Claudio
Tito (la Repubblica, 19.10.2014) rivela
che «alcuni dei cardinali conservatori
che avevano letto e commentato con sorpresa le tesi di Kasper hanno raggiunto
il Papa emerito [e] hanno tentato un’operazione
senza precedenti, provare a sensibilizzarlo sulle tesi che sarebbero andate in
discussione al Sinodo […] organizzando di fatto una fronda interna contro il
Pontefice […] sul terreno della dottrina» e che «la risposta di Benedetto XVI è stata netta: “Il Papa non sono io, non
rivolgetevi a me”». Molto bello, no? Poi, però, «ha inviato al Pontefice riservatamente un biglietto, il cui contenuto è
ignoto, ma la cui tempistica avvalora l’idea di una collaborativa informazione»,
e questo onestamente è assai meno bello, perché «chi fa la spia / non è figlio di Maria, / non è figlio di Gesù: / quando
muore, va laggiù».
domenica 19 ottobre 2014
sabato 18 ottobre 2014
Insomma?
«In
attesa che la montagna partorisca il topolino,
c’è
un po’ di gente che accorre alle sue pendici…
Date
ascolto a chi conosce un pochino
quell’inutile
ingombro di pietra e di ghiaccio:
non
ci sarà eruzione, né terremoto,
non
ci sarà valanga, né slavina...»
Malvino,
6.10.2014
Avevate
qualche dubbio? Dare l’eucaristia a chi si ostina nel peccato mortale di
adulterio, per esempio, perché quest’è risposarsi dopo un divorzio, anche se a
volerlo è stato solo l’altro coniuge: gli si dovrebbe rimaner fedele, comunque,
e se non lo si fa – poco importa se ci si risposa o meno – si commette crimine
contro il sesto comandamento, ed è crimine aggravato dal suo esser continuato,
crimine che si estingue solo interrompendo la nuova relazione, con sincero
pentimento per l’averle dato inizio, sicché divorziare la seconda volta può
essere considerato il primo passo per rientrare nella grazia di Dio, a patto di
non ricascarci. Sembra un paradosso, ma non lo è, tanto più che il secondo
matrimonio giocoforza si è potuto celebrare solo con rito civile, quindi non
era sacramento, in pratica era un contratto di concubinato. Non ricordate la
lezioncina di monsignor Fisichella? «Il
presidente Berlusconi essendosi separato dalla seconda moglie, la signora Veronica,
con la quale era sposato civilmente, è tornato ad una situazione, diciamo così,
ex ante. Il primo matrimonio era un matrimonio religioso. È il secondo
matrimonio, da un punto di vista canonico, che creava problemi. È solo al
fedele separato e risposato che è vietato comunicarsi, poiché sussiste uno
stato di permanenza nel peccato. Ma se l’ostacolo viene rimosso, nulla osta»
(Il Gazzettino, 21.4.2010), insomma, gli
si poteva dare l’ostia. È gente che ragiona a questo modo, e in cima a secoli di ragionamenti della stessa specie, tutti embricati l’uno nell’altro a far lastre e colonne, in un edificio inabitabile se non per aver voglia di partirne via per la vita eterna, come sola possibile liberazione.
Pensavate che un
Sinodo potesse stracciare Catechismo e Codice Canonico? No, dico, ci avete
creduto davvero? Che l’abbiate sperato o l’abbiate temuto, consentite, eravate
ugualmente cretini, tanto più cretini quanto più speranza o timore fossero
sentiti. Consolatevi, ci sono cascati pure Scalfari e Ferrara, o almeno hanno
fatto finta di cascarci per dare a speranza e timore il pathos necessario a
farvi stare col cuore in gola. E coi gay? Dico: avete creduto pure al fatto che
la Chiesa potesse rivedere il suo giudizio sul fatto che l’omosessualità sia roba
«intrinsecamente disordinata», «contraria alla legge naturale», mai «frutto di una vera complementarità
affettiva e sessuale» e «in nessun
caso può essere approvata»? Pensavate che di punto in bianco ci si
chiudesse un occhio sopra? Sì? Due volte cretini, allora, e perciò utili a
creare quell’aria frizzantina di quando sembra che stia per accadere l’inaudito,
che infatti s’ode, e poi non più, e l’aria resta ancora frizzantina, e in essa
tutto resta uguale a prima, però dando la sensazione che c’è stato cambiamento,
probabilmente non grande quanto sperato o temuto, ma c’è stato.
Ottima sintesi,
quella del cardinal Ravasi: la Chiesa guarda, sente, cerca di comprendere i
cambiamenti della società, ma non può rinunciare a tracciare una linea tra
quello che ritiene buono, bello e giusto per ognuno e quello che non lo è per
alcuno, e dentro a pieno titolo c’è chi le obbedisce, per gli altri porte
aperte, ma per entrare a testa china, coscienti d’esser peccatori. Entrate,
adulteri e omosessuali, ma non dimenticate di portare un bel senso di colpa da
mostrare a chi è fedele ed eterosessuale, per confortarlo del fatto che ad
essere obbedienti alla Chiesa c’è un anticipo di salvezza eterna, nella specie
di una cialda di frumento deliziosa anche quando si attacca fastidiosamente al
palato. Non parlare, taci, usa la lingua per staccarla via, e ingoia.
venerdì 17 ottobre 2014
Anticipo il disgusto
È
con sommo avvilimento che lascio per un istante Il presente come storia (Rizzoli, 2014), l’ennesimo splendido libro
di Luciano Canfora, che non ne sbaglia uno, per affrettarmi a buttar giù queste
due righe, a postarle qui prima che inizi il faccia a faccia tra Vladimir
Luxuria e Maurizio Gasparri annunciato or ora da Enrico Mentana. Non lo
seguirò, ma do per certo che non deluderà nel risultato l’intento di chi l’ha
voluto, che è quello di degradare una questione alle peggiori ragioni che le
stanno a favore e contro, quelle che la riducono a un battibecco tra due macchiette.
L’intrattenimento avrà la meglio sull’approfondimento, non c’è da dubitare, né
c’è da dubitare che il confronto prenderà le mosse dalla visita di Luxuria ad
Arcore e dai commenti che Gasparri ne ha fatto a margine, e che entrambi
saranno ottimamente in parte. Cosa ne sarà del tema a pretesto di questo Bersaglio mobile, è presto detto:
resterà sullo sfondo, tutt’al più farà atmosfera. Anticipo il disgusto e
riprendo la lettura. Poi, domani, dal vocio del pubblico televisivo che
defluirà sui social network valuterò se sia il caso di recuperare la trasmissione.
Nel caso, sarà per confermare l’inesorabilità della regola: a tv che abbrutisce
accorre plebe abbrutita mai sazia di quanto è bruta.
giovedì 16 ottobre 2014
Ora
Sono
quarant’anni e più che studio l’universo paranoico in cui abitate, quindi
comprendo la vostra sofferenza, anzi, mi sembra di palparla proprio, dove s’indurisce
in stizza e dove cede in smarrimento, insomma, capisco: ancora non avevate
fatto l’abitudine a dover dire che gli omosessuali «devono essere accolti con rispetto, compassione, delicatezza» (1),
che «va deplorato con fermezza che siano
stati e siano ancora oggetto di espressioni malevole e di azioni violente»
(2), perché così vi avevano detto convenisse in faccia al mondo, e di dar
mostra di distinguere tra peccato e peccatore, e poi tra inclinazione e atto, e
solo Dio sa quanto vi costasse, visto che per secoli non si era andato troppo
per il sottile, ché «coricarsi con uomo
come si fa con una donna è cosa abominevole» (3), ché «autori di tali cose meritano la morte» (4), ché «le passioni degli omosessuali sono
sataniche e le loro vite sono diaboliche» (5), ché il loro è «un vizio scellerato e obbrobrioso che deturpa
tutte le cose, macchia tutto, contamina tutto e nulla di ciò che lo circonda
rimane puro» (6), e ora – ora, cazzo! – pretendono vi convinciate che «le persone omosessuali hanno doti e qualità
da offrire alla comunità cristiana [e addiritura che] vi sono casi in cui il mutuo sostegno fino al sacrificio
costituisce un appoggio prezioso per la vita dei partners» (7), in pratica di
buttare al cesso un’omofobia che ha radici nel Vecchio Testamento, attraversa rigogliosa
tutta la storia del Cristianesimo, e mette carnosi fiori nella Patristica, e dà
frutti succosi che vi hanno sbrodolato il muso fino all’altrieri: questo
pretendono da voi, e non potete neanche mandarli a cagare, perché voi siete il gregge, loro sono i pastori
e questa è la pastorale, ora. Capisco, più che immaginarlo sento come vi sentite. Ed è uno spasso.
(1)
Catechismo della Chiesa Cattolica, 2358
(2)
Lettera per la cura pastorale delle persone omosessuali (Congregazione per la
Dottrina della Fede, 1986)
(3)
Lv 18, 22
(4) Rom 1, 32
(5) Giovanni Crisostomo (Homiliae, IV)
(6)
Pier Damiani (Liber Gomorrhianus, II,
27)
(7)
Relatio post disceptationem, 52-55 (Sinodo dei
vescovi, 5-19 ottobre 2014)
martedì 14 ottobre 2014
Non sa di cosa parla, e tuttavia straparla
Sandro
Magister dice che «suor Gloria Riva ha
ricevuto un buon numero di obiezioni» all’articolo a sua firma pubblicato ieri
da lanuovabq.it e prontamente ripreso
da magister.blogautore.espresso.repubblica.it,
ma non fa cenno alcuno a quali, né a chi gliele abbia mosse, però oggi pubblica
una risposta dell’interessata ai rilievi che le sono stati rivolti, e anche qui
non v’è traccia di chi abbia contestato la sua tesi, né di quali argomenti
abbia prodotto. Basterebbe questo per mandare a cagare Sandro Magister e suor
Gloria Riva, perché chi polemizza con qualcuno senza fornire elementi circostanziali
relativi alla natura della polemica e al suo sviluppo sottrae a chi legge ogni
possibilità di formarsi una libera opinione sulla materia del contendere, ma un’accurata
ricerca mi rivela che nessuno ha mosso obiezioni alle stronzate scritte dalla
religiosa a commento dell’Ultima Cena
che il Beato Angelico affrescò nella cella n. 35 del Convento di San Marco, a
Firenze, tranne il sottoscritto (Malvino,
13.10.2014): non un commento critico al post su lanuovabq.it, né a quello su magister.blogautore.espresso.repubblica.it
che lo riprendeva quasi integralmente, non un post sulla questione su uno dei 39.366
blog iscritti a Blogbabel, non un
articolo sulle 21 testate che ho nella mia mazzetta quotidiana. Mi ritrovo ad
essere il solo ad aver sollevato obiezioni a suor Gloria, sicché, prima di
mandarla a cagare in compagnia di Magister, mi vedo costretto a prendere atto
di ciò che scrive nella sua risposta. Chiedo scusa al mio lettore, che
probabilmente oggi si aspettava un post su Luxuria ad Arcore, ma sono costretto
ad annoiarlo.
Nell’articolo
su lanuovabq.it, suor Gloria scriveva:
«Otto discepoli sono seduti a mensa… Vi
sono però quattro sgabelli vuoti, lasciati da altri quattro chiamati alla
mensa, i quali aspettano pazientemente il loro momento stando in ginocchio,
cioè in atto penitenziale. Questi quattro simboleggiano quell’umanità che
vorrebbe accostarsi alla mensa del Signore, ma ancora non può. Tra questi
quattro, nella medesima postura, nella medesima attesa, sta anche Giuda». Comprensibile
vi sia Giuda – obiettavo io – ma gli altri tre a cosa devono il loro dover
stare in atto penitenziale? Chi sono? I vangeli ci danno qualche indicazione
relativa a questi tre apostoli che, a differenza dei rimanenti otto, non sono
degni di essere seduti a mensa? Suor Gloria non ha una risposta, quindi
svicola: «Nelle predicazioni del tempo
dell’Angelico il sacramento della confessione e il sacramento dell’eucaristia
erano strettamente legati, non c’era l’uno senza l’altro. Da qui lo stare in
ginocchio viene inteso come disposizione al pentimento, condizione necessaria
per essere in grazia di Dio (anche per chi si confessa). Certamente anche gli
apostoli dovevano avere questa disposizione, pena la sorte di Giuda, la cui
colpa non fu il tradimento (giacché in diverso modo e misura tradirono anche
gli altri apostoli compreso Pietro) ma disperare della salvezza e non disporsi
al pentimento». Bene, ma allora perché questo tocca solo a quattro apostoli
su dodici? E perché tra i quattro inginocchiati non c’è Pietro, che proprio
suor Gloria ritiene di poter identificare nell’apostolo a fianco a Giovanni, primo
da sinistra tra i seduti alla mensa?
Altra
obiezione che sollevavo sul significato penitenziale che suor Gloria annette allo stare in ginocchio è il fatto che anche la Vergine sia raffigurata in
quella postura. Qui la spiegazione data ha del fantastico: «La Madonna non si trova dallo stesso lato
degli altri quattro commensali che sono in attesa di ricevere la comunione»,
questo farebbe la differenza tra genuflessione e genuflessione. Ma non è tutto,
perché, a fare la differenza, il Beato Angelico ci avrebbe messo anche il fatto
che «le vesti della Vergine sono identiche
a quelle del Cristo». Come foggia, in realtà, niente affatto. In quanto al
colore, non ne ha uno diverso da quello che hanno anche le vesti del secondo e del
terzo apostolo da sinistra a destra.
Terza
questione: «Qualcun altro ha attributo
agli sgabelli vuoti e agli apostoli inginocchiati una funzione puramente
estetica perché “quale sarebbe stato l’effetto prospettico di avere tutte le
figure in piedi schiacciati sulla parete, oppure avanti coprendo alcune delle
figure retrostanti?”. Forse potremmo credere che accingendosi a un compito così
grande l’Angelico non conoscesse Giotto? O Duccio da Boninsegna nella vicina
Siena, dove la problematica era stata risolta benissimo e senza alcun
imbarazzo? E che dire allora dello stesso soggetto realizzato dall’Angelico
negli Armadi degli Argenti dove la prospettiva è totalmente diversa (ma dove
gli sgabelli vuoti ci sono ugualmente anche se non ce n’era un bisogno
specifico dal punto di vista compositivo)?».
Qui,
onestamente, c’è da trasecolare. A parte il fatto che in rete non c’è traccia
del virgolettato riportato, e che l’Armadio degli Argenti è uno solo (il
plurale tutt’al più è da riferire ai suoi pannelli), come si può insistere nel
dare un significato simbolico che il Beato Angelico avrebbe voluto dare agli
apostoli inginocchiati se proprio l’altra versione dell’Ultima Cena vede un
numero diverso di soggetti seduti e soggetti inginocchiati? E cosa obbligava l’artista
a scegliere una soluzione analoga alle due citate (Giotto e Duccio di
Boninsegna) e non una alternativa? Ma poi ci sarebbe stato spazio per ritrarre senza
ingombro tutti e dodici gli apostoli seduti nell’Ultima Cena ritratta sul
pannello 15 dell’Armadio degli Argenti? Lascio giudicare al lettore, il dipinto
è riprodotto in apertura al post.
Mi
sembra di poter concludere dicendo che suor Gloria non sa di cosa parla, e tuttavia
straparla.
lunedì 13 ottobre 2014
Ultima della serie, suor Gloria
Non
consentono loro di dir messa, che alla fin fine non sarebbe neanche cosa tanto
illogica, e allora si sfogano a far altro, poverine. Ultima della serie, dopo suor
Germana coi suoi libri di gastronomia, suor Paola con le sue telecronache dall’Olimpico,
suor Cristina coi suoi exploit canori a X-Factor, ecco suor Gloria, con le sue «letture sorprendenti e geniali» – così
dice Sandro Magister (magister.blogautore.espresso.repubblica.it,
13.10.2014) – dei capolavori della storia dell’arte. Sorprendenti senza dubbio,
geniali non direi, tutt’altro.
Sull’Ultima cena che è nella cella n. 35 del
Convento di San Marco, a Firenze, e che si vuole del Beato Angelico, anche se
più d’uno v’ha letto la mano di Benozzo Gozzoli, suor Gloria scrive: «Otto discepoli sono seduti a mensa,
significando così gli invitati a nozze […] in profonda relazione con il Mistero
del Salvatore siede alla stessa mensa. Vi sono però quattro sgabelli vuoti,
lasciati da altri quattro chiamati alla mensa, i quali aspettano pazientemente
il loro momento stando in ginocchio, cioè in atto penitenziale. Questi quattro
simboleggiano quell’umanità che vorrebbe accostarsi alla mensa del Signore, ma
ancora non può. Tra questi quattro, nella medesima postura, nella medesima
attesa, sta anche Giuda. Lo riconosciamo per l’aureola nera e per la posizione
un po’ arretrata. La posizione in ginocchio ci informa sulla qualità di questo
cibo che vuole da noi un cuore perfetto e contrito. L’affresco fa meditare se
confrontato con le tipologie di discorsi che si vanno facendo oggi sulla
celebrazione eucaristica e il mistero in essa significato. Oggi ricevere la
comunione è guardato, a mio avviso, con eccessiva scontatezza, come se
l’eucaristia fosse il termine naturale della Messa e non piuttosto il
coronamento per coloro che sono degni di accostarsi alla mensa del Signore»
(lanuovabq.it, 13.10.2014), con più
che implicito riferimento polemico a chi tra i padri sinodali è in favore dell’ammettere
all’eucaristia i divorziati risposati, d’altronde fatto esplicito nel titolo (Il Beato Angelico smentisce Kasper).
Lettura
sorprendente, ma perché assurda. Passi per Giuda, ma gli altri tre apostoli in
ginocchio assieme a lui cos’hanno da farsi perdonare? Si tratterà, per caso,
dei tre che seguiranno Gesù nell’orto del Getsemani e si addormenteranno invece
di vegliare con lui in preghiera? I vangeli dicono si tratti di Pietro, Giacomo
e Giovanni, ma quest’ultimo, che l’iconografia classica vuole sia l’unico
apostolo senza barba, non è tra i quattro inginocchiati, ma insieme agli altri
otto, all’estrema sinistra di chi guarda. Poco più basso alla sua figura, anch’ella
inginocchiata, vi è la Vergine Maria: in atto penitenziale pure lei, anche se nata
senza peccato? La cocuzza di suor Gloria non è neanche sfiorata dall’ipotesi
che la distribuzione dei soggetti nel dipinto risponda a una banale esigenza
pratica: seduti, i quattro ne avrebbero impallati altrettanti.
Basta
avere un minimo di conoscenza dei problemi che nella storia dell’arte si sono posti
a chi dovesse dipingere un’Ultima Cena, e alle soluzioni trovate, per porre in
dubbio la tesi, ma basta considerare la variante che lo stesso Beato Angelico
sceglie per lo stesso tema, raffigurato in uno dei pannelli dell’armadio degli
argenti, conservato al Museo di San Marco, per escludere ogni intenzione
motivata da significazioni teologiche: lì, gli apostoli seduti sono in sei, e
gli altri sei sono in ginocchio, forse che tra un dipinto e l’altro sono cambiati i vangeli o il modo di leggerli come si deve? E questo ci risparmia il dover portare analoghe
soluzioni a riprova (Mantegna, Giusto di Gand, ecc.).
In
alcuni libelli libertini del Settecento si legge di suore che combattevano la
noia conventuale con robusti ceri cresimali. Si sarà trattato di calunnie, di
fatto a quei tempi le suore lasciavano in pace la critica d’arte.
«Nel mondo non è se non vulgo»
Sarebbe
ingiusto prenderne uno a esempio buttandogli addosso le colpe di tutti. Sarà
esagerato dire tutti? Può darsi, di
fatto io non conosco neanche un commentatore professionale di ciò che accade in
Vaticano che non ceda alla tentazione di imbastire paralleli tra ruoli, organi
e momenti di quello che è un principato
ecclesiastico e quelli che ne dovrebbero essere i corrispettivi in un principato civile (non repubblica come qui vorrebbe il candido
che ancora non abbia colto l’essenza delle postdemocrazie).
Non a caso uso i
termini usati da Niccolò Machiavelli nel suo De principatibus: non gli sfugge la differenza sostanziale che
rende impossibile ogni comparazione tra le due forme di imperio, pena il trarne frastornamento, e l’indurlo, come accade in
queste ultime settimane con quanto si muove dentro e attorno al Sinodo sulla
Famiglia, che gli emaciati e umidicci vaticanisti ci illustrano come istante
drammatico, e perfino fatale, per le sorti di questo pontificato e quelle della
Chiesa tutta. Cazzate.
I principati
ecclesiastici – usa il plurale, Niccolò Machiavelli, ma è solo per
consentirsi il sarcasmo che gli sarebbe stato rischioso a dire che della specie
ve n’è uno solo – «si acquistano o per
virtù o per fortuna, e sanza l’una e l’altra si mantengano, perché sono
sustentati dalli ordini antiquati nella relligione, quali sono suti tanto
potenti e di qualità, che tengano e’ loro principi in stato, in qualunque modo
si procedino e vivino» e «costoro
soli hanno stati, e non li defendano; sudditi, e non li governano; e li stati,
per essere indifesi, non solo loro tolti; e li sudditi, per non essere governati,
non se ne curano, né pensano né possono alienarsi da loro». Principati «sicuri e felici […] sendo retti da cagione
superiore, alla quale mente umana non aggiugne», e qui, a pararsi le terga,
«lasc[ia] el parlarne, perché, sendo esaltati e mantenuti da Dio, sarebbe offizio
di uomo prosontuoso e temerario discorrerne» (soprattutto temerario, perché non gli dispiacerebbe
qualche favore da parte di Leone X, che è un Medici).
A chi obiettasse che questa definizione della
Chiesa è del 1513, quando il papato aveva ancora saldo in pugno il potere
temporale, basta far presente che s’attaglia meglio alla Chiesa che l’ha perso,
quindi è evidente che la peculiarità di un principato
ecclesiastico esorbita da quanto formalmente lo fa monocratico o
collegiale, torvamente simoniaco o squisitamente spirituale e, per usare
termini che sono in uso ancorché impropri, progressista o conservatore: a rendere
inappropriato ogni paragone con ogni altro tipo di principato è il fatto che il papato si acquista o per virtù o per
fortuna, ma si mantiene senza l’una e l’altra, e un Leone X, che arriva dopo un
Alessandro VI e un Giulio II che gli hanno fatto «potentissimo» il pontificato «con
le arme», può ben sperare di farlo «grandissimo
e venerando» con il sorriso sulle labbra, senza pantofole di raso ma con
scarpe da contadino, temperando almeno a chiacchiere i rigori della dottrina,
cioè – direbbe Niccolò Machiavelli – «con
la bontà et infinite altre sua virtù». Perché non è affatto vero che «il fine giustifica i mezzi», frase che
peraltro non gli è mai uscita di penna, ma è che a «uno principe [spetta] vincere
e mantenere lo stato», ma, quando è papa, basta che lo vinca.
Di poi, «e’ mezzi sempre saranno iudicati onorevoli,
e da ciascuno laudati, perché el vulgo ne va preso con quello che pare e con lo
evento della cosa» e «nel mondo non è
se non vulgo»: è il vulgo che
giustifica i mezzi se sono congrui al fine, e se il fine è congruamente
dissimulato. E non c’è vulgo più vulgo di quello che si compiace d’esser
tale.
domenica 12 ottobre 2014
Una vita di merda, tutto sommato
Non
so se la figura dell’editor esistesse già ai tempi di Giovannino Guareschi –
suo è il brano riprodotto qui sopra, da Il
Sole-24Ore di domenica 12 ottobre (pag. 37) – ma dal tono ironico che usa
nel darle contorno arguisco cominciasse a emergere in quegli anni – siamo sul
finire dei Sessanta – sollevando da subito le delicatissime questioni che a
tutt’oggi resterebbero per chi scrive e per chi legge, se non fossero rimosse,
come accade, nel tacito patto che a entrambi torni utile, se non
indispensabile, un intermediario, quell’oscuro omino che dal correggere gli
errori di ortografia è passato a emendare il lessico, a ristrutturare il testo,
perfino a costruire uno stile. Come gli sia stato consentito allargarsi tanto è
noto: dalle dipendenze di chi scrive è passato a quelle di chi pubblica, e la
necessità di vendere quanto si pubblicava, che è negli interessi alti e bassi
di chi scrive e di chi pubblica, imponeva la creazione di un soggetto in grado
di assicurare al prodotto una qualità che favorisse il consumo. In tal senso
potremmo equiparare l’editor a quella complessa articolazione di pertinenze che
nell’industria alimentare è deputata a saggiare i gusti del mercato per rendere
più appetitoso quanto altrimenti rimarrebbe sugli scaffali. Inevitabile, se
questo è il fine, che prima di arrivare al pubblico il prodotto debba subire un
accurato processo di ottimizzazione, i cui parametri saranno giocoforza
calibrati sui gusti della fetta di mercato che si intende conquistare, cercando
di dosare nella giusta proporzione, secondo il caso, quanto stimoli il palato e
quanto non dia noie al ventre. Non è un caso, perciò, che l’editor vada acquistando un peso
con l’uniformarsi dell’industria editoriale alla logica che ha trasformato chi
scrive e chi legge in variabili di sottosistemi della produzione e del consumo,
con l’esigenza di incrementare la domanda con una varietà di offerta che non
ecceda la capacità di assorbimento. Col gravoso compito di assicurare a chi
scrive di esser letto e a chi pubblica di vendere, l’editor non può trattare il
testo diversamente da quanto gli è possibile per ciò che sta nella sua capacità
di penetrare al meglio il potenziale acquirente che si dichiarerà lettore
soddisfatto. Sarà tanto più bravo quanto più saprà lasciar da parte i propri
gusti, che dovranno limitarsi a separare la materia prima sulla quale vale la
pena di lavorare da quella inservibile, destinata allo scarto, ma anche in
questo, per godere della fiducia del suo datore di lavoro, dovrà sapersi fare
mero strumento. Una vita di merda, tutto sommato. Quanto meglio sarà in grado
di assolvere il suo compito, tanto meno gli sarà consentito di poterne vantar
merito, neanche con se stesso, se è intellettualmente onesto. In quanto a ciò
che scarta, come potrà mai essere sicuro che non si sia lasciato scappare l’occasione
di cavarne un grande successo editoriale, per lui tanto più grande perché quasi
interamente dovuto al suo lavoro?
[Il mio correttore di bozze mi suggerisce di cambiare titolo al post o, in alternativa, di aggiungere, qui in coda, che in vita mia non ho mai spedito un plico a un editor. Lascio il titolo.]
sabato 11 ottobre 2014
Volpino
Due
schizzetti di fango sul clergyman di Sua Eminenza fanno lo stesso effetto delle
cinque piaghe sul corpo di Nostro Signore.
venerdì 10 ottobre 2014
L’orrore non sei tu
L’orrore
non sta nel fatto che vai allo stadio in branco, portandoti da casa spranghe e
coltelli, cercando la rissa, ma nel fatto che, se la rissa c’è e ci lasci la
pelle, tua madre dice che sei morto da eroe.
L’orrore
non sta nel fatto che vai in motorino alle tre di notte, senza casco, senza
patentino, senza assicurazione, e sul sellino stai tra un pregiudicato e un
latitante, e non ti fermi all’alt dei carabinieri, ma nel fatto che, se accidentalmente
parte un colpo e ci resti secco, tua madre dice che eri un pezzo di pane e chi
ti ha ucciso è un criminale.
L’orrore
non sta nel fatto che tormenti un ragazzino perché è ciccione e gli infili un tubo in culo fino a sfondargli le
viscere, ma nel fatto che tua madre dice che
scherzavi e che non è giusto tu stia in carcere mentre chi insieme a te sfotteva il poveretto è a piede libero.
L’orrore
non sei tu, è tua madre. È lei che ti ha fatto diventare quello che sei:
vittima o carnefice, sei un mostro, perché partorito da un mostro e allevato da
un mostro.
Un paese leader entro vent’anni
L’obiettivo
è quello di diventare un paese leader entro vent’anni, dice. Da 100 giorni (24 febbraio)
a 1.000 (1 settembre) a 7.300 (10 ottobre): la logica matematica vorrebbe che
il prossimo annuncio sia tra 12 giorni (padroni del mondo entro il 2050) e quello successivo
il 19 ottobre (la conquista della galassia nel 2055).
giovedì 9 ottobre 2014
La differenza tra un ignorante e un cretino
Che
il cuore non sia la sede dell’anima, il centro che dà vita ad emozioni e
sentimenti, l’organo che produce affetti, era già chiaro da molto tempo prima
che William Harvey dimostrasse che è solo una pompa idraulica (Exercitatio anatomica de motu cordis et
sanguinis in animalibus, 1628), e tuttavia, quando, tre secoli e mezzo
dopo, Christiaan Barnard effettuò il primo trapianto cardiaco (Cape Town, 1967),
non mancarono i cretini che sollevarono lo stesso problema che, mutatis mutandis, è sollevato da un
articolo apparso oggi su Il Foglio a
commento della notizia del prima gravidanza giunta regolarmente a termine in un
utero trapiantato: lì a chiedersi quanta coscienza e quanta sensibilità
passassero dal donatore al ricevente, qui a domandarsi «di quale madre è figlio il bimbo», se «di quella che se lo è portato dentro per otto mesi o della donna cui
apparteneva l’utero trapiantato».
Ci si potrebbe limitare a definirla ignoranza, ma è da preferire la definizione di cretinaggine, tanto più ottusa in quanto la questione sarebbe posta dal fatto che «la donatrice vive ed è presumibilmente vegeta, altrimenti l’équipe medica che ha realizzato l’eccezionale intervento non avrebbe scelto, per il trapianto, il suo utero». Se è questo a sollevare il problema, è da intendersi che la questione non si porrebbe, se l’organo, ancorché in buone condizioni per poter essere trapiantato, fosse stato prelevato da un cadavere. In fondo non è affatto raro, se si interviene con la dovuta tempestività, che si riesca a estrarre un feto vivo e vitale dall’utero di una gravida deceduta da poco: ancorché morta, quella non è sua madre? Ne consegue, di converso, che avrebbe senso porsi la questione di chi sia l’urina che fuoriesce dall’uretra di A, cui B abbia donato un rene, se quest’ultimo è vivo: l’urina sarebbe senza dubbio di A, se B è morto, sennò chissà, potrebbe anche essere di quest’ultimo, se ancora vivo.
È proprio questo esempio a indurci a preferire la definizione di cretino a quella di ignorante per chi scrive stronzate del genere: in mancanza delle adeguate conoscenze di anatomia e di fisiologia, un ignorante tace; sull’ignoranza, invece, il cretino costruisce un dilemma etico e se lo rappresenta di ardua soluzione, se non addirittura aporetico.
Ci si potrebbe limitare a definirla ignoranza, ma è da preferire la definizione di cretinaggine, tanto più ottusa in quanto la questione sarebbe posta dal fatto che «la donatrice vive ed è presumibilmente vegeta, altrimenti l’équipe medica che ha realizzato l’eccezionale intervento non avrebbe scelto, per il trapianto, il suo utero». Se è questo a sollevare il problema, è da intendersi che la questione non si porrebbe, se l’organo, ancorché in buone condizioni per poter essere trapiantato, fosse stato prelevato da un cadavere. In fondo non è affatto raro, se si interviene con la dovuta tempestività, che si riesca a estrarre un feto vivo e vitale dall’utero di una gravida deceduta da poco: ancorché morta, quella non è sua madre? Ne consegue, di converso, che avrebbe senso porsi la questione di chi sia l’urina che fuoriesce dall’uretra di A, cui B abbia donato un rene, se quest’ultimo è vivo: l’urina sarebbe senza dubbio di A, se B è morto, sennò chissà, potrebbe anche essere di quest’ultimo, se ancora vivo.
È proprio questo esempio a indurci a preferire la definizione di cretino a quella di ignorante per chi scrive stronzate del genere: in mancanza delle adeguate conoscenze di anatomia e di fisiologia, un ignorante tace; sull’ignoranza, invece, il cretino costruisce un dilemma etico e se lo rappresenta di ardua soluzione, se non addirittura aporetico.
Son giorni, e che giorni
Dal
definire «scandaloso concubinato» il matrimonio, quando non celebrato con rito
religioso, al trovare «elementi di santità» in un’unione di fatto, chiudendo un occhio sul peccato mortale dei rapporti sessuali extramatrimoniali, sono passati
solo 60 anni, che nella vita di un’istituzione vecchia di due millenni equivale
al tempo che in un comune mortale intercorre tra il decidere di fare una
tonante scoreggia per terrorizzare il mondo e il ritrovarsi cagato addosso per
aver sbagliato calcolo.
mercoledì 8 ottobre 2014
martedì 7 ottobre 2014
Gli sparvieri di Susanna
Sull’altrui
sfera sessuale io seguo alcune regole assai elementari, vedete voi se possano essere condivisibili: (1) è materia che non va
neanche sfiorata, quando su di essa la persona interessata mostri di voler
mantenere il riserbo; (2) è materia che può essere oggetto di discussione, quando sia la persona interessata a sollecitarla esplicitamente, ma avendo ben presente
che su propensioni, attitudini e preferenze c’è ben poco da discutere, ché
ciascuno ha le sue ed è sacrosanto se le tenga; (3) è materia che può arrivare ad
essere occasione di polemica, anche aspra, quando la persona interessata abbia fatto
cadere almeno in un’occasione il velo della riservatezza, rilevando le proprie propensioni,
le proprie attitudini e le proprie preferenze, per
poi criticare quelle altrui, per giunta non così diverse dalle sue. È nel
rispetto di queste semplici regolette che affronto il commento del corsivo che
Susanna Tamaro firma sulla prima pagina di Avvenire,
oggi, martedì 7 ottobre, relativamente al punto in cui afferma di sentirsi
svolazzare in testa gli «sparvieri del
gender».
Ora, se un dato è incontestabile in chi sostiene la gender theory, è che per lui il genere
non è faccenda cromosomica, ma psicologica: culturale assai più che biologica. Bene,
giusto o no che sia, non si capisce bene allora cosa Susanna Tamaro abbia da temere da chi ritiene
vorrebbe – scrive – «sequestra[rla], sottopo[rla] a interrogatori, avvia[rla] a
un percorso di precisa definizione del [su]o stato interiore». Tutto il contrario: a chi sostiene la gender theory non passa neanche per l’anticamera
del cervello di contestarle il fatto che da bambina – scrive – «detesta[sse] cordialmente tutto ciò che ricordava la femminilità, ma non per questo
ama[sse] quello che esaltava la
mascolinità» o che «gioca[sse] alla guerra e a calcio obtorto collo, perché
er[a] circondata da maschi, ma [che]
la violenza delle pistolettate e delle pallonate
in faccia [le] facesse altrettanto
orrore dei pizzi», tanto meno contestarle il fatto che «la diversità che chiedev[a] [fosse] legata a[l] poter indossare i pantaloni,
[all’]avere i capelli corti, [all’]aspirare a mestieri allora proibiti alle donne».
Tutte cose che fanno drizzare i capelli in testa a chi da una femmina, come
biologicamente Susanna Tamaro è senz’alcun dubbio, pretenderebbe propensioni,
attitudini e preferenze da femmina.
Capelli che senz’alcun dubbio dovranno già
essergli drizzati in testa anche nel caso abbia letto l’intervista che ella concesse
alcuni anni fa a Vanity Fair: in
quella occasione, senza essere sopposta ad alcun sequestro, rivelava di «viv[ere] un’amicizia amorosa con una donna da 18 anni», dopo aver già avuto,
nel corso dell’adolescenza, analoga esperienza con una donna «con la quale pensav[a] di costruire la [su]a vita», però finita male, per lasciar spazio a un uomo dal quale
ella si allontanò appena questi le fece intendere di voler avere dei figli («l’idea di avere un bambino mi dava
un senso di profonda inquietudine»). Cose che non fanno né caldo né freddo a
chi sostiene la gender theory, chissà
a chi è abbonato ad Avvenire.
lunedì 6 ottobre 2014
«Di natura granitica, irta di guglie e creste…».
In
attesa che la montagna partorisca il topolino, c’è un po’ di gente che accorre
alle sue pendici. Neanche tanta, in verità, comunque più di quanta se ne veda
di solito. Montanari, per lo più. Gente del luogo, solitamente rintanata nelle
baite o nelle case a valle, che neanche penseresti abitate quando la montagna
fa la montagna e non decide di far finta di essere un vulcano. Ma anche
semplici curiosi attratti dai sordi brontolii delle sue viscere, come ogni
tanto accade, come oggi. E turisti col binocolo a tracolla e seggiolino
pieghevole. E geologi e sismologi col loro armamentario. E qualcuno che era di
passaggio e ha deciso di fermarsi. Immancabile la troupe televisiva coll’aeroplanino
che volteggia e il cronista che cita brani da Wikipedia: «Di natura granitica, irta
di guglie e creste, la cima supera i duemila metri…».
Così,
più o meno, il sinodo sulla famiglia. Date ascolto a chi conosce un pochino
quell’inutile ingombro di pietra e di ghiaccio: non ci sarà eruzione, né terremoto,
non ci sarà valanga, né slavina. La pastorale familiare – così vien detto il loro
ficcar naso tra il solco balanoprepuziale di un marito e il fornice vaginale
posteriore di una moglie – non cambierà di una virgola, tutto si risolverà nel
mettere un asterisco accanto alla parola divorzio, scrivendo a pie’ di pagina
che, se un matrimonio cattolico fallisce, vuol dire che non era un matrimonio
valido, dunque può essere considerato nullo: pentitevi, teste di cazzo, e vi si
darà l’ostia. Andate in letizia, ordunque, e levate in alto il giubilo, ché la
Chiesa v’ha ammollato una gran bella mappazza di misericordia.
Non in quanto juventino
Di
calcio capisco poco o niente, quindi non m’azzarderò a fare alcun commento
sulla partita Juve-Roma di cui tanto si discute. A naso, tuttavia, senza aver
visto neanche un video relativo alle azioni di gioco che sollevano proteste
sulla conduzione dell’arbitraggio, senza aver buttato neanche un occhio alle consuete
rubriche sportive del lunedì, direi si possa dar ragione a chi afferma che la
Juve s’è rubata tre punti. Me ne dà motivo l’essere andato a controllare su Camillo cosa si fosse affrettato a
scrivere Christian Rocca, e aver visto che non aveva scritto niente. Non in
quanto juventino, ma in quanto Christian Rocca, penso si tratti di un dato dirimente.
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