Qualche pagina fa (Alla radice di una certa presunzione di superiorità morale – Malvino, 7.10.2020), ho scritto che forse è Wittgenstein a dare «la miglior definizione» di Weltanschauung dove afferma che «etica ed estetica sono tutt’uno» (Tractatus logico-philosophicus, 6.421). In realtà, l’affermazione non ha neppure la struttura sintattica di una definizione, tuttavia mi pare colga un tratto essenziale – direi quasi fondante – di un’ideologia: per aver piena ragione della visione del mondo che rappresenta, essa non può rinunciare a inscrivere il suo ordine morale in una dimensione formale nella quale ogni significato etico abbia un significante estetico ben riconoscibile, sicché non può fare a meno di dirsi vera in quanto buona e non può fare a meno di dirsi buona in quanto bella. Ne consegue che tutto ciò che la contesta è falso perché cattivo, ed è cattivo perché brutto: l’interdizione morale, insomma, si traduce in censura di ciò che sul piano formale si pretende sia riprovevole perché sgradevole e inopportuno perché sconveniente. Accade quasi sempre, così, che le leggi morali che una visione del mondo si è data assumano forma di norme di un galateo, e che la loro violazione assuma il senso di una messa in discussione della verità che essa ritiene indiscutibile.
Un esempio di quanto si è fin qui detto ci è offerto, sul piano lessicale, dalla censura che cade su alcuni termini che una certa sinistra avverte come discriminanti, e dunque offensivi, ai danni delle minoranze di cui si intesta in esclusiva la cura degli interessi. In questo caso, come ho già scritto altrove (Cose così – Malvino, 27.10.2020), la censura suona al modo cui Ricolfi ha così dato voce nel suo Perché siamo antipatici (Longanesi, 2005): «Tu non devi parlare come vuoi». Ora qui potremmo intrattenerci a lungo sulla reale efficacia di questa cura che, pretendendo si parli di «individuo verticalmente svantaggiato», non è comunque in grado di far crescere neppure di un centimetro un «nano», e tuttavia parrebbe che un dubbio al riguardo, per quanto ogni volta prontamente rimosso, insidi fin dal di dentro la politically correctness, costringendola a quell’incessante affanno dietro a ellissi, perifrasi, reticenze ed eufemismi per fare del «minorato» un «invalido», e di un «invalido» un «handicappato», e di un «handicappato» un «portatore di handicap», e di un «portatore di handicap» un «disabile», e di un «disabile» un «diversamente abile», senza che mai, peraltro, risulti pienamente soddisfatto il tentativo di mutare realmente la condizione dell’individuo in oggetto. Il termine censurato, così, diventa una minaccia, perché rivela l’inedaguatezza del mezzo che l’ideologia impiega al fine di offrire la sua visione del mondo come universalmente accettabile.
Questo è quanto accade con un termine come «vecchio», al quale si pretende sia preferito quello di «anziano» (per fortuna non si arriva a pretendere che sia sostituito da «diversamente giovane») a neutralizzare ogni possibile insinuazione che «vecchio» possa significare «inutile». Sul piano lessicale è interessante osservare che la censura, qui, opera un’inversione prospettica (con l’aggettivazione di un avverbio come «antea» l’«anteanus» diventa colui che viene molto prima, mentre «vetus» è colui che sta molto dopo) come a mettersi di spalle allo scorrere del tempo per evitare di vederne il termine, in una sorta di procedura esorcistica atta a rimuovere il pensiero della morte. Tutto questo, ovviamente, non è detto accada in modo cosciente, anzi è assai probabile che non lo sia per niente (il conformismo verbale non ha bisogno di darsi ragioni che abbiano fondamento logico, figuriamoci filologico), e che «vecchio» sia censurato per la semplice ragione di avere un suono troppo duro rispetto ad «anziano». È quanto accade, per esempio, con esclamazioni come «Cristo!» e «Gesù!», dove con la prima si ha sensazione che si stia imprecando da blasfemi e con la seconda che si stia invocando da devoti.
L’occasione per parlare della censura che la politically correctness muove all’uso del termine «vecchio» mi è data dalla sanzione morale che di recente è stata somministrata al professor Roberto Bernabei, primario geriatra presso il Policlinico «Agostino Gemelli» di Roma e membro del Comitato tecnico-scientifico del cui parere il Governo si avvale nella gestione della crisi da Covid-19, reo di averlo usato nel corso della puntata di Piazza Pulita andata in onda giovedì 5 novembre su La7. Sanzione morale tanto più dura, ovviamente, perché il Bernabei è geriatra, dacché ne conseguiva che, se l’uso del termine poteva essere messo in discussione sul piano estetico, in discussione giocoforza era anche il profilo deontologico del medico che ne faceva uso. Così è suonata la condanna: «Il geriatra che parla di “vecchi”. Ora manca solo il pediatra che cita i fottuti lattanti» (@mante, 6.11.2020). Tutto ciò che il Bernabei aveva detto nel corso di quella trasmissione poteva essere eluso, dando per scontato che per tenore etico non potesse essere migliore. E però si è detto che «etica ed estetica sono tutt’uno», e questo ovviamente deve valere anche per la visione del mondo che si oppone a quella che ritiene eticamente ed esteticamente riprorevole l’uso del termine «vecchio», sostenendo che invece «è la parola che definisce con gran rispetto un pezzo della nostra vita», come ha tenuto a precisare appunto il Bernabei a Myrta Merlino che gliene chiedeva conto stupita del fatto che «“vecchio” è una parola che non usa più nessuno» (L’aria che tira – La7, 6.11.2020). C’è da presumere che abbia un approccio al Covid-19 diverso da quello ormai prevalente (tanto prevalente da ridurre chiunque muova un’obiezione allo strawman del negazionista): può tornarci utile darle voce al riguardo? Cosa dice esattamente il Bernabei?
«Sentiamo nei bollettini quotidiani che c’è un aumento delle vittime, ma non sentiamo che l’età media di queste è di 82 anni, [il che è] singolare poiché l’aspettativa di vita in Italia è proprio di circa 82 anni (85 per le donne e 80 per gli uomini), 20 anni in più in mezzo secolo […] Capisco che una affermazione come questa possa lasciare sconcertati perché purtroppo ci hanno detto che la scienza vince sempre, che si deve campare indefinitamente, che il governo deve trovare una soluzione ed i medici un farmaco. La controprova di una selettività che segue rispettosamente la natura delle cose, invece, è che il virus ha colpito in modo ultimativo oltre 35.000 persone nel nostro Paese e di queste solo 90 erano sotto i 40 anni, tutte con problemi di salute gravi […] Mi sembra [che il Sars-CoV-2] si sia inserito con successo in un processo, che da qualche anno avverto, di “impaurimento” della popolazione. Che tutti coinvolge, a cominciare dai media che ritengono di lucrare su questo allarme continuo che fa vendere copie o fa audience […] Passata la fase emergenziale di marzo-maggio, oggi bisognerebbe trattare il Covid-19 come una malattia “normale”. Non è l’infarto che richiede immediatamente il Pronto Soccorso e non è il cancro che richiede l’ospedalizzazione. E una malattia da curare a casa, anche perché non c’è un farmaco specifico o che possa somministrare solo l’ospedale. Se poi cala significativamente la percentuale di ossigeno nel sangue si aggiunge la terapia con ossigeno che in qualche caso sarà meglio fare in ospedale. Ma su giudizio del medico curante. Infine una quota parte di questi a cui serve ossigeno, e che quindi hanno una forma più severa di polmonite, può aver bisogno di cure intensive […] Se lei mette le cose così, abbassiamo la tensione, riduciamo gli allarmi e gli affollamenti dei Pronto Soccorso, le colpevolizzazioni e forse i lockdown» (L’Eco di Bergamo, 31.10.2020).
Si può essere d’accordo o meno, è ovvio. Se non si è d’accordo, tuttavia, può bastare liquidare il tutto come sgradevole o servono degli argomenti? Una certa presunzione di superiorità morale li ritiene superflui: Bernabei ha torto a prescindere, perché ad «anziani» preferisce «vecchi». In attesa del «pediatra che cita i fottuti lattanti», lapidiamo lui.
Proscritto
M’avvedo d’aver anche stavolta preso il Mantellini a esempio di quella presunzione di superiorità morale che, citando ancora Ricolfi, sembra in grado di dirci solo «io sì che la so lunga», «tu non devi parlare come vuoi», «tu non puoi capire», «noi parliamo alla parte migliore del paese». L’ho già fatto parlando della disinvoltura con cui questa presunzione di superiorità morale fa uso di mezzucci retorici senz’alcuno scrupolo, quasi che la presunta superiorità morale possa intendersi al di sopra d’ogni morale, e di questo il Mantellini s’è pregiato di dirmi d’essersene molto risentito, accusandomi di acredine e malafede. Quel che più ha ferito il mio amor proprio, tuttavia, è stato il fatto che innalzarlo a emblema di una categoria del pensiero mi sia stato ripagato con l’accusa di avergli mosso un attacco personale. Possibile che una persona tanto sensibile da riuscire a sentire pulsare vita nella bic, nella reflex e nella mappa stradale della Michelin possa incorrere in un tal genere di travisamento? Un attacco personale, caro Mantellini, è di tutt’altra fatta. Avessi voluto rimproverarti la presunzione di superiorità morale come tratto esclusivamente personale, avrei fatto un cenno alla spocchia con cui dai a intendere di avere in tasca il miglior piano anti-epidemia e dopo averti messo sotto il muso questa roba