Su segnalazione di diciottobrumaio ho acquistato e letto uno dei più bei libri che mi siano capitati per le mani in questi ultimi anni, la Storia della guerra civile americana di Raimondo Luraghi (Rizzoli, 1985), e davvero non posso trattenermi dal consigliarvelo. Non fatevi spaventare dal numero delle pagine, scorre che è una meraviglia.
martedì 5 luglio 2016
domenica 3 luglio 2016
Italiani nel mondo
«17.3.2014
- Le telecamere di Presadiretta hanno girato un reportage
sconvolgente in Bangladesh, il paese dove i grandi marchi di tutto il
mondo vanno a produrre i loro capi sfruttando il bassissimo costo
della mano d’opera. Il paese dove un anno fa è crollata la
fabbrica di Rana Plaza, già dichiarata inagibile, lasciando sotto le
macerie più di mille lavoratori. Un paese dove gli operai che
lavorano per l’Occidente guadagnano poche decine di dollari al
mese, non hanno diritto di chiedere aumenti né di manifestare. Presadiretta
è andata nel centro e nel nord Italia per raccontare la crisi del
tessile, il secondo comparto industriale italiano per numero di
lavoratori, che in questi ultimi anni di crisi ha perso più di
85mila posti di lavoro. E soprattutto, per capire le ragioni della
crisi di questo settore. Non solo la concorrenza dei laboratori
cinesi e la delocalizzazione nei paesi dove il costo della forza
lavoro è sempre più basso, ma anche la pratica di esternalizzare
porzioni della produzione all’estero, per poi assemblare in Italia
e applicare l’etichetta “Made in Italy”» (*).
Sul «taglia e cuci capzioso delle citazioni»
Quello
riprodotto qui sopra è un brano tratto da Benedetto
XVI – Il pontificato interrotto
di Aldo Maria Valli (Mondadori, 2013). Al mio lettore chiedo di porre
attenzione alla dichiarazione di padre Federico Lombardi riportata in
coda, richiamando alla memoria il contesto. Siamo alla fine di
novembre del 2006 e il papa arriva in Turchia. Nel mondo musulmano
sembrano essersi un po’
sopiti gli animi che hanno dato vita a durissime proteste per ciò
che Benedetto XVI ha detto a Ratisbona, non più di un mese e mezzo
prima. Sarà che s’è
cagato addosso per il bordello che ha scatenato facendo sue le
critiche che Manuele II Paleologo muoveva all’islam
sei secoli prima e ora vuole fare il carino, sarà che da papa ora è
anche capo di stato e deve fare i conti con la ragion di stato, sta
di fatto che della fiera contrarietà all’ingresso
della Turchia nella Ue, espressa in più occasioni da cardinale, ora
pare non esserci più traccia. Certo, Erdogan è un figlio di puttana
e senza dubbio forza il senso di ciò che Ratzinger gli avrà
realmente detto in privato. Si spiega, dunque, la necessità di
precisare, ed eccoci alla dichiarazione di padre Lombardi.
Aldo Maria
Valli gli fa dire: «Anche
se incoraggiamo il cammino di avvicinamento sulla base di princîpi
comuni, la Santa Sede non ha né il potere né il compito politico
specifico di intervenire sul punto preciso dell’ingresso
della Turchia nell’Unione
europea». In via preliminare, è da segnalare che, «sul punto preciso dell’ingresso della Turchia nell’Unione europea», pare fosse legittimo intervenire da Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, ma non lo sia più da Sommo Pontefice: alla
logica umana potrà sembrare un paradosso, ma non dobbiamo commettere
l’errore di giudicare le cose clericali in base a quella, sennò
facciamo violenza allo Spirito Santo.
Lasciamo perdere, torniamo alla
dichiarazione che
Valli mette in bocca a padre Lombardi. Bene: diciamo che non è
affatto fedele. Se ci abbeveriamo alla fonte originaria, constatiamo
che la dichiarazione è un’altra:
«La
Santa Sede non ha né il potere né il compito politico specifico di
intervenire sul punto preciso dell’ingresso
della Turchia nell’Unione
europea. Tuttavia vede positivamente e incoraggia il cammino di
dialogo, di avvicinamento e di inserimento della Turchia in Europa,
sulla base di valori e princîpi
comuni».
Cosa è cambiato dalla versione originale a quella di Valli?
Innanzitutto, è sparita l’espressione
«inserimento
della Turchia in Europa»,
che ovviamente ha un peso enorme, perché palesa la vistosa
contraddizione tra le posizioni del cardinale e quelle del papa: pur
concedendo che questo «inserimento
della Turchia in Europa»
non
sia sovrapponibile ad una «entrata
della
Turchia nella Ue»,
siamo ben distanti da quel che Ratzinger ha detto appena due anni
prima
(«Storicamente
e culturalmente la Turchia ha poco da spartire con l’Europa: perciò
sarebbe un errore grande inglobarla nell’Unione Europea»
- 18.9.2004).
Poi, si è invertito l’ordine
delle proposizioni separate da un’avversativa
come «tuttavia»,
con ciò capovolgendo l’ordine
di priorità
fra le due. Padre Lombardi, infatti, premette che la Santa Sede ha un
potere d’azione
limitato, per poi esprimere, a fronte di ciò, un parere favorevole
(«vede
positivamente»)
a qualcosa che non è solo un «dialogo»
tra Turchia ed Europa, ma un «avvicinamento»
tra le due, per di più finalizzato ad un «inserimento»
dell’una
nell’altra,
per il quale formula un auspicio che non è di maniera
(«incoraggia»).
Valli, invece, premette l’auspicio,
che con l’omissione
dell’«inserimento
della Turchia in Europa»
diventa una vuota formula di circostanza, che perde
ulteriormente peso per la concessiva che la introduce («anche
se»), sicché la dichiarazione di non avere «né il potere né il compito politico specifico di intervenire» da premessa diventa conclusione: da limite che non impedisce di spendersi per quel che si augura, diventa insuperabile condizione ostativa. In sostanza, è invertito il valore
relativo che una proposizione ha rispetto all’altra,
come avverrebbe col trasformare «Valli è uno stronzo, ma dà impressione di meritare attenzione» in «anche se dà impressione di meritare attenzione, Valli è uno stronzo».
Riprendendo
la formula usata qualche giorno fa da Gad
Lerner in polemica con Giulio Meotti, siamo
dinanzi a un caso di
«taglia
e cuci capzioso delle citazioni»,
espediente retorico che qui fa ricorso
all’argumentum
ad auctoritatem,
previo il forzoso reclutamento dell’auctoritas
ai propri fini, e che in altre occasioni fa ricorso all’argumentum
ad hominem,
dopo aver messo in bocca all’homo
quello che in realtà non ha detto. In entrambi i casi, la questione
di merito resta inevasa, pretendendo sia risolta nell’adesione
all’opinione
dell’auctoritas
o
nel respingere quella squalificata con l’attribuirla
a un homo
sottoposto a una reductio
(ad
absurdum,
ad
hitlerum,
ecc.). Così, nel caso dell’entrata
della Turchia nella Ue, si dovrebbe essere persuasi ad esserne
contrari perché pure il cardinale Ratzinger lo era, e qui
l’argumentum
ad auctoritatem non
ha bisogno di alterare l’opinione
dell’auctoritas,
limitandosi ad omettere che quella di Benedetto XVI fosse diversa
(cosa che Meotti fa in un articolo apparso ieri su Il
Foglio),
sennò sostenendo che fosse la stessa (come fa Valli nel suo libro),
ma dovendo ricorrere «taglia
e cuci capzioso delle citazioni»,
e nel caso in questione facendo peggio di Erdogan.
venerdì 1 luglio 2016
Rap
«...
trovo molto interessante
la
mia parte intollerante
che
mi rende rivoltante
tutta
questa bella gente»
Adesso,
per chi ne magnificava le virtù, l’Italicum
non va più bene. Per chi si dichiarava indisponibile a rimetterci
mano, almeno qualche ritocchino, adesso, lo merita, non foss’altro
per tentare un altro Nazareno. Né manca, sul fronte opposto, chi
riteneva fosse la madre di tutte le possibili criptodittature, e
adesso dice che ridiscuterne non è un problema prioritario,
l’importante è altro, chessò,
strappare a Paolo Mieli la sorpresa che nella cozza del M5S c’è
quella perla di un Luigi Di Maio, oggi simpatico come lo era Daniele
Capezzone fino a dieci anni fa.
Viene la voglia di un Dio spietato
che li incenerisca tutti, boss e luogotenenti, gregari e leccaculo di
complemento, ma, si sa, voglie del genere segnalano un malessere
esistenziale di grado severo, quello del moralismo. Abbia il buon
gusto, chi ne soffre, di non esibirlo, perché è vero che, come la
psoriasi, non attacca, ma in società crea il panico del contagio più
della rogna. Poi, diciamocela tutta, pretendere che il prossimo
nostro abbia sempre un argomento decente per dimostrarci che non è
l’uomo di merda che palesemente
sembra – sensu stricto – è violenza.
Dissimulare, dissimulare,
coprire la chiazza cutanea con la cipria di una soffice ironia, dire
che sono tutti eguali, e chi lo sembra meno, gratta gratta, è
peggio, ma senza mostrare acredine, sfoggiando il sorriso consigliato a pag. 23 del
Vademecum del perfetto uomo di mondo, quello di chi ha visto tutto, e
non si scandalizza più di niente, anzi trova tutto molto divertente.
Appendice
Appendice
«Ogni partito è favorevole a quella tecnica elettorale che gli fa più comodo, e cerca di far passare quella legge elettorale che meglio canonizzi quella tecnica.
Questo
è vero. Ma non è tutta la verità. In un paese che non riduca le
elezioni a truffe perpetrate dai più imbroglioni a spese dei più
minchioni, la legge elettorale non può solamente e brutalmente
prescrivere quella tecnica di votazione che fa comodo a chi fa la
legge. In un paese di gente onesta, e non di falsari, la legge
elettorale deve prescrivere non solo una tecnica, ma anche una regola
di gioco, la quale giustifichi quella tecnica: regola di gioco, da
cui tutti si sentano legati perché garentisce i diritti di tutti:
cioè il diritto di formare il governo in chi ottiene il consenso
della maggioranza, e il diritto della minoranza di essere rispettata
nelle proprie libertà.
Quando
la tecnica della votazionecessa di essere regola di gioco
riconosciuta legittima da tutti, e pretende produrre sempre, ad ogni
costo, una maggioranza governativa, non è più una regola di gioco,
ma un imbroglio totalitario.
[…]
A
questo punto i lettori del “Mondo” mi lascino riconoscere, prima
che me lo dica altri, che ho finora fatto un discorso da “moralista”,
e non da “realista”. E il moralista, come tutti sanno, è un
“astrattista”, un “antistorico”, un cretino famoso, che non
dovrebbe occuparsi mai di materie politiche.
Sia.
Ma sta il fatto che il mondo trabocca di cretini famosi. E, in regime
di suffragio universale, costoro rappresentano un peso, del quale
debbono tener conto i sapientoni fabbricanti di tecniche elettorali,
perché sono precisamente quei moralisti astrattisti ed antistorici
che decidono le elezioni, spostandosi di qua o di là, squadre
volanti; disgraziati, che cambiano bottega non appena si avvedono che
il macellaio ruba sul peso, e non amano fare amicizia con un mercante
di cavalli, perché sanno che vende onzini vecchi come puledri
giovani. Pregiudizi. Ma esistono; e chi li trascura, si trova male.
Motivo percui i fabbricanti di nuove tecniche elettorali debbono
persuadere proprio noi che essi non intendono truffare nessuno, ma ci
invitano ad assumere impegni, ai quali abbiamo l’obbligo
di consentire a ragion veduta.
[…]
È
inutile che storciate il muso allorché qualcuno vi ricorda questo
guaio. Guaio o non guaio, questa, oggi come oggi, è la realtà; e se
ve ne infischiate, essa si rivolterà contro di voi».
Gaetano
Salvemini
(Il Mondo,
20 settembre 1952)
giovedì 30 giugno 2016
Documentarsi
Le
cinque stelle che compaiono nel simbolo del M5S avevano un loro ben
preciso significato già molto tempo prima che al Teatro Smeraldo di
Milano, il 4 ottobre 2009, si desse battesimo al movimento politico
con la presentazione ufficiale del programma e – appunto – del
simbolo. Quasi un anno e mezzo prima, infatti, il 25 gennaio 2007,
dando il via alla formazione di liste civiche cui Beppe Grillo
assicurava il suo sostegno a condizione che i candidati si
impegnassero al rispetto dei punti programmatici che poi saranno della Carta
di Firenze
(8 marzo 2009), veniva data spiegazione di cosa simboleggiassero quelle
cinque stelle: «Una
per l’energia, una per la connettività, una per l’acqua, una per
la raccolta rifiuti, una per i servizi sociali».
Bastava sottoscrivere l’impegno
su quei cinque punti per potersi fregiare del pentastellato bollino
di garanzia, un po’
come, da banana, basta rispettare un certo standard per meritare quello blu
della Chiquita.
Errato, dunque, quanto era scritto, ieri, a pag. 2 de Il
Foglio:
«Le
cinque stelle sono quelle degli alberghi, anzi dello stile di vita.
“Potremmo avere una vita a cinque stelle”, urlava nei comizi
fondativi il capo comico e da lì nacque il simbolo».
E a seguire: «Negli
alberghi a 5 stelle non ci sono solo ospiti ma anche camerieri,
facchini, sguatteri e lavandaie, e che qualcuno che lo faccia
bisognerà pur trovarlo».
Sembrava manifesta in Massimo Bordin, che firmava il pezzo, la certezza di aver trovato in radice la mala
pianta del velleitarismo grillino, per mostrarne subito tutta la fragilità
all’azione
diserbante del pensare a quanto inganno possa essere contenuto nella
promessa di assicurare a tutti «le
lenzuola di lino e la colazione in camera».
Sta di fatto che Beppe Grillo non ha mai materialmente collegato
l’immagine delle cinque stelle agli hotel di lusso: con «vita
a cinque stelle»
ha inteso solo definire lo standard di vita di cui tutti avrebbero
potuto godere con l’attuazione
del programma relativo ai cinque punti cui si faceva cenno prima. Più
che legittimo contestare nel merito uno, due o tutti e cinque i
punti, altrettanto legittimo mettere in discussione il metodo col
quale il M5S si prefigge di attuarli, ma caricaturizzare la posizione
di chi pure ci stia potentemente sul cazzo è cosa intellettualmente
disonesta, e come tale va segnalata.
Come accade che si possa cedere
a questa tentazione? Mi pare che un’ottima
risposta a tale domanda sia data da Gad Lerner nella replica a un
velenoso attacco che ieri, sempre dalle pagine de Il
Foglio,
gli era mosso da Giulio Meotti,
accusato – giustamente, ci pare di poter dire, avendogli più volte
sollevato da queste pagine la stessa imputazione – di «costrui[re]
le
sue argomentazioni col taglia e cuci capzioso delle citazioni»:
«La
denigrazione dell’avversario, quando si è dominati dal pregiudizio
ideologico, sollecita forzature che spesso conducono all’esito
penoso di prendere fischi per
fiaschi». Che questo capiti a Meotti, passi, ma che possa capitare pure a Bordin, ferisce.
Coda Un
giorno chiesero ad Arrigo Cajumi quali fossero le qualità
necessarie per arrivare ad essere un polemista della sua levatura.
Non si schermì con la falsa modestia dei simpatici ad ogni costo, ma
senza esitare un attimo rispose: «Sono
tre: documentarsi, documentarsi e documentarsi».
martedì 28 giugno 2016
[...]
Pare
che per la Brexit sia stato determinante il voto del cosiddetto
«paese profondo», quello delle aree più interne, comunque più
lontane dal flusso delle relazioni e degli scambi col mondo esterno.
Nella visione organicistica di una nazione è quello che solitamente
è detto «ventre
del paese», con ciò assegnandogli quei tratti che danno impronta
viscerale alla sua dimensione esistenziale. Questa, com’è
per gli organi governati dal sistema nervoso enterico, è
caratterizzata, sul piano sensoriale, da uno spettro percettivo dalle
rappresentazioni grossolane, per lo più immediate, ma spesso poco
nitide, che tuttavia non mancano per questo di potenza, anche
notevole, talvolta perfino spropositata rispetto agli stimoli che le
hanno determinate, perché si tratta di immagini che in gran parte
attingono a una sfera del simbolico che è primordiale, per nulla
sorvegliata dai processi di ideazione che sono propri delle
percezioni sensoriali di tipo superiore. Sul piano funzionale,
invece, siamo nel regno del vegetativo, dell’automatismo,
degli archi riflessi corti e ultracorti, col prevalere di quegli
elementi pulsionali e reattivi che sono comuni ad ogni specie
animale, anche a quelle che hanno un sistema nervoso centrale assai
meno complesso di quello umano.
Ce ne sarebbe abbastanza, in
definitiva, per liquidare ogni sentire del «paese profondo» come
sordo, opaco, intrattabile, e ogni suo agire come cogente, istintivo,
irrazionale, se non fosse che la visione organicistica di una nazione
è da sempre uno strumento di semplificazione che risponde a una
logica di parte, giacché Menenio Agrippa era un patrizio. Del
suo apologo resta in piedi la retorica delle classi che «quasi
unum corpus
discordia
pereunt et concordia valent»,
ma c’è
da segnalare un’interessante
inversione
di segno: lì il ventre era l’élite
economica, politica e culturale della Roma del V secolo a.C., che la
plebe accusava di essere «otiosa»,
muovendosi perciò alla prima e rudimentale forma di sciopero della
storia; oggi,
invece, almeno nel caso del Regno Unito, il ventre è quanto resta di
un proletariato quasi del tutto ripiegato sulla sua miseria e di una
borghesia che la crisi economica ha impoverito ed emarginato in aree
suburbane perché lasciasse il centro delle grandi città ai nuovi
ricchi. Il «ventre
del paese» è quello delle masse alle quali è stato tolto tutto,
lasciando ad esse solo la nostalgia per un Regno Unito che non c’è
più e l’illusione
di poterlo ricreare uscendo dalla Ue. Liquidare questa scelta come irrazionale è legittimo, ma è di parte, giacché non c’è nulla che oggettivamente mostri un utile nell’accettare, da esclusi, la logica di un’inclusione che sottrae potere e diritti.
Questa Europa è nata male ed è cresciuta peggio. Soprattutto, non ha mai dato segno di voler cambiare rotta. Ultimamente, poi, è sembrata addirittura nell’impossibilità di farlo, ammesso e non concesso che potesse essere nelle intenzioni di chi ne regge il timone. Com’è naturale, ora, si calcolano i danni che dalla Brexit verranno alla Ue e al Regno Unito, ma anche qui la logica di chi fa i conti è di parte. Non voler capire questo, e continuare parlare di ciò che il Regno Unito avrà da scontare con la Brexit, rimanda alla visione organicistica di una nazione: preoccuparsi che dal tavolo non cadano più le briciole per i poveracci perché ai commensali sono state ridotte le portate. Non diversamente da quando si pretenderebbe che un crollo in borsa debba affliggere anche chi non vi avesse investito neppure un soldo: le regole del gioco vogliono che anche lui abbia a subirne un danno, ma questo non mette in discussione le regole del gioco, solo la sua eventuale indifferenza all’ennesimo venerdì nero. Menenio Agrippa ci mostra l’angoscia del broker londinese invitandoci a farla nostra, del tutto ignaro che intanto si ingrossa il numero di chi non ha quasi più nulla da perdere.
venerdì 24 giugno 2016
giovedì 23 giugno 2016
[...]
Stasera
l’Italia ha giocato con l’Irlanda,
dico bene? Non si trattava mica dell’altra
Irlanda, quella del Nord, che insieme a Germania, Polonia e Ucraina
era nel girone C, dico bene? Ed è corretto chiamare
«britannici» gli irlandesi che non sono
dell’Irlanda
del Nord? Ultima domanda: come si dice in gaelico «titolista di ansa.it, britannica sarà tua sorella»?
mercoledì 22 giugno 2016
Disclaimer
Non
ho mai votato il M5S e molto probabilmente non lo voterò mai. Due, i
motivi. Il primo è d’ordine
generale: almeno da due anni sono giunto alla decisione di astenermi
da ogni competizione elettorale retta da regole che costringano a
votare il menopeggio contro il peggio, com’è
stato col Porcellum, come sarebbe con l’Italicum,
come sarebbe con qualsiasi altra legge elettorale che avesse come
fine ultimo, mediato o immediato, la reductio a un bipolarismo che
oggi non è più nei fatti, e che forse non lo è mai stato neanche
in passato, se non come aspirazione di quanti hanno coltivato a tal
punto il mito della governabilità da arrivare a perdere di vista il
principio della rappresentatività. Il secondo motivo è prettamente
specifico, ma conseguente al primo: il M5S è il menopeggio oggi
presente nel quadro politico italiano, ma non mi piace affatto. Non
mi piace la sua anima, populista e settaria. Non mi piace il suo
programma, demagogico e velleitario. Non mi piace il suo profilo
culturale, che porta l’eclettismo
allo sproposito dell’accozzaglia,
non già inseguendo il millantato affrancamento dalle tradizioni
ideologiche del secolo passato, ma pigliando un po’
da ciascuna, e neanche il meglio. Non mi piace, soprattutto, la sua
struttura, formalmente assemblearistica e sostanzialmente
verticistica, dove a sollevare il problema non è neppure la
contraddizione in termini tra dichiararsi movimento, addirittura
comunità, ed essere di fatto un partito a conduzione padronale, ma
il fatto che assemblearismo e verticismo sono degenerazioni
della democrazia.
Paradossale che, trovandogli così gravi difetti,
io ritenga che il M5S sia lo stesso il menopeggio? Se guardo al Pd di
Renzi e al centrodestra di Berlusconi, Salvini e Meloni, non direi
proprio. Senza alcuna intenzione di attenuare il giudizio appena
espresso, direi al contrario che ultimamente il dato sia sempre più
evidente, da un lato, per un’ulteriore
involuzione del Pd e del centrodestra e, dall’altro,
per un’accorta
serie di ritocchi che, dopo la scomparsa di Casaleggio e il «passo
a lato»
di Grillo, hanno dato al M5S un volto meno impresentabile. Insomma, se ancora fossi affetto dalla perniciosa malattia che in
mancanza di un’offerta
politica decente spinge a votare il menopeggio, e che nel 1994 mi
spinse a votare Berlusconi contro Occhetto e nel 2013 Bersani contro
Berlusconi, oggi voterei il M5S contro tutto il resto. Ringrazio il
cielo per essere riuscito a liberarmene, perché sono sicuro che
anche in questo caso sarei destinato a pentirmene. Più o meno amaramente, va’ a saperlo.
Con questo post mi
auguro di aver dato risposta esauriente a quanti da qualche tempo mi accusano di
essere diventato grillino, talvolta preoccupati, talvolta delusi, sempre amareggiati: non lo sono diventato, per quel che sono
non potrei neanche volendo, e poi quel che sono basta e avanza per
impedirmi anche il volerlo. Non sono grillino, non ho mai votato il
M5S e non ho alcuna intenzione di votarlo. Ripeto: sono guarito. Non
venitemi, però, a dire che meglio di un Di Maio o di un Di Battista
ci sono un Renzi o un Salvini, che meglio di una Raggi o di una
Appendino ci
sono un Giachetti o un Fassino, che meglio di una Taverna c’è una
Ravetto o una Picierno, sennò rischio una ricaduta. Prima, in
ogni caso, vi mando a fare in culo.
martedì 21 giugno 2016
Nascere incendiari e diventare pompieri
Il
risultato delle Amministrative? «Di
sicuro non dice nulla sugli effetti politici che esso potrà avere»,
e poi, si sa, «in
tutti i Paesi europei colpiti dalla crisi vanno bene le forze
politiche anti-sistema, anti-establishment, con tratti populisti e un
forte rifiuto della politica e dei partiti tradizionali» (Il
Mattino,
21.6.2016). Così Massimo Adinolfi, filosofo, prova a minimizzare gli
effetti della mazzata subìta dal Pd di Matteo Renzi.
Da consulente
del governo, è compito che gli è dovuto, ci mancherebbe altro, il
lavoro è lavoro, e poi, quando si ha prole, è sacrosanto
arrotondare lo stipendio di filosofo, mestiere nel quale,
probabilmente non caso, ha sempre eccelso chi non avesse bocche da
sfamare. Nessuna obiezione al riguardo, dunque, tanto più che in
questo caso è proprio il filosofo a rammentarci che, «più
è alta la disoccupazione, in specie giovanile, e più crescono i
consensi alle forze di opposizione»,
dacché possiamo trarre spiegazione del perché chi abbia due
occupazioni sia più portato a esprimere il proprio consenso alle
forze di governo.
Non guasterebbe, tuttavia, che anche i lettori de
Il
Mattino sapessero
di questo arrotondare,
giusto per essere messi in grado di potersi fare una propria idea,
volta per volta, editoriale per editoriale, su dove finisca il filosofo e dove cominci il propagandista, neanche tanto per il rispetto dovuto
al lettore, perché parliamo pur sempre del lettore de Il
Mattino,
quanto per quello dovuto alla filosofia.
A mo’
d’esempio,
si prenda un altro passo di questo editoriale, stavolta concepito in
forma di dialogo col direttore del giornale, tanto per darci
l’impressione
che dal rimpallo di tutti quei «perfettamente
d’accordo
con lei, caro professore, ma...»
e quei «concordo
su tutto, caro direttore, però...»
stilli purissima maieutica. A un certo punto, per dar forza alla tesi
che la vittoria del M5S sia da spiegare col premio che la plebe
assegna a tutto ciò che sappia darsi forma di novità, Massimo Adinolfi
cita Giacomo Leopardi: «nel
dialogo sulla moda e sulla morte [Leopardi dice]
che
le due cose vanno insieme, e quello che oggi è di moda domani è già
morto».
Sembrerebbe il non
plus ultra a esergo di una riflessione sulla caducità delle cose mondane –
roba, insomma, da filosofo a tempo pieno – e invece segue una
versione appena un po’
più sofisticata di quella che Matteo Renzi si prepara a rifilare ai
suoi, venerdì prossimo, distinguendo tra il nuovo
(lui) e il nuovismo
(il M5S): «Nessun
Paese
– dice Massimo Adinolfi – può
divorare così rapidamente le sue classi dirigenti». Più elegante di un «nessuno
rottami il rottamatore»,
ma il concetto è quello: se il mondo non riesce proprio a fermarsi dopo essere giunto nel punto dell’orbita che più mi piace, per lo meno rallenti.
La nuova moda, inoltre, pare abbia un
difetto di fondo rispetto a quelle precedenti: «Siamo
addirittura alle prese con l’idea che le élite, in politica, non
ci devono proprio essere (ma chissà se quegli stessi che issano
questa bandiera si accorgono che, in tutti gli altri mondi sociali ed
economici, le élite ci sono, e come, e durano pure un bel po’)». Con quanto ne consegue per le consulenze, puttana Eva.
Direi che siamo dinanzi alla variante filosofica del «nascere incendiari e diventare pompieri»: panta rei, ok, ma a patto ch’io ci possa sguazzar dentro.
lunedì 20 giugno 2016
[...]
Per
le colpe di cui si è fin qui macchiato, la mazzata buscata ieri da
Matteo Renzi è ancora poca cosa perché dal nostro animo possa
liberarsi quell’istintivo moto
di compassione che di solito ci ispira chi perde, e che spesso il
pudore ci consente di palesare solo nel rinunciare a
maramaldeggiarlo: sarà il caso di rimandare a quando Matteo Renzi
avrà perso tutto, e fin d’ora,
perché il rispetto, se non la compassione, possa venir spontaneo,
genuino oltre il ben che minimo sospetto di ipocrisia, ci auguriamo
accada in modo estremamente doloroso, meglio se stroncandogli ogni
possibilità di rivincita, ricacciandolo per sempre nel buco di culo
dal quale è uscito. Non ci si fraintenda, dunque, se nello stendere
questo preliminare di analisi dei risultati di queste Amministrative
rinunceremo alla batteria di sberleffi che uno stronzo della sua
specie meriterebbe: sbagliano quanti oggi lo ritengono ferito a morte
– non c’è da stupirsi, poi,
che siano gli stessi, simpatizzanti o antipatizzanti, che ieri
lo ritenevano immortale – e dunque ogni ciaone di ritorno
sarebbe controproducente, prima che sprecato.
Prima di essere ciò
che in modo schifosamente manifesto è sul piano politico, infatti,
Matteo Renzi è un soggetto affetto da una grave forma di narcisismo
maligno (cosa che ha ben poco a che vedere con l’accezione
che il narcisismo assume nel pour parler di chi è a digiuno di
psicoanalisi) e dunque è assai più pericoloso adesso di quanto lo
fosse prima, perché i tratti borderline, antisociali e paranoici,
che nel narcisismo maligno vanno ad aggiungersi al cieco
egocentrismo, alla drogata autostima, alla glaciale anaffettività
(spesso ammantata di un sentimentalismo untuoso) che sono del
narcisista normale, costituiscono una seria minaccia per chi il
malato ritiene gli abbia arrecato offesa. Per non lasciarsi ingannare
da ciò che all’apparenza
avrà probabilmente tutto l’aspetto
della procedura riparativa approntata da un narcisista normale per
curare una ferita, occorre aver ben chiaro che il narcisismo
maligno implica di regola in tali circostanze un di più che
giocoforza ha da restare nascosto a tutti: parlo di quella vendetta
che, pur di dar ristoro a un Super-io che proietta sull’ambiente i precursori sadici non integrati (cfr. Otto Kernberg, Aggression in Personality Disorders and Perversions, 1992), non esita, se necessario, a sacrificare anche chi la programma e la mette in atto.
Perciò è da
sconsigliare vivamente il porre eccessiva attenzione a ciò che
Matteo Renzi mostrerà di voler mettere a frutto da questa sconfitta:
se perfino rinunciasse ai maneggi con Verdini, concedesse qualcosa
alla minoranza interna al Pd, rimettesse mano all’Italicum,
e su tutto questo arrivasse pure a spalmare una qualche forma di
autocritica, non verrebbe meno il divorante bisogno di rivalsa che in
soggetti profondamente disturbati come lui può dar luogo ad
espedienti di impostura particolarmente efficaci, in grado di stornare dal fine ultimo, che è sempre distruttivo, col cominciare a celare la reale aggressività posta nei mezzi, che non di rado sanno simulare altro scopo. In fondo è questo che consente a tali soggetti di ottenere così spesso il successo negato a quanti li surclassano perché realmente in possesso di quelle qualità che l’impostura si limita a millantare: possono farne a meno quando diventano d’intralcio.
Tutto questo valga per quanto Matteo Renzi dirà della sconfitta che ha subìto (l’appuntamento
è per venerdì prossimo alle 15.00, in apertura all’annunciata
Direzione del Pd: il breve comunicato ufficiale licenziato ieri sera non consente analisi approfondita): l’attenzione
non vada a cosa dirà, perché «una
autoimmagine idealizzata e una
ideologia egosintonica sadica,
manipolata ai propri fini, razionalizzano il comportamento
antisociale e possono coesistere con la capacità di lealtà verso i
propri compagni» (op. cit.), ma alla scelta dei sostantivi, degli
aggettivi e dei verbi che userà per dirlo, perché la parola dell’impostore ha sostanza solo in ciò che ne tradisce la forma.
Da quanto ha anticipato oggi, in particolar modo nella distinzione tra nuovo e nuovismo, ci è lecito azzardare una scommessa: proverà a convincere che il M5S ha saputo intercettare il consenso di un’opinione pubblica che vuole quel cambiamento che solo il Pd può assicurare, senza tuttavia essere riuscito finora ad accreditarsene l’esclusiva. Colpa di qualche errore di comunicazione, dirà, ma colpa soprattutto delle divisioni interne, agitate dalla componente che al nuovo, cioè a lui, oppone resistenza.
venerdì 17 giugno 2016
«Costruzione chimica della persona umana»
Avete
presente la petite
fille savante
che nella réclame
di una nota compagnia aerea spiega al babbo che «la
spinta è creata dalla propulsione»
e che quella «è
una questione di fisica»,
come d’altronde
lo sono pure «l’aerodinamica
di un aereo»
e la sua «capacità
di carico»?
Rispetto a Giuliano Ferrara, che nell’ennesima tirata contro la fecondazione assistita ci viene a parlare di «costruzione
chimica della persona umana»,
la ragazzina è da Premio Nobel.
«Costruzione
chimica della persona umana»: che cazzo vorrà dire? Gli avranno mica raccontato che un
bambino venuto al mondo grazie alla fecondazione assistita è stato costruito in laboratorio atomo su atomo, molecola su molecola, e che
semmai per costruirlo non sono stati utilizzati nemmeno idrogeno, ossigeno,
azoto e carbonio di prima scelta, ma tutta roba sintetica?
Ecco come si va a finire
quando al liceo si perde tempo a far casino insieme agli altri figli di papà della borghesia rossa romana e ci si perde quel poco
di istruzione scientifica che ti passano i programmi ministeriali,
per poi finire con quattro ciellini segaioli a leggiucchiare solo teologia, per giunta senza
sostegno dei fondamentali. Per carità di Dio, regalategli un manualetto di biologia, così si chiarisce le idee su come, nella fecondazione assistita, la «costruzione chimica della persona umana», se proprio così la vogliamo chiamare, si ha in modo del tutto simile a quella che segue la fecondazione «naturale».
Il problema Croce, ancora
Dev’esserci
asperrima tenzone per il titolo di «massimo
specialista di Croce oggi in Italia»,
perché
passa continuamente di mano: fino a due giorni fa, pareva saldamente
in pugno a Corrado Ocone, oggi La
Stampa,
per la firma di Federico Vercellone, dice che è la volta di Paolo
D’Angelo,
di cui fino a ieri – nostra
culpa, nostra maxima culpa –
ignoravamo pure l’esistenza.
Per i tipi di Quodlibet,
il nuovo «massimo
specialista di Croce oggi in Italia»
manda in libreria un volume che s’intitola
Il
problema Croce,
che il quotidiano torinese si precipita a recensire, ed è qui che
scopriamo che il problema sussiste, non tanto perché qualcuno sia
infine capace di dirci a cosa serva più un sistema filosofico che
faceva già acqua quando Croce era in vita, quanto perché non viene
meno la lena di chi tenta disperatamente di tappare i mille buchi.
«Abbiamo
a che fare –
leggiamo – con
il nume che ha dominato la cultura italiana per decenni, che fatica
ora a profilarsi nella nostra memoria culturale come quel grande
olimpico classico che fu invece in vita».
Si tratta di un grazioso bouquet di eufemismi: Croce era un
camorrista che faceva e disfaceva carriere muovendo il solo mignolo,
e l’unico
criterio a guidarlo era la venerazione dimostrata nei suoi confronti.
Doveva essere assoluta, incapace di concepire critica, anche se da
lui intravista solo in trasparenza. In quanto alla fatica a
profilarsi oggi nella nostra memoria culturale eccetera, vorrei
vedere: tutta la naftalina in cui l’hanno
amorevolmente tenuto le figlie è finita, lo Stato non sgancia più
un soldo.
«Il
suo sistema appare obsoleto e arretrato il suo atteggiamento
culturale anche in forza del polemico atteggiamento nei confronti di
discipline come la sociologia e la psicoanalisi».
Tutto proprio come «appare»: di fronte a Croce perfino Bergson e Comte sembrano moderni. Che
resta? «Alla
base della ricezione attuale di Croce resta in fondo l’Estetica
del
1902»,
nella quale non si fa mistero che «Croce
liquida, con un quasi oltraggioso colpo di spugna, tutti le grandi
categorie che avevano pervaso la tradizione. A fronte del dominio
assoluto della bellezza da lui sostenuta, venivano messi da parte il
comico, il sublime, il patetico, il tragico, l’umoristico, e poi la
partizione delle arti e i loro principi specifici. E il critico,
privato dei ferri del mestiere, sembrava di colpo indotto ad
affidarsi alla sola intuizione per esercitare il proprio mestiere».
C’è
di più, e non è carino ometterlo: l’intuizione
unicamente valida a stabilire dove vi fosse bellezza assoluta, e dove
no, doveva essere la sua.
Per evitare che tutte le copie vadano
vendute appena messe sugli scaffali, domani correremo in libreria ad
acquistare il volume di Paolo D’Angelo,
poi vedremo se lì dentro c’è qualcos’altro a salvare Croce oltre al solito «antifascista
che seppe dialogare con i vertici della cultura europea in tempi
quanto mai difficili, e resistere, da grande e onesto aristocratico,
al conformismo della società italiana dell’epoca»,
lipsanoteca che conserva i resti di uno che sul fascismo espresse
ottimi giudizi fino al 1925, e a cui il fascismo consentì di scrivere
e pubblicare mentre ad altri antifascisti non consentì neppure di respirare.
mercoledì 15 giugno 2016
«Il gioco più bello del mondo»
Premessa
Di
calcio capisco poco o niente, quindi la domanda che qui porrò non è
retorica, ma mossa da genuina ignoranza. Diciamo che non sono mai
stato in grado di penetrare la logica che informa il mondo del
calcio, sicché in certe occasioni – quanto segue circostanzia una
di queste – sono costretto a chieder lumi a chi dentro ci sguazza,
e conosce a memoria la formazione di tutte le squadre di serie A, B e
C aggiornate agli ultimi movimenti del mercato con allegato listino
dei prezzi di acquisto e di ingaggio, sa distinguere il calciatore X
dal calciatore Y dal dettaglio di un tatuaggio in un particolare di fermo-immagine
ancorché sfocato, a richiesta sa fornire informazioni su tutti i
calendari degli incontri di campionato e di questa o quella coppa,
per non parlare della piena padronanza dell’idioletto
indispensabile
a discutere coi suoi pari. Sono certo che fra i lettori di questo
blog non manchino tali esperti, probabilmente sono quelli che, quando
cito Perelman e Olbrechts-Tyteca o mi intrattengo sul réferé législatif, nella pagina dei commenti mi lasciano un «ma di che cazzo stai a parla’?»:
è ad essi che mi rivolgo.
Questione
Leggo
su gazzetta.it
quanto segue: «Vincendo
il proprio girone, gli azzurri guadagnano un giorno di riposo in più
(questo è certo) e verosimilmente affronteranno agli ottavi chi tra
Croazia e Spagna, le due big del gruppo D che hanno già fatto festa
al debutto, chiuderà al secondo posto. Se invece Conte finirà
secondo, si apre un altro scenario: la prima avversaria nella fase a
eliminazione diretta sarebbe la vincente del gruppo F, quello delle
sorprese, dove le favorite Portogallo e Austria hanno già steccato e
al momento c’è
in testa l’Ungheria.
E qui scatta la provocazione: siamo proprio sicuri che arrivare primi
conviene? [...] Facciamo un ulteriore passo avanti: la vittoria del
girone ci porta dal lato “sbagliato” del tabellone, proiettandoci
(teoricamente) verso un incrocio ai quarti con la Germania (e in
semifinale con la Francia padrona di casa). Arrivando secondi
atterriamo sul lato morbido, perché (sempre in linea del tutto
teorica) l’Inghilterra
sarebbe eventualmente la squadra più forte da affrontare».
Domanda
Sarebbe
questo, «il
gioco più bello del mondo»?
Ieri, oggi e domani
Ieri
Ricordate Anders Breivik? Il 22 luglio 2011 si armò di tutto punto, piazzò alcuni ordigni nei pressi di alcune sedi del governo, a Oslo, li fece esplodere, poi si diresse a Utoya, isoletta in mezzo al lago Tyrifjorden, dov’era in corso un seminario dei giovani del Partito laburista norvegese, e cominciò a sparare: 77 morti in tutto. All’inizio non si capì bene chi avesse combinato quel macello, ma Il Foglio pensò di poter andare a colpo sicuro e il giorno dopo, in prima pagina, ci disse che la strage era islamista.
Ricordate Anders Breivik? Il 22 luglio 2011 si armò di tutto punto, piazzò alcuni ordigni nei pressi di alcune sedi del governo, a Oslo, li fece esplodere, poi si diresse a Utoya, isoletta in mezzo al lago Tyrifjorden, dov’era in corso un seminario dei giovani del Partito laburista norvegese, e cominciò a sparare: 77 morti in tutto. All’inizio non si capì bene chi avesse combinato quel macello, ma Il Foglio pensò di poter andare a colpo sicuro e il giorno dopo, in prima pagina, ci disse che la strage era islamista.
Quando
fu chiarò che al Qaida non c’entrasse
niente, Il
Foglio
accusò un po’
di imbarazzo, che divenne pesantuccio quando l’autore
della strage si dichiarò «cultural
conservative, revolutionary conservative, Vienna school of thought,
economically liberal, christian, protestant but I support a
reformation of protestantism leading to it being absorbed by
catholicism»,
e
ovviamente
anti-multiculturalista e anti-islamista: un fogliante, praticamente,
gli mancava solo qualche pelo del culo di Berlusconi incastrato tra
gli incisivi. Allora Il
Foglio
pensò bene di presentarcelo come un mattocchio: «semplicemente
un folle»,
«un
cretino apocalittico». Anche
qui l’azzardo
buttò male: le perizie psichiatriche nel corso del processo
chiarirono che fosse sempre stato capace di intendere e di volere,
solo un pochino narcisista.
Più lucido di Ferrara, insomma.
Non
mancò neppure qualche voce, sul simpatico giornalino, che per
coprire di segatura la professione di fede cristiana di Breivik cercò
di spacciarlo come neonazista. Non aveva avuto la pazienza di leggere
con attenzione le 1.518 pagine del suo manifesto: «Whenever
someone asks if I am a national socialist I am deeply offended. If
there is one historical figure and past Germanic leader I hate it is
Adolf Hitler. If I could travel in a time-machine to Berlin in 1933,
I would be the first person to go with the purpose of killing him»
(pag.
1.162).
Oggi
Perché riandare al 2011? Perché ieri, riguardo alla strage consumata da Omar Mateen a Orlando, Ferrara ci assicurava dalla prima pagina de Il Foglio che «l’argomento dell’omofobia è farlocco», invitandoci a evitare «depistaggi antropologici»: «La paura del sesso e del corpo libero e indifferenziato c’è, ma è una paura tra le paure eguali (la donna emancipata, la lettura critica dei testi, la libertà di culto e di coscienza, le vignette libertine, le vestigia della storia umana preislamica) suscitate da un’idea di profetismo assolutista e intimidatorio che considera diverso e apostata tutto quel che sta fuori dal confine della coscienza religiosa maomettana». Un’omofobia tutta contestuale al fanatismo islamista, insomma.
Perché riandare al 2011? Perché ieri, riguardo alla strage consumata da Omar Mateen a Orlando, Ferrara ci assicurava dalla prima pagina de Il Foglio che «l’argomento dell’omofobia è farlocco», invitandoci a evitare «depistaggi antropologici»: «La paura del sesso e del corpo libero e indifferenziato c’è, ma è una paura tra le paure eguali (la donna emancipata, la lettura critica dei testi, la libertà di culto e di coscienza, le vignette libertine, le vestigia della storia umana preislamica) suscitate da un’idea di profetismo assolutista e intimidatorio che considera diverso e apostata tutto quel che sta fuori dal confine della coscienza religiosa maomettana». Un’omofobia tutta contestuale al fanatismo islamista, insomma.
Neanche
il tempo di buttare Il
Foglio
nella spazzatura che già il web ci aggiornava sulla personalità
dell’autore
della strage:
Omofobo e islamista, vabbe’, ma gay e islamista? C’è da attendersi una sconfessione da parte dell’Isis: «Pardon, come non detto: non era dei nostri». Ma poi: gay e omofobo, è possibile? Possibile, possibile.
Domani
Eccellente alternativa a un’eventuale legge che neghi agli omofobi il diritto di parola: prima ti sottoponi al test del dottor Adams et coll., poi puoi dire quel che vuoi.
Eccellente alternativa a un’eventuale legge che neghi agli omofobi il diritto di parola: prima ti sottoponi al test del dottor Adams et coll., poi puoi dire quel che vuoi.
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