Vorrei
parlare dell’intervista
che Piercamillo Davigo ha concesso ad Aldo Cazzullo (Corriere
della Sera,
22.4.2016), ma mi sono indispensabili due premesse, senza le quali
temo sarei pesantemente frainteso. Non escludo affatto che sarò
frainteso lo stesso, ma premettere quanto segue mi farà sentire con
la coscienza a posto. Cercherò di essere breve.
Tempo
fa, su queste pagine, scrivevo che «la
caricatura del giustizialista è un gioco da ragazzi»,
mentre
col garantista è molto più difficile. La maschera del
giustizialista è «ciliosa,
biliosa, ha labbra strette, reca lo stampo di un cruccio perenne che
si stempera in un malvagio sorriso di soddisfazione, sempre spietata,
solo quando vede il cappio stringersi al collo del colpevole, anche
quando è solo presunto tale»,
ma com’è, mi domandavo, «la
maschera del tizio che pretende sempre tre gradi di giudizio per dire
colpevole chi è colto in flagrante, e che dinanzi
all’intercettazione telefonica nella quale un criminale si
autoaccusa di un delitto solleva la questione se mettergli la cimice
sia stato lecito, e che riesce sempre a trovare un diritto negato a
ogni fetente della peggior risma, e più fetente è, più sembra
andare in brodo di giuggiole a trovargliene uno da spendersi per
garantirglielo?».
Bene, direi che un’ottima
caricatura del garantista ci è stata offerta da quanti hanno reagito
all’intervista
di Piercamillo Davigo cadendo in convulsione isterica.
Seconda
premessa. Suonerà patetico, so bene, ma io continuo a credere nella
democrazia e nel liberalismo. Ormai sono irriconoscibili, non c’è
bisogno di farmelo notare, concedo che negli ultimi trent’anni
abbiano dato il peggio, finendo per dar ragione perfino a chi afferma che
siano impossibili in assoluto e incompatibili l’una all’altro.
Ci sarà chi mi vorrà convincere che il guasto è intrinseco alla
loro stessa natura, e anche qui io non solleverò obiezioni: basta un
niente, e la democrazia si svuota per lasciar di sé al massimo la
forma, pronta a riempirsi di orribili schifezze, e così il
liberalismo, che troppo spesso offre spiragli a tutto ciò che è
illiberale, finendo per tollerare, come unica diversità, la
diseguaglianza. Non farò come i marxiani, che in nessuno degli
esempi offerti dalla storia riconoscono il vero socialismo (altra
cosa dai marxisti, che spesso si accontentano anche del peggio), né
farò come i cristiani, che per la comprensione di quanto sia
perfetta la creazione rimandano a quanto ci sarà rivelato dopo la
morte, ma solo se da vivi ne sopportiamo i difetti e rinunciamo a
metterci mano: democrazia e liberalismo sono solo metodi, non reggono
in virtù di una teoria che gli dà un fine ultimo, né tanto meno
reggono sulla forza di una fede che sospenda il giudizio sui dati
dell’esperienza. Democrazia e
liberalismo reggono solo sul rispetto delle leggi che ne impediscono
il fallimento, e nulla più della corruzione lo favorisce: con la
corruzione che alimenta l’interesse
personale nell’adempimento di una
funzione pubblica, il principio della rappresentanza viene
minato alla base; con la corruzione che altera la misura del merito
nelle dinamiche della libera concorrenza, il mercato diventa un
tritacarne. L’assassino ne
uccide uno, due, dieci, cento, ma il patto tra corrotto e corruttore
ferisce tutti.
Vabbè,
volevo essere breve, e non ci sono riuscito. Vorrà dire che invece
di analizzare frase per frase ciò che Piercamillo Davigo ha detto ad
Aldo Cazzullo, mi limiterò a considerare solo il passaggio che ha
sollevato più polemiche: «Non
hanno smesso di rubare; hanno smesso di vergognarsi. Rivendicano con
sfrontatezza quel che prima facevano di nascosto. Dicono cose tipo:
“Con i nostri soldi facciamo quello che ci pare”. Ma non sono
soldi loro; sono dei contribuenti».
È sembrato fosse un’odiosa
generalizzazione, l’affermazione
di una presunzione di colpevolezza per tutta la classe politica
italiana. Impressione errata, a mio modesto avviso. Volutamente
errata, forse, nel tentativo di far quadrato contro quello che così
potesse essere denunciato come il tentativo di una generale condanna
preventiva. Sta di fatto che all’appello
hanno risposto solo i partiti che hanno fra i loro eletti il maggiore
numero di indagati, rinviati a giudizio e condannati in primo grado o
in via definitiva, con ciò dando conferma di quanto il presidente
dell’Anm
aveva detto appena due giorni prima, e proprio a smentire ogni
insinuazione di vulnus al diritto: «La
presunzione d’innocenza è un fatto interno al processo, non
c’entra nulla coi rapporti sociali e politici»
(Il Fatto
Quotidiano,
20.4.2016).
La responsabilità penale è personale, certo, ma, dinanzi al reato
come costante sistemica, c’è
una responsabilità politica che è di sistema, ed è in tale sistema che «non esistono innocenti, ma solo colpevoli non ancora scoperti». Quando la classe
politica non è in grado di darsi strumenti per prevenire la
corruzione, prima, ed emarginare i corrotti, poi, è colpevole:
contro la democrazia, contro il liberalismo. Quando in favore
dell’indagato,
dell’imputato, del condannato, se appartenente alla classe
politica, la
garanzie diventano
guarentigie, il garantismo diventa una maschera, anche parecchio
grottesca. Allora dieci, cento, mille Davigo.