Nel 2019, in Italia, ci sono stati poco più di 647.000 decessi, che fa una media di circa 1.770 morti al giorno: morti appena nati e morti di vecchiaia, suicidi e morti ammazzati, morti per cancro, infarto, ictus e altre patologie, fra le quali quelle infettive, non di rado contratte in ospedale (non ho i dati relativi al 2019, ma nel 2016 i morti per malattie infettive contratte nel corso di un ricovero ospedaliero sono stati più di 45.000), e poi morti nel sonno o schiacciati sotto una pressa, caduti da un’impalcatura o fatti secchi da un’overdose, travolti da un tir o in seguito ad incidenti occorsi in rischiose pratiche sessuali.
L’anno che sta per chiudersi ha avuto un andamento un po’ diverso, perché al consueto numero di cause di morte s’è aggiunta quella della polmonite interstiziale da Sars-Cov-2, che, a detta di chi coi numeri ci sa fare, al prossimo 31 dicembre dovrebbe/potrebbe portare i decessi da/con Covid-19 a poco più di 70.000. Per quest’anno, insomma, c’è da attendersi che il totale dei decessi in Italia possa superare di poco i 710.000, sicché la media di morti al giorno salirebbe da 1.770 a 1.940, o giù di lì: rispetto all’anno scorso, ben 170 morti al giorno morti in più. Superfluo dire che la cosa non può lasciare impassibili.
Certo, la morte è morte, sempre, e con la morte di chiunque, anche se ci è sconosciuto, muore sempre anche qualcosa di noi, dico bene? Vero è che forse di noi muore qualcosina in più se il morto ci è parente o amico, se a morire è un bambino, se più in generale la morte prende ingiustamente un giusto o colpevolmente un innocente, se il modo in cui si muore è atroce, se il cadavere è eccellente, se siamo presenti al momento in cui il morituro muore, se a morirne sono 1.940 che non 1.770, ma credo che non sia il caso di star qui a sottilizzare: ci addolora un pochino anche la morte di uno sconosciuto ultracentenario spentosi serenamente nel sonno agli antipodi di dove noi viviamo, dico bene? Vi prego, non mi deludete, dite di sì, sennò non posso andare avanti: dico bene? Ok, procediamo.
Brutta cosa, la morte. Sempre. E tuttavia, concorderete, se non ci ferisce negli affetti personali o non ci è messa sotto gli occhi, essa si limita a far da sottofondo al nostro vivere: sappiamo che prima o poi toccherà anche a noi, è ovvio, sappiamo che, prima di toccarci, ci sfiorerà prendendo il nonno, il babbo, lo zio, l’amico, il conoscente, il calciatore che ci ha estasiato coi suoi dribbling, lo scrittore che ci ha fatto battere il cuore, il fruttivendolo sotto casa, ma dal sottofondo emerge rendendosi visibile, e dunque perturbante, dandoci ansia, angoscia o anche soltanto la sensazione di finitudine che ci dà un attimo di smarrimento, di irrequietezza e di impotente resistenza all’ineludibile, in proporzione alle sue dimensioni, in ragione della sua presenza, nella misura della rappresentazione che ci è offerta.
Certo, abbiamo pietas da vendere e anche una fogliolina che dal verde vira al giallo sul ramo del bonsai ci fa star male, perfino la zanzara spiaccicata sul muro ci dice che tutto ciò che organico è destinato a diventare inorganico, e questo evoca il destino che accomuna tutti i viventi, ma un po’ di più ci scuote dentro vedere sull’asfalto lo sconcio che uno pneumatico ha fatto d’un topo, e un po’ di più se a finirci sotto sono stati un gatto o un cane, un po’ di più se ridotti a poltiglia. Quanti ne muoiono ogni giorno nel tentativo di attraversare la carreggiata, lo sappiamo, ma vederne i cadaverini riversi ai suoi bordi ci stringe il cuore e, se maciullati, ce lo strazia. Stessa cosa a sapere che è morto quel tizio, altra però è dal saperlo chiuso in quella bara, e altra ancora è vederlo lì dentro quando ancora è scoperchiata.
Brutta cosa, la morte, sempre, chiunque muoia, ma dico una bestialità se affermo che ci appare più o meno brutta in relazione a certe variabili? Cosa ferisce di più la nostra sensibilità, il fiore che appassisce nel vaso o la mosca che agonizza sulla carta moschicida? L’agonia del topo che ha ingerito l’esca al bromadiolone o quella del cavallo che s’è schiantato nella Curva di San Martino al Palio di Siena? La morte del ragazzino leucemico o quella del novantenne enfisematoso? Ma se il novantenne enfisematoso è il nonno che da bambini ci leggeva la fiaba di Pollicino e il ragazzino leucemico è un impercettibile e anonimo puntino sulla curva repentinamente decrescente che ci illustra gli strabilianti successi delle odierne terapie antileucemiche? Mi pare evidente che le variabili siano assai complesse.
Direi tutto dipenda da quanta e quale morte ci è messa dinanzi, e in che modo, e a quale distanza, dove quest’ultimo parametro non è riducibile a un mero dato spaziale o temporale. Perché i 2.977 morti nel crollo delle Twin Towers del 2001 feriscono indubbiamente la nostra sensibilità più dei 39 che morirono allo stadio Heysel di Bruxelles nel 1985, ma quanto rispetto agli oltre 800.000 tutsi massacrati in Ruanda nel 1994? È evidente, perciò, che le variabili cui facevo cenno prima siano tutte estremamente elastiche: la morte di un orango ci ferisce assai più di quella di un gatto, non però se il gatto è George, il nostro gatto; il video della migrante che si dispera perché il suo bambino di sei mesi è affogato a largo di Lampedusa ci schianta, ma la foto del bambino di tre anni riverso a faccia in giù sul bagnasciuga di una costa turca ci distrugge; i sei milioni di morti della Shoah ci sembrano il male assoluto, ma sugli otto milioni dell’Holomodor sappiamo relativizzare come dovuto ; sentirci dire, in piena epidemia, che «questo martedì ne sono morti 985» è una mazzata, ma apprendere da un report dell’Istat che il tal giovedì del 2013 ne son morti 1.015, o il tal lunedì del 2010 ne son morti 1.089, fa male, certo, ma – come dire – si nasce, si vive, si muore, e in fondo tocca a tutti, a chi prima e a chi dopo, pazienza!
Dio mio, cosa mi è scappato di bocca? Ho detto proprio «pazienza!»? Chiedo scusa, non so come sia potuto accadere. E mi auguro che non vogliate accostare il mio «pazienza!» a quello che si è lasciato scappare Domenico Guzzini, presidente di Confindustria Macerata, a commento dei 170 morti al giorno in più che avremo quest’anno rispetto all’anno scorso, d’altronde la differenza è lampante: a me il «pazienza!» è scappato dinanzi a morti stagionati, morti misti, morti alla spicciolata, morti in silenzio, a riflettori spenti; lui no, lui è una carogna, perché l’ha detto dinanzi a salme ancora calde, senza rendere l’omaggio che il vivente deve al morente, che poi, tenuto conto dell’estrema elasticità delle variabili che regolano il nostro altissimo sentire, è lo stesso genere di omaggio che il vizio deve alla virtù.