L’Asia,
che Einaudi ha mandato in libreria a giugno nella collana dei
Millenni (due volumi, 1616 pagg., 140 euro), raccoglie i primi otto
dei complessivi ventisette libri della monumentale Istoria
della Compagnia di Gesù
di padre Daniello Bartoli (1608-1685), quelli relativi alle missioni
di Francesco Saverio (1506-1552) e di Rodolfo Acquaviva (1550-1583).
Che dirne? Come sempre accade per l’apologetica
e l’agiografia,
occorre armarsi di machete per farsi strada nell’altrimenti
impenetrabile selva di imbellettature e iperboli, eufemismi e
reticenze, elusioni e preterizioni, che furono una goduria per
l’amante
del survival che fui. A onor del vero, infatti, devo confessare che
questa è impressione assai datata, peraltro riguardante solo parte
dell’opera,
quella che nel piano editoriale della Einaudi verrebbe subito a
seguire, e cioè quella relativa alle catastrofiche missioni in
Giappone: tre volumi del primo Ottocento che, poco più che ventenne,
trafugai dalla libreria di suor Geltrude, badessa del Sacro Cuore di
Gesù, e zia.
Di lei e del Bartoli, qui, non mette conto dir altro,
perché quello che invece mi pare assai più interessante segnalare è
quanto Alberto Asor Rosa scrive a margine di una stitica e tarda
recensioncella de L’Asia
apparsa ieri su la
Repubblica:
«Il
gesuitismo, al di là di certe sue prese di posizione ferocemente
antiprogressiste,
ha contribuito, anch’esso, almeno in Italia, alla costruzione di
un’identità nazionale».
Ora occorre dire che «gesuitismo»
ha più accezioni, tutte riducibili a due significati: è «il
complesso dei metodi, dei sistemi propri dei gesuiti, e in
particolare l’atteggiamento e il comportamento di fronte a problemi
intellettuali, morali, dottrinali e religiosi, o anche politici, che
furono propri dei gesuiti»
(Treccani),
dove però non si capisce il «furono»
per metodi e atteggiamenti che i gesuiti non hanno mai dismesso e che
oggi, con un gesuita assiso sul Trono di Pietro, incontrano unampio,
seppur non generale, favore in seno alla Chiesa di Roma; ma sta pure
per quel bell’intreccio
di «doppiezza,
falsità, fariseismo, finzione, insincerità, ipocrisia,
mistificazione, simulazione, [al
servizio della] adozione
della casistica per scopi mondani e per accrescere il proprio
prestigio e potere nella società contemporanea»
(anche qui, Treccani).
A quale dei due significati fa riferimento Alberto
Asor Rosa nel lamentare l’odioso
pregiudizio che a lungo ha pesato, e ancora pesa, almeno in certi
ambienti, sulla Compagnia di Gesù?
Non è del tutto chiaro, ma in un punto pare sia possibile avanzare un’ipotesi:
è dove ci rammenta che negli anni ’70
«rischiai
il mio buon nome e, peggio, la mia carriera accademica»
nell’azzardare
un
elogio
di Daniello Bartoli e della sua Istoria
della Compagnia di Gesù. Dove quel «peggio»
ci
svela la scala dei valori di Alberto Asor Rosa, in cui la «carriera
accademica»
sta sopra e il «buon
nome»
sta sotto.
Con
la legge n. 130 del 30 marzo 2001 è venuto a cadere il divieto della
dispersione delle ceneri dopo la cremazione, fin lì vigente in forza
dell’art.
411 del Codice Penale, così riformato. Sia fatta ordunque la volontà
della cara salma, laddove ella non voglia riposare in un misurato
barattolo. Se già in vita, poi, altro non era che grigio pulviscolo,
semmai anche molesto, si potrà ben tollerare possa spandersi ancora
una volta, perché l’ultima.
5. «La
verità, vi prego, sulla verità» (pag.
7): Hanno
tutti ragione? apre
parafrasando il Wystan Hugh Auden di La
verità, vi prego, sull’amore,
che nel «vi
prego» della
traduzione a cura di Gilberto Forti (Adelphi, 1994), seppur con un
sovrappiù d’enfasi
rispetto al testo originale (O
Tell Me Truth About Love),
trova efficace soluzione nel ridarci, da un lato, lo smarrimento a
fronte del sentirne dire tutto e il contrario di tutto («...
alcuni dicono che fa girare il mondo / e altri che è solo
un’assurdità...»)
e, dall’altro,
l’urgenza
di una risposta cui poter prestar fede, data la centralità, la
preminenza, della questione in oggetto.
È parafrasi estremamente
suggestiva per due ragioni: innanzitutto, la «verità»
in
luogo dell’«amore»
produce
una locuzione – «la
verità sulla verità» –
il cui corrispettivo evoca quell’«amare
l’amore»
che
in Agostino d’Ippona
(Esposizione
sui Salmi,
118, VIII, 3) è una brillante scappatoia al problema posto da un
soggetto e da un oggetto dell’amare
che sia un «amare
in Dio» («la
verità sulla verità»
risolve allo stesso modo un analogo problema: chi o cosa garantisce
il «vero»
di
una «verità»?);
secondariamente, è parafrasi che, in luogo della «verità
sull’amore», ci
offre un «amore
per la verità» che
sta nella ragione etimologica della «filo-sofia». Un brillante trucchetto, insomma, per presentarsi al lettore come la
persona più qualificata a poter parlare della «verità»,
per
eminenza di interesse e precipuità di pertinenza.
Da persona tanto
qualificata ci si aspetterebbe in primo luogo una definizione
dell’oggetto
in questione, ma anche qui, come di regola in filosofia, lo si
ritiene superfluo, dando scontato che si sappia di cosa si tratti.
C’è
che però anche qui, come di regola in filosofia, l’oggetto
è estremamente sfuggente, ambiguo, quasi sempre espresso da un
termine che sembra fatto apposta per reggere – sia concessa anche a
noi una citazione, una tantum – quelle che la mera analisi logica
del linguaggio rivela come pseudoproposizioni prive di senso (cfr.
Rudolph Carnap, Il
superamento della metafisica mediante l’analisi
logica del linguaggio).
Cos’è,
infatti, la «verità»?
Non ve n’è
definizione – tentativo di definizione, per meglio dire – che non
si risolva in tautologia. Tautologia esplicita, com’è
nel definirla «l’essere
vero»(De
Mauro) o «ciò
che è vero»(Treccani),
sennò implicita nel ricorso a un sinomino come «realtà»,
che ce la ridà come «aderenza
alla realtà»
(Palazzi), «rispondenza
piena e assoluta con la realtà effettiva»
(Devoto-Oli), «conformità
a una realtà obiettiva»
(Treccani), dove questa «realtà»rimanda
regolarmente al «vero»,
in quanto «qualità
e condizione di ciò che è veramente»
(Palazzi).
Quando,
poi, dal tentare di definire la «verità»si
passa ad analizzare le sue accezioni nei vari ambiti di impiego
(filosofico, teologico, psicologico, ecc.), le cose vanno anche
peggio, perché sembra si parli ogni volta di una cosa diversa: per
un teologo come Tommaso, dovremmo considerla coincidente all’Essere
e in pratica assimilabile a Dio; per un epistemologo come Peirce,
dovremmo pensare ad essa come al risultato di un accordo di un
determinato gruppo di soggetti, su un determinato assunto, in
un determinato spazio, in un determinato lasso di tempo; per un
matematico come Gödel, non tutto ciò che è vero
è
anche dimostrabile, il che pone il problema di assumere la «verità»
come «inverificabile»;
facendoci supporre debba aver ragione un logico come Frege, secondo
il quale il «vero»è
categoria illusoria.
Anche trasferendo interamente il «vero»
al «reale»,
nel disperato e ultimo tentativo di dare un senso alla «verità»,
le cose non si mettono al meglio, perché la realtà
è
maledettamente sfuggente ad una percezione che voglia dichiararsi
qualitativamente e quantitativamente assoluta per tradursi in
conoscenza oggettiva: offrirà in se stessa gli strumenti per
valutare la congruenza tra un aspetto del reale e un suo
corrispettivo, in ciò che dunque avrà efficacia di mera
dimostrazione di una congruenza interna ad un sistema, del quale però
la conoscenza soggettiva è parte inalienabile. E così la realtà
sarà
sì comprensibile, ma mai interamente, né sarà mai possibile
ridurla a pura oggettività, perché ad essa è connaturata la
frammentarietà della percezione e della comprensione relativa, che
non può mai tradursi in conoscenza assoluta.
È in questo punto, che
poi è quello in cui ci si dovrebbe arrendere all’impossibilità
dell’onniscienza, dell’impossibilità di rappresentarci il «vero»
al
di fuori di uno spazio soggettivo, che nasce la trascendenza. Con
essa si fa strada in molti l’idea che l’assoluto sia una meta e
che la «verità»
sia un fine. Tutto è promesso all’uomo in una «verità»
assoluta, che non è necessariamente Dio, tutto gli è chiesto in
cambio di quella. Accade allora quasi sempre che il soggettivo, per
questa sua vorace fame di assoluto, cerchi di imporsi come oggettivo,
non di rado con mezzi assai opinabili (si va dai sofismi alle
mazzate), e assai opinabilmente giustificati dalla bontà del fine,
che è tutto illusorio. Ciò nonostante – ma forse dovremmo dire:
proprio perciò – sentiamo pigolare da chi, non essendo in grado di abboffarci di mazzate, si rassegna ad abboffarci di sofismi: «La
verità, vi prego, sulla verità».
Ma a chi vuo’
piglia’
pe’
culo, Adino’?
4. Non
è raro che la biografia di un filosofo registri a un certo punto uno scarto anche assai sensibile nel percorso della sua riflessione, per
lo più con uno spostamento dell’interesse o una correzione del
metodo, ma talvolta anche con radicali revisioni del sistema fin lì
edificato. Si tratta di svolte che nel far riferimento alla sua opera
impongono di solito precisazioni del tipo «il
giovane Hegel»,
«il
secondo Wittgenstein»,
«l’Heidegger
dopo la Kehre»,
ecc. Accade, così, di avere due filosofi in uno, di cui, giusto per
fare un esempio, il primo è categorico, non transige, «su
ciò di cui non si può parlare si deve tacere»
(Tractatus
Logico-Philosophicus,7),
mentre il secondo chiude benevolmente un occhio sulla chiacchiera
metafisica e su ogni altro ambarabà-cicì-cocò, perché trova che
«l’essenza
è espressa nella grammatica»
(Philosophische
Untersuchungen,
371):
nel mezzo c’è un esaurimento nervoso e, a seguire, un lavoro
usurante come quello di maestro delle elementari (non viceversa, come
solitamente accade), si può capire.
Con Massimo Adinolfi non si
capisce cosa possa essere accaduto tra un «buonsenso»
che a dicembre dell’anno scorso è «filosofia
non elaborata che si sedimenta nella coscienza collettiva»
(Leftwing)
e nemmeno sei mesi dopo è un cuoppo «infarcito
di insensatezze» (Hanno
tutti ragione?,
pag. 43). Sia chiaro, non c’è contraddizione, perché il
«buonsenso»
è «la
confidenza in una verità a portata di tutti, […] per la quale non
sarebbe necessario compiere molti sforzi, non sarebbe necessario
molto studio»
(pag. 41): se non la fai «elaborare»
da
un esperto, uno che ne ha la «scienza»,
uno cui il Principe deleghi la manutenzione dell’«infrastruttura
intellettuale»
della «coscienza
collettiva»,
la
«verità»
va a farsi fottere e, voilà, ecco il cuoppo. Contraddizione, dunque,
no, ma un sostanziale mutamento dell’umore che impregna il delirio
di grandezza comune a ogni filosofo, quello, sì: da un colpo, certo
doloroso, inferto dal fatto che «con
tutto questo buonsenso non mi ci ritrovo neanche un po’, mentre una
buona parte del paese, a quanto pare, ci si ritrova»
(Leftwing),
e tuttavia sofferto in modo stoico, alla furia che la ferita
narcisistica impone come indispensabile riparazione all’oltraggio,
e che finisce per mettere in discussione perfino la democrazia,
perché in fondo «non
c’è democrazia senza populismo»
(pag. 47).
In Hanno
tutti ragione?
non c’è più traccia del piagnucolio di sei mesi prima («diciamo
allora, come il poeta, che The
Times They Are A-Changin’,
anche se il cambiamento non sta avendo il verso auspicato»),
piuttosto la ben più lontana eco di un Giuliano Ferrara per il quale
una «democrazia
possibile» può
aversi solo nella fattispecie di «un’oligarchia
ben organizzata»
(Il
Foglio,
22.5.2008), e fa sfoggio, con allegato curriculum («esperienza
compiuta al Ministero della Giustizia come consigliere dell’allora
ministro, Andrea Orlando»
– pag. 92) di un bellicosissimo armamentario retorico, quasi ad
annuncio: A.A.A.
Referenziatissimo scienzato della verità, turris-eburnea-munito,
offresi a oligarchia ben organizzata come progettista di
infrastrutture intellettuali. Trattativa privata, telefonare ore
pasti, astenersi perditempo.
Ovviamente
non è il primo e non sarà l’ultimo
dei philosophes
engagés.
Diciamo che, qui, più che impegno,
l’engage
è ingaggio.
I cui termini paiono chiari, come è evidente chi sia la controparte
nella trattativa, certamente destinataa buon esito, salvo scazzi sul
compenso.
Cosa
c’è
di meglio di un Luigi Bonaparte dopo i torbidi di un 1848? «Democrazia è, anzitutto, suffragio universale: nessuno ne dubita. Ma il fatto che si fonda sul principio“una testa, un voto” non implica affatto che un voto, un’opinione, equivale a un pensiero»(pag. 52). E anche qui, per non lasciare l’affermazione sine argumento, ecco il sostegno ab auctoritate: «... così avrebbe detto quel reazionario di Hegel». Dove l’ironia conta di trovarci d’accordo sul fatto che Hegel è Hegel, e dunque «reazionario» è uno sproposito: se questo vale per lui, deve valere pure per chi fa proprie le sue affermazioni, ergo siamo tenuti a considerare una generosa concessione che il voto dietro il quale c’è un pensiero conti quanto quello dietro il quale non ce n’è. Con un’altra interessante implicazione: a un voto il pensiero può essere conferito da chi lo rappresenta, perché la rappresentanza – sostiene Massimo Adinolfi – è legata a tre valori, di cui il più importante è appunto quello della «verità». E cioè? «Nel rappresentante, la mia verità [...] si chiarisce a me stesso meglio di quanto io stesso non possa fare» (pag. 55). Concludendo? «Rappresentare è meglio che essere» (pag. 53). E qui l’infortunio è ancora più increscioso del Mussolini che a pag. 11 «firma i Patti Lateranensi, con i quali la religione cattolica diveniva la “sola religione dello Stato”», perché a rigor di logica ci attendavamo un «essere rappresentati è meglio che essere». Ma a scrivere è chi esprime un voto che è già pensiero, e pensiero che non ha bisogno di essere chiarito da chicchessia, e che anzi si candida a chiarire le «verità» altrui. Via, se lo mandate in Parlamento insieme alla Boschi e a Marattin, Adinolfi vi assicura che saprà chiarirvi cosa pensate, risparmiandovi la fatica del tentare di farlo da soli. [segue]
ti
ricordi com’eri bello quando cercavi una sistemazione?
Professionista dell’amicizia e della compassione.
Sempre
meglio di adesso che vai girando come una sciantosa,
che
non sei niente, ma fai di tutto per sembrare qualcosa»
Francesco
De Gregori, Vecchi
amici (1992)
3. Arrivato
neanche a un settimo di quanto avrei da dire su Hanno
tutti ragione?,
ridò voce alla domanda che Bentham immagina gli ponga il lettore:
«Se non metteva
conto di occuparsene, perché perderci tanto tempo?».
La risposta a chi me la ponesse già dopo i primi due dei quindici
paragrafetti previsti – tranquillo, lettore, altri due o tre e
anch’io mi annoierò, abbandonando il piano d’opera – è la seguente: il libricino mi ha
enormemente irritato per la sua sfacciata malafede, peraltro
fieramente esibita in quarta di copertina, dove si legge che
«Adinolfi prova a
fornire argomenti per ricostruire il rapporto tra verità e
democrazia».
Ma quando
mai c’è stato, questo rapporto? Se hai una «verità»,
non hai più bisogno di decidere, basta e avanza conformarti ad essa:
in più, se è proprio «verità»,
cioè eterna, universale e incontestabile, questo non vale solo per
te, ma per tutti, e per sempre, rendendo superflui ogni confronto,
ogni discussione, ogni decisione messa ai voti: rendendo superflua la
democrazia, anzi, di più, rendendola sacrilega, perché è evidente
che, per sua natura, la «verità»
può
essere solo antecedente e superiore all’uomo
o, tutt’al
più, intrinseca all’ordine
creaturale in cui l’uomo
è inscritto. Quand’anche
non si tiri in ballo Dio, la «verità»
ne
surroga il senso, e dunque chi sostiene di possederla, o anche
soltanto di avere gli strumenti per meglio approssimarla, si sente in
pieno diritto di governare il mondo, e la pretesa sostanzialmente è
di stampo teocratico. Poi, certo, a fronte del fatto che avanzare
seriamente la pretesa gli costerebbe l’essere
fatto bersaglio di fumanti palle di letame,
è costretto a schermirla in modo gigionesco, senza tuttavia riuscire
a celare l’indispettimento
per lo «scomodo»
che impone il dover sta lì ad argomentare perché la sua «verità»
sia la vera Verità, quando è evidente che non può essere
altrimenti per il solo fatto che a profferirla è chi ne ha la
«scienza».
Iniziando
a parlare di Hanno
tutti ragione?,
ho detto che il mio intento non voleva essere pedagogico, perché le
fallacie di cui trabocca sono talmente scoperte da non aver bisogno
di essere segnalate come tali. La più evidente è proprio quella che
intende dar ragione del perché sia necessario «ricostruire
il rapporto tra verità e democrazia»,
peraltro subito dopo aver concesso che «è
indispensabile, per amore della pace e della concordia sociale,
rinunciare a una rivendicazione “assoluta” e accettare che le
diverse verità vengano relativizzate»
(pag. 14): sarebbe necessario perché, «da
un lato, condividiamo la convinzione che il processo democratico
lascia ciascuno libero di credere qualunque cosa, e prendiamo anzi
precauzioni perché nessuna opinione sia imposta in nome della
verità; dall’altro,
lamentiamo come oggi la verità stessa non sia tenuta in alcuna
considerazione» (pag.
17).
Patetico trucchetto, quello di usare un «noi»
che
intenderebbe denunciare una contraddizione nell’assunzione
– insieme – di «condividiamo»
e «lamentiamo»,
ma in realtà chi è che davvero può lamentare che una verità
assoluta non splenda indiscussa sulle nostre vite, pur condividendo
il principio democratico che di ogni «verità»
fa
un’opinione?
Solo chi ritiene inammissibile che la propria «verità»
possa
risultare opinione minoritaria nel confronto democratico, e dunque lo
accetta, per dirsene convinto assertore e sostenitore, se la propria
opinione ne esce vincente, pronto però a metterlo in discussione, se
dalla conta esce perdente. Pronto, qui, a metterlo in discussione con
un broncio che, ai tempi in cui era ancora un blogger, Massimo
Adinolfi dichiarava inutile se non svantaggioso, facendo sua una
frase di Robert Musil che campeggiava in homepage («Non
si può fare il broncio ai propri tempi senza riportarne danno»):
è evidente che deve aver trovato modo di cavarne qualche vantaggio,
d’altronde
in tempi di crisi il Tempio è sempre stato in grado di reclutare
qualche «filosofo
in missione per conto di Dio» (definizione
che Simone Regazzoni ha affibbiato a Maurizio Ferraris, anche lui
orfano della verità detronizzata e decapitata dalla inferocita plebe
della post-modernità).
Ma
cosa ci dovrebbe far rimpiangere i tempi in cui le società erano
illuminate dalle verità dei filosofi (niente virgolette, qui, né
per l’una,
né per gli altri) del tipo che l’«a-tomo»
è inscindibile (Democrito), che «per
natura»
alcuni sono liberi e altri schiavi (Aristotele) e che in quanto privi
di ragione e di coscienza gli animali non provano dolore (Cartesio)?
Il fatto che oggi un tizio può permettersi di dire che la terra è
piatta. Per inciso, come lo diceva Anassimandro, filosofo. Dovrebbe
essere evidente che non può essere il sapere filosofico a fare la
differenza tra puttanata e no, salvo a voler mettere un prima e un
dopo nella storia della filosofia, sulla falsariga dell’abisso che
separa la democrazia degli antichi da quella dei moderni. Ma conviene
al filosofo? Mi spiego: fosse possibile farlo, cosa consentirebbe
(sulla base della convinzione che «alcuni
hanno ragione e alcuni hanno torto»)
di poter affermare che il modello geocentrico del cielo aristotelico
è inservibile e quello della sua metafisica rimane valido? Basta
riandare a quello che abbiamo detto circa il dibattito scientifico e
quello filosofico nel paragrafo 1., ribadendo che la filosofia, in
quanto «scienza
della verità»,
è costretta a ritrarsi sempre più nell’empiricamente
indimostrabile
per poter salvaguardare il suo peraltro sempre più ristretto
dominio. Detto più prosaicamente: il filosofo può ormai esser
sereno solo quando resta nel teoretico, e cioè in quel campo della
conoscenza dove l’urgenza
del veritativo trova soddisfazione nell’astrazione
metafisica. È per questo che Hanno
tutti ragione? non
potrebbe muovere un passo oltre l’artificioso
paradosso costruito su un «noi»
che è democratico e – insieme – anela all’assoluto
della verità, senza servirsi dei trampoli della filosofia teoretica.
Sui quali Massimo Adinolfi si muove con grande disinvoltura per una
ventina di paginette, ma solo per ritrovarsi nel punto da cui era
partito: «Per
difendere la democrazia, non occorre che sia istituito un Ufficio
Centrale, che metta a disposizione del pubblico un immaginario
Catalogo Completo dei Fatti Accertati, così che almeno una certa
porzione di verità sia posta fuori discussione
[non sia mai detto che il «vero»
si riduca all’«accertato»,
significherebbe vincolare la «verità»
alla provvisorietà del dato scientificamente desunto];
è invece necessario che sia viva, nelle istituzioni e in capo ai
singoli individui, una solida infrastruttura intellettuale che
consente la più ampia, e pubblica, circolazione delle idee, che
favorisca il confronto e, se necessario, anche il conflitto delle
interpretazioni. Non uffici centrali, quindi, ma giornali, scuole,
università, teatri, luoghi, insomma, in cui idee e modi di vedere il
mondo possano mescolarsi e se è il caso sfidarsi. Una simile cura
deve appartenere al singolo individuo, e alla società nel suo
insieme. La prima, individuale, comporta una responsabilità di
ordine morale; la seconda, collettiva, comporta una responsabilità
di ordine politico» (pag.
37). Ci è consentito un sospiro di sollievo: il filosofo non è
intenzionato a governare il mondo a colpi di randello, chiede solo
gli sia data la supervisione della «infrastruttura
intellettuale» che
informa la morale e la politica. Più che un governatore, un tutore. [segue]
Per
molto tempo i filosofi si sono limitati a interpretare il mondo in
modi diversi. Poi, in modi diversi, recepirono l’esortazione
di Karl Marx a cambiarlo. Al più riuscirono a scroccare qualche cena
al Palais
de Élysée, gli altri non andarono più in là di uno sketch sul
palco della Leopolda.
2. «Questo
non è, in senso stretto, un libro di filosofia»,
avverte Massimo Adinolfi chiudendo l’Introduzione
di Hanno tutti
ragione?
(pag. 9). Lo è in senso lato, dunque? Senza dubbio, perché il
saggio e anziano nocchiero è diventato cieco, e ha perso il
controllo del timone, oggi conteso da mozzi incompetenti e
presuntuosi, che senza dubbio manderebbero la nave a fracassarsi
sugli scogli, sicché occorre che qualcuno...
Pardon, mi stavo
facendo prendere dal milieu
abbandonandomi all’allegoria
con la quale, nel VI libro della Repubblica,
Socrate spiega a Glaucone perché il governo della polis
spetti al filosofo. Ad Atene, neanche a parlarne. Per tacere di
Siracusa, povero Platone. La filosofia deve ridimensionare le
aspettative: ancilla
theologiae,
nutrendo la speranza di diventare, e chissà come poi, serva
padrona;
e poi a corte, nel posto dove si intersecano le bisettrici degli
angoli tra giullare, favorita e domestico di stanza; di frustrazione
in frustrazione, eccolo nella turris
eburnea
come sacerdote nel tempio del suo sistema, clerc
sempre tentato alla trahison;
ma intanto il Principe è diventato Partito, e allora eccolo
incardinato nell’aristocrazia
operaia;
infine, come si diceva, tra virgolette; anche stretto tra quelle,
tuttavia, al «filosofo»
non
si può negare l’esercizio
della «scienza
della verità»,
che intanto da rivelazione è diventata saggezza, e da saggezza è
diventata ermeneutica, e da ermeneutica è diventata opinione tra le
opinioni.
E ordunque: rigogliosa cresce la «malapianta
del populismo»,
mentre sempre più pesanti si fanno gli
«affanni della
democrazia rappresentativa»;
poi c’è la «straordinaria
accelerazione tecnologica»
che ha comportato «profonde
modificazioni dello spirito pubblico» (pag.
7); e tutto questo mentre alla tv c’è «la
cattedrale di Notre-Dame in fiamme» (pag.
9); come volete che a Massimo Adinolfi non vengano d’istinto le 96
paginette con le quali provare a far «argine
ai cedimenti di certe infrastrutture culturali»
e a «migliorare
la qualità della discussione pubblica» (pag.
10)? Con 96 paginette? Con 96 paginette. Non avranno la
«caratteristica
gravità»
del libro di filosofia, «ma
è un libro, tuttavia»
(pag. 9). E almeno su questo siamo d’accordo: senza dubbio è un
libro.
Si
comincia con un piccolo inciampo, ma è cosa da poco. Siamo nel 1929,
anno in cui esce Essenza
e valore della democrazia
di Hans Kelsen, e di quell’anno si dice sia quello in cui
«Mussolini, al
potere fin dal 1922, firma i Patti Lateranensi, con i quali la
religione cattolica diveniva la “sola religione dello Stato» (pag.
11): non è così, perché la religione cattolica è la «sola
religione dello Stato» già
con lo Statuto Albertino del 1848 (art. 1), che nel 1861 – 51 anni
prima della Marcia su Roma e 58 anni prima dei Patti Lateranensi –
diventerà carta costituzionale del neonato Regno d’Italia. Ma a
chi non può scappare un erroruccio del genere, quando in procinto di
far «argine ai
cedimenti di certe infrastrutture culturali»?
Si può chiudere un occhio, via, veniamo al sodo.
Hans
Kelsen, pag. 12: «Tolleranza, diritti della minoranza, libertà
di parola, e libertà di pensiero, così tipiche della democrazia,
non hanno diritto di cittadinanza in un sistema politico basato sulla
fede in valori assoluti. Questa fede conduce irresistibilmente, e ha
sempre condotto, a una situazione in cui chi asserisce di possedere
il segreto del bene assoluto reclama il diritto di imporre la sua
opinione come la sua volontà agli altri che sono nell’errore»
(Assolutismo e relativismo nella filosofia e nella politica).
Sottoscriviamo? Piano.
«Di
primo acchito – scrive Massimo Adinolfi – siamo tutti
portati a pensare, in effetti, che sia così» (pag. 14). Ora, la
grammatica ci dice che «in effetti» è locuzione con valenza
di congiunzione dichiarativa/esplicativa, come lo è, ad esempio, «in
realtà». Si noti che qui «in effetti» non cade su «sia
così», ma su un «pensare» che è «di primo
acchito»: «in realtà» così si pensa, non è detto che
«in realtà» così sia, siamo dissuasi dal precipitarci a
sottoscrivere. E cosa non funziona in ciò che afferma Kelsen a un
«pensare» che non sia «di primo acchito», ma più
ponderato, meglio se assistito, dunque, da un filosofo? È presto
detto: quelle di Kelsen sono parole di buonsenso. E che c’è di
male nel buonsenso? Che domande.
Qui è
necessario aprire una parentesi, vedrete che non sarà una perdita di
tempo: occorre intenderci su cosa debba intendersi con«buonsenso».
Ma dicevamo: anche sul
significato dei termini di più comune impiego ogni filosofo
rivendica il diritto di darne uno tutto personale. Conviene, dunque,
andare a rileggere cosa scriveva Massimo Adinolfi, poco meno di un
anno fa, nel mentre assai probabilmente di lato aveva in fieri Hanno
tutti ragione?
È
un articolo apparso su Leftwing,
in cui il «buonsenso»
è
la
«capacità di ben giudicare e di distinguere il vero dal falso»,
definizione
che ne dà Cartesio aprendo il Discorso
sul metodo,
e che dunque non si capisce perché dovrebbe essere la «bancarotta
della filosofia»
in quanto «scienza
della verità».
Quello che però in sostanza si lamenta, e fin dal
titolo (Abbiamo
perso la guerra del buonsenso),
è altro: il «buonsenso»
di un tempo era «filosofia
non elaborata che si sedimenta nella coscienza collettiva»;
bene, quel «buonsenso»
non
c’è
più, è
andato a farsi fottere, sconfitto da
un «buonsenso»
che
a
Massimo Adinolfi non piace perché stravolge le categorie di «vero»
e «falso»
cui era tanto affezionato, e chissà che della sconfitta non sia
anche un po’
sua la responsabilità, perché «facev[a]
le
bucce a cardinale Ratzinger» quando
quello se la pigliava con relativismo. Ecco qua, per dare ascolto a
Kelsen abbiamo lasciato sedimentare l’errore
nella coscienza collettiva. Certo, non siamo dinanzi a «chi
asserisce di possedere il segreto del bene assoluto [e]
reclama
il diritto di imporre la sua opinione come la sua volontà agli altri
che sono nell’errore»: mancano le palle.