della Di Girolamo perché indagata per presunte irregolarità nei pagamenti di una Asl del beneventano, di Lupi per il coinvolgimento nello scandalo Grandi opere e della Cancellieri perché si è spesa in favore di Giulia Ligresti, lodando le dimissioni di Josefa Idem, sulla quale giravano voci di mancato pagamento di oneri previdenziali, ma neppure era indagata. A ciascuno la valutazione di quanto sia lungo il pelo su quel «si è colpevoli solo dopo condanna definitiva».
Se quanto fin qui detto può aver chiarito, mi auguro, qualcosa riguardo al «garantismo peloso», resta senza spiegazione cosa sia il «giustizialismo peloso» che, meno di un mese fa, Renzi ha stigmatizzato nel corso di un suo intervento al Senato, tutto teso a esprimere quanto fastidio gli avesse dato che qualche magistrato mettesse naso nei movimenti sul suo conto corrente che, per legislazione vigente, la sua banca era tenuta a comunicare allUfficio antiriciclaggio della Banca dItalia: «Massimo rispetto per la magistratura – diceva – ma diritto e giustizia sono una cosa diversa dal giustizialismo peloso». Che potrà essere mai? Su quale organo, qui, può figuratamente immaginarsi il pelo? Per renderlo impermeabile a cosa, poi?
Domande che non hanno senso, so bene, è inutile me lo facciate presente: Renzi ne è emblematico, ma che il linguaggio della politica sia da qualche tempo diventato impermeabile all’analisi logica è dato pressoché generale. Qui semplicemente devessersi trattato di uno dei tanti incidenti in cui incorre lo scilinguagnolo quando si premura di essere brillante ricorrendo alla sostituzione o allinversione di termini in locuzioni correnti, sennò al doppio senso offerto da uno dessi, o finanche al possibile gioco di assonanza o consonanza, come efficacemente illustrato da Crozza: «Contaminarsi per contare e sperare di non sparire. Contagiarsi per agire nellagio e raggirare chi conta. Contagiarsi per chi sa cogliere la forza di Italia Viva, perché lItalia con Italia Viva viva ancora di Forza Italia» (Nove, 18.11.2019).


Appendice

Scrivere di getto, come mi è di abitudine, comporta qualche imperdonabile lacuna. Qui, nel caso del «garantismo peloso», omettevo di considerare la variante che non si rivela nellintermittenza della χάρις e della caritas sublimate a rispetto dello stato di diritto, ma nella sua costanza, in vista di un ritorno di vantaggio personale. È il caso in cui pelo chiama pelo. Ma suppongo che anche qui sia necessario produrre un esempio.



lunedì 6 gennaio 2020

La morte di Luigi Calabresi





«La verità sulle questioni cruciali
appare esclusivamente tra le righe»
Leo Strauss



Una premessa alla premessa
Attenzione, il titolo di questa pagina è ingannevole!

Chiarimento della premessa alla premessa
Mettiamo caso andiate a teatro. Danno il Giulio Cesare di William Shakespeare. Ci andate in compagnia di un conoscente che sa tutto della Roma dei tempi di Cesare e dell’Inghilterra dei tempi di Shakespeare, e che a cena, dopo lo spettacolo, vi intrattiene in cento e cento note a pie’ di testo. Dice che, ai tempi di Cesare, la pederastia era ampiamente tollerata e non era affatto raro che il pederasta finisse con l’adottare il ragazzo cui si era affezionato: «Conosciamo i gusti sessuali di Cesare, non è da escludere che l’adozione di Bruto...». Poi passa a Shakespeare, dice che in molti suoi sonetti sono evidenti forti indizi di omosessualità: «Prendi il n. 20, per esempio, con quel “Master Mistress of my passion”...». Mettiamo che torniate a casa, andiate a letto e sogniate di Cesare, e di Bruto, e di Cassio, e di Marco Antonio. Il fatto è che i personaggi della tragedia sono gli stessi che avete visto qualche ora prima, ma nel sogno la vicenda scorre in tutt’altro modo. L’indovino, per esempio, dice a Cesare di guardarsi dalle idi di agosto, e dice proprio «agosto», il che è del tutto inverosimile, perché, ai tempi di Cesare, «agosto» è ancora «sestile» (lo diventerà solo una ventina d’anni dopo la sua morte, in onore di Augusto, che peraltro in quel momento neanche è «Augusto», ma ancora Gaio Ottavio). Cesare, poi, non viene pugnalato, ma freddato con due colpi di pistola. Idem per l’oratio funebris di Marco Antonio: più che aizzare il popolo contro i cospiratori, sembra voler calmar le acque, roba del tipo «vabbè, è andata, e certo non è stata cosa bella, non si fa, ma adesso che vogliamo fare, un’altra guerra civile come quella dei tempi di Mario e Silla?». Non basta, perché su tutta vicenda, nel sogno, sentite che aleggia una pesante ambiguità, come se i moventi dell’assassinio di Cesare fossero tutti passionali, segnati da una sottintesa trama di relazioni omosessuali: perdutamente innamorato di Bruto, Cassio cerca di portarlo via a Cesare; Marco Antonio, che fin lì di Cassio è stato amante, cerca di far capire a Cesare cosa stia accadendo a sua insaputa; Bruto non sa cosa fare, volentieri cederebbe alle attenzioni di Cassio, però i sensi di colpa lo frenano. Quasi un erotic thriller, diciamo, non fosse che tutto è tanto sottinteso da poter passare per allegoria politica.
Non vi è del tutto chiaro, vero? Perfetto, procediamo.
Mettiamo che al risveglio vi venga voglia di annotare da qualche parte il sogno che avete fatto, e che alla pagina decidiate di mettere un titolo, e che La morte di Giulio Cesare vi possa sembrare vada bene, perché in fondo è della sua morte che avete sognato. Però mettetevi nei panni di chi abbia a trovarsi tra le mani quella pagina: il titolo rimanda alla Roma del 44 a.C., ma l’incipit dà voce a un Marullo che rimanda a The Tragedy of Julius Caesar (Atto I, Scena I); è chiaro, dunque, che la pagina rimanda alla trasfigurazione artistica di una vicenda storica, se non fosse che anche quella deve aver subito una trasfigurazione, perché Marullo cita brani da Die Geschäfte des Herrn Julius Cäsar di Brecht; «sarà una fiction», penserà a quel punto chi legge, ma qui sorge un problema, perché in esergo alla pagina c’è una frase tratta da Persecution and the art of writing di Leo Strauss, che parrebbe insinuare che la fiction sta solo nell’aver confezionato la pagina come annotazione di un sogno, che in realtà non avete fatto.
Niente affatto chiaro, vero? Benissimo, procediamo.

Premessa
Quando fu ucciso Luigi Calabresi, avevo quindici anni. A quei tempi ero iscritto alla Fgci e, fra i sei o sette quotidiani cui la sezione del Pci che ci ospitava era abbonata, c’era pure Lotta Continua (non stupisca, c’era pure Il Secolo d’Italia, in ossequio al principio che «il nemico va studiato»), sulla quale, qualche giorno dopo quell’omicidio, lessi che doveva essere inteso come «un atto in cui gli sfruttati riconoscono la propria volontà di giustizia». La cosa mi colpì particolarmente (si tenga conto ai quei tempi ancora non s’era inaugurata la stagione di caccia al servitore dello Stato, che di lì a poco avrebbe visto in gara estremisti di destra e di sinistra a chi di più riempiva il carniere), perché, in buona sostanza, ci leggevo la fierezza del boia. Un boia molto sui generis, ovviamente, perché quando ti senti avanguardia degli «sfruttati», fai tua la loro «volontà di giustizia», additi in un tizio il loro «nemico», e scrivi «gli siamo alle costole», «dovrà rispondere di tutto», «di questi nemici del popolo vogliamo la morte» (Lotta Continua, 6.6.1970), non cè bisogno che tu lo sia materialmente.
Impressione, questa, che non sono mai più riuscito a rimuovere nei decenni trascorsi fin qui, e che, pur nella convinzione che le responsabilità penali di quellomicidio siano state attribuite a Sofri, Pietrostefani e Bompressi in modo assai opinabile, quelle morali e politiche, una volta tanto coincidenti, fossero tutte da ascrivere a Lotta Continua, come daltronde, seppur decenni dopo, gli stessi dirigenti della formazione politica si dichiararono disposti a concedere. Che Calabresi avesse ucciso Pinelli, sia chiaro, era un fatto che a quei tempi non era solo Lotta Continua a dar per certo – a tratteggiare il contesto basta pensare a un film come Indagine di un cittadino al di sopra di ogni sospetto (Elio Petri, 1970) e a una commedia come Morte accidentale di un anarchico (Dario Fo, 1970) – e tuttavia nessun altro in quella vicenda ebbe ad arrogarsi, insieme, il ruolo di pubblico accusatore, di giudice e, se non proprio di boia per quanto già detto, di suo mandante. Da un quindicenne, però, capirete, non si può pretendere troppa finezza di distinguo.
Uscito da quegli anni, teatro di mille altre nefandezze, quella rimaneva un chiodo fisso, al quale appendevo via via tutto ciò che se ne diceva e scriveva. Poi, un giorno, quando già da un pezzo Sofri e Bompressi erano in carcere e Pietrostefani in Francia, mi ritrovai a parlarne con Bordin, uno che della sinistra extraparlamentare degli anni 70 era più esperto di quanto Mommsen lo fosse della Roma del 44 a.C., però con quel di più di conoscenza «minuta» sulla quale la storiografia ha saputo darci lumi solo da Bloch in poi. Nella Römische Geschichte, infatti, non troverete traccia di cosa usassero i romani al posto della carta igienica, né ne L’orda d’oro di Balestrini e Moroni chi fosse il miglior pokerista dell’avanguardia proletaria. Bordin, invece, sapeva tutto di tutti, e alla terza grappa era un fiume in piena. Il fesso che sta a sentinella del buonsenso li avrebbe definiti pettegolezzi, fatto sta che quegli incredibili ritratti umani e quelle ancor più incredibili vicende personali davano modo di comprendere il «method» di tutta quella «madness», sicché sembrava di poter cogliere il cosiddetto «fattore umano» dei cosiddetti «anni di piombo», e – voilà! – perdeva senso chiedersi se Barbone avesse ucciso Tobagi perché manovrato da qualcuno che lavorava al Corriere della Sera o perché pensava che quell’omicidio gli avrebbe fatto maturare credito per diventare un capocolonna delle Br: «Lasci da parte il “perché”, Castaldi, e guardi il “chi”: si “pente” due minuti dopo l’arresto».
Così sullomicidio Calabresi. Sarà stato nel 2005 o nel 2006, non lho annotato, ma di certo era estate, perché nella bella stagione uno dei ristoranti dove eravamo soliti pranzare piazzava una mezza dozzina di tavoli nel suo cortile interno coperto da un bel pergolato, dove era possibile fumare, e ho ben chiaro il ricordo che in quelloccasione fossimo allaperto. Poi cè che ogni volta che ci incontravamo ero solito portargli in dono un libro, ma solo per imbarazzarlo, perché di regola erano del tutto astrusi ai suoi interessi ed era delizioso vedere la sua reazione al mio «è un classico, ma sono certo che le manca». Giacché la volta prima, al Momo di Leon Battista Alberti, mi aveva detto: «Questi non sono doni, sono accuse di ignoranza», quel giorno gli porsi lopera omnia di Spinoza dicendo: «Guardi come la copertina di questo Meridiano si intona bene alla sua giacca». Una delle sue peggiori giacche, occorre dire, però dun celestino decisamente estivo. E visto che fu proprio da Spinoza che partì la discussione, cioè, per meglio dire, la sua lectio magistralis sul caso Sofri, sì, si era in estate o sarà stato tuttal più maggio o settembre, agosto certamente no, perché ad agosto non ci incontravamo mai.
Mi sto perdendo nei dettagli, vero? Ok, salto Spinoza e arrivo subito a quelle nove o dieci frasi dette nello stile terso e vivace che lo rendevano tanto amabile.
«È un errore pensare che gli omicidi degli Anni di piombo siano stati ideati da menti diaboliche. Rammenta cosa ha scritto Massimo Fini poco tempo fa in quell’articolo che ha fatto tanto incazzare Oreste Scalzone? Riuscita l’analisi del contesto, ma il fatto che anche lui creda a Leonardo Marino... Inconcepibile! Delitti come quello di Calabresi si spiegano in modo assai più semplice. E direi che è proprio questa semplicità che li fa tragici. La cosa non deve essere stata poi tanto diversa dall’omicidio Pecorelli, solo che in quel caso Andreotti può aver detto “O.P. sta a ròmpe er cazzo”, mentre Lotta Continua ha scritto “Calabresi è un assassino e pagherà”. Un cretino, uno zelota, un picciotto che vuole diventare capomandamento – non ha importa cosa – si sente investito di un mandato, e Andreotti e Sofri di botto diventano mandanti? Cazzate. A mio modesto avviso, a uccidere Calabresi è stato un militante di Lotta Continua che faceva parte del servizio d’ordine, ma non a Milano...».
E qui fece un nome, ma, subito pentito daverlo fatto, aggiunse: «Si tratta solo di un’ipotesi, ovviamente». E non sembrò bastasse, perché seguì: «Conto sul fatto che lei dimentichi quel che ho detto». Risposi: «Proverò. In caso contrario potrà sempre dire che me lo son sognato: lei gode di ottima reputazione, io no».

Materiali e metodo
«La persecuzione dà luogo a una particolare tecnica letteraria, in cui la verità delle questioni cruciali appare esclusivamente tra le righe. Questa letteratura è indirizzata non già al lettore qualunque, bensì esclusivamente al lettore fidato e intelligente. Ha tutti i vantaggi della comunicazione privata (di raggiungere, cioè, soltanto i conoscenti dell’autore); gode i vantaggi della comunicazione pubblica, senza sottostare al suo svantaggio più rimarchevole (cioè, la pena capitale per l’autore). Ma come è possibile inverare, pubblicando i propri scritti, un tale miracolo: quello, cioè, di parlare a una minoranza restando però muti per la maggioranza dei lettori? […] Tono tranquillo, senza dare spettacolo e, anzi, perfino un po’ annoiato, in modo tale da ottenere un effetto di assoluta naturalezza […] Abbonderebbe in citazioni e attribuirebbe una importanza spropositata a dettagli insignificanti […] Ma una volta arrivato al cuore dell’argomentazione, allora scriverebbe tre o quattro frasi in quello stile terso e vivace che è in grado di attrarre l’attenzione di chi ama pensare» (Leo Strauss – Persecution and the art of writing).
«Nella copia che Bach inviò al re, sulla pagina che precede il primo foglio di musica, c’era la seguente scritta: “Regis Iussu Cantio Et Reliquia Canonica Arte Resoluta”» (Douglas Hofstader – Gödel, Escher, Bach: un’Eterna Ghirlanda Brillante).

Sviluppo
Lultimo scorcio del 2019 ci ha offerto su Il Foglio un interessante battibecco tra Adriano Sofri e Giampiero Mughini sul dettaglio che ha avuto ruolo centrale lungo tutto liter processuale esitato in via definitiva con la condanna di Sofri e Pietrostefani come mandanti e di Bompressi come esecutore, in concorso con Marino: il 13 maggio 1972, al comizio in conclusione al quale sarebbe stato mandato a Marino, piovve, non piovve o prima piovve e poi spiovve? Interessante per modo di dire, perché, con tutte le incongruità di cui son state infarcite le versioni date da Marino, è incredibile che sia ancora questo il punto ritenuto decisivo, a fronte del fatto che Pietrostefani non era a Pisa il 13 maggio, come invece a lungo sostenuto da Marino, e molto probabilmente Bompressi neppure era a Milano il 17 maggio, tanto più che alla guida dellauto con la quale il riccioluto Marino affermava di aver condotto Bompressi in via Cherubini più dun testimone riferiva di aver visto un tizio dai capelli lunghi e lisci, forse una donna, mentre al posto di un Bompressi dai capelli scuri, dalla pelle olivastra e alto quasi un metro e novanta cera un sempronio dalla carnagione chiara, coi capelli di color castano chiaro, alto intorno al metro e settantacinque. Anche in questa occasione, d’altronde, Sofri ribadisce che «la pioggia non era affatto un motivo per sostenere che io non avessi incontrato il mio accusatore»: poteva averlo incontrato, certo, ma questo non provava che gli avesse conferito il mandato di uccidere Calabresi.
Un processo costruito tutto sulle dichiarazioni di un pentito manifestamente inattendibile, costretto a rettificare di continuo le innumerevoli contraddizioni della sua versione iniziale con aggiustamenti ancor più contraddittori, senza mai riuscire a offrire dati di riscontro certi, sennò offrendone di risibili. E questo a voler sorvolare sulla genuinità degli scrupoli morali che egli diceva fossero ragione del suo pentimento, e ancor più su come i suoi ricordi furono rappezzati alla meno peggio in una caserma dei carabinieri a confezionare unipotesi accusatoria che poteva reggere solo a volergli credere comunque, qualsiasi cosa dicesse. Non era il caso di invocare lo stato di diritto, bastava appoggiarsi alla sola logica e i tre andavano assolti. E invece furono condannati.
Come fu possibile? Qui un accanito anticomplottista come Bordin ipotizzava un complotto. Semplifico, ovviamente, perché lui era in grado di porgere lipotesi in modo assai più elegante: Sofri era vicinissimo al Psi, in particolare a Martelli; tra Pci e Psi si andava a preparare uno scontro senza esclusioni di colpi che avrebbe visto il culmine in Mani pulite; la magistratura era schierata quasi tutta col Pci; e poi Sofri era una pedina da sacrificare senza farsi troppo scrupoli perché «antipatico», come finì per farsi scappar di bocca pure il pm che sosteneva laccusa al processo dappello del 1990. Dellipotesi di Bordin solo questultimo punto mi è sempre sembrato solido e – so bene che sto per fare unaffermazione scandalosa – perfino sufficiente, qui in Italia, a maldisporre un giudice alle ragioni della difesa. Quindi, di là dal fatto che a qualcuno Sofri sarà simpatico e a qualcuno no, non sarà superfluo porsi il problema di quali fossero gli elementi che potessero generare questa fatale antipatia. Qui torna utile larticolo di Fini cui faceva cenno Bordin.
«Negli anni Settanta tutta l’“intellighentia” italiana si era spostata allestrema sinistra. Non cera intellettuale, scrittore, giornalista (con leccezione di Montanelli, Biagi e qualche altro cane sciolto), sociologo da terza pagina del Corriere, mondana, mignottina da salotto che non si dichiarasse per la rivoluzione. E la borghesia, con i suoi giornali, aveva seguito londa. Sia per opportunismo, sia perché in fondo, si trattasse del Movimento studentesco, di Lotta Continua, di Avanguardia operaia o di Potere Operaio, quei rivoluzionari da salotto erano, nella stragrande maggioranza, “figli di famiglia”, erano figli suoi e se li coccolava e vezzeggiava. La copertura alle violenze di quegli anni non fu data tanto dal Pci, che anzi mal tollerava di essere scavalcato a sinistra da degli extraparlamentari che predicavano una rivoluzione a cui i comunisti avevano rinunciato da tempo […] Del resto qualche anno dopo, quando il terrorismo brigatista mieteva una vittima al giorno e altre ne “gambizzava” come si diceva allora con un orrendo neologismo, due guru della cultura italiana, Alberto Moravia e Leonardo Sciascia, si dichiararono “né con lo Stato né con le Br”. [...] La magistratura non poteva indagare nella galassia dellestremismo extraparlamentare di sinistra senza essere sommersa dallunanime coro della “montatura”, della “provocazione”, del “complotto”. Le piste dovevano essere sempre e solo “nere”. […] Persino per lomicidio Calabresi si preferì imboccare la strada delle “piste nere” e perdere tempo a inseguire un certo Nardi, figlio di armaioli di San Benedetto del Tronto, e altri stracci del genere, nonostante Lotta Continua, sul suo giornale, si fosse attribuita, almeno moralmente, lassassinio e fosse del tutto improbabile, almeno allora, che della gente di destra ammazzasse un commissario di polizia, oltretutto accusato da tutto lambiente di sinistra di aver fatto volare dal quarto piano della Questura di Milano un anarchico, Giuseppe Pinelli. È anche per questo che bisognerà aspettare alcuni lustri e la confessione di Leonardo Marino per arrivare a Bompressi, a Pietrostefani e a Sofri. Del resto tutti sapevano che Lotta Continua, come peraltro Potere Operaio, aveva un “livello illegale” che si occupava quantomeno di far delle rapine, per finanziare, oltre che con gli “espropri proletari”, il gruppo. [...] Ma al processo Sofri, Pietrostefani e Bompressi negarono anche lesistenza del “livello illegale”, anche levidenza, e penso che sia anche per queste menzogne puerili che poi non furono creduti dal Tribunale sulle questioni più importanti».
Si può essere daccordo o no con questo spaccato sociologico, di fatto, dopo la Marcia dei Quarantamila del 1980 e dopo il referendum sulla scala mobile del 1985, il clima cambia di colpo, lanelito rivoluzionario accusa un repentino riflusso, e – prosegue Fini – «questi rivoluzionari da burletta che il giorno scendevano in piazza a gridare slogan truculenti, a spaccare vetrine e crani, a ingaggiare battaglie con la polizia a colpi di molotov, e la sera, tornati a casa dai loro babbi e mamme borghesi, tutti orgogliosi di quei loro figlioli così deliziosamente antiborghesi, si precipitavano a telefonare alle loro amiche per organizzare feste in qualche bella villa, [...] non solo non hanno pagato alcun dazio per le loro imprese, ma sono stati premiati e oggi fanno i deputati, i senatori, i direttori di giornale, di reti televisive, gli opinionisti. Sono degli impuniti. E non ci si può quindi meravigliare se non hanno nessun senso delle proprie responsabilità. Loro hanno sempre ragione. Avevano ragione quando facevano i comunisti e hanno ragione adesso che sono diventati liberali. Oggi questi irresponsabili costituiscono una buona parte della classe dirigente, equamente distribuiti fra destra e sinistra».
Comprensibile che questo fosse intollerabile per chi non poteva digerirli prima, ma ancor più comprensibile che questo generasse risentimento, per esempio, in un Marino, che non era riuscito a riciclarsi come un Liguori, un Panella, un Deaglio, un Guarini, un Capuozzo, un Miccichè, un Vincino, tutti un tempo lottacontinuisti come lui. Ben lungi da essere un dato di riscontro oggettivabile, dunque, l«antipatia» di Sofri bastava e avanzava per chiamarlo a pagare in nome e per conto di tutti quelli che lo avevano avuto a leader carismatico. Può far orrore, anzi, deve, ma, al pari della «giustizia proletaria» che non riuscì a trovare altra forma che quella della vendetta per chiudere i conti con la morte di Pinelli, floppando, anche la «giustizia borghese» non trovò di meglio per chiudere i conti con la morte di Calabresi, con un altro flop: la responsabilità morale e quella politica dovevano coincidere con quella penale, Marino dove esser creduto, perché, seppure quel 17 maggio 1972 in via Cherubini non cerano stati lui e Bompressi, qualcun altro cera stato, e il mandato non gli era stato dato a Pisa quattro giorni prima, ma comunque da Sofri, dalle pagine di Lotta Continua. Ma ripeto: può far orrore, anzi, deve.

Annotazione di un sogno
Tornato a Napoli, quella notte sognai. E sognai chi a pranzo Bordin mi aveva detto fosse per lui il vero assassino di Calabresi. Mi fissò coi suoi occhi azzurri e disse: «Gli hai creduto? Sbagli».