Non guardo Propaganda live da mesi, dunque ho dovuto recuperare su rivedila7 la puntata andata in onda venerdì 14 maggio, che solo grazie ai commenti di chi seguo su Twitter ho appreso fosse stata disertata da Rula Jebreal, invitata a parlare dell’ennesimo riacutizzarsi del perenne conflitto tra israeliani e palestinesi, ma non più disposta a farlo dopo aver saputo di essere la sola donna ad essere ospitata in quella puntata. Impegnato com’ero in un delizioso weekend su un’isoletta covid free, però, non ho potuto recuperare la puntata prima di lunedì sera, e qui non metterebbe conto di parlarne, se non fosse che quanto è parso interessante a me, ascoltando il monologo di Diego Bianchi che apriva la serata, non è parso degno di nota a chicchessia.
Si è rilevato, infatti, che il suo imbarazzo fosse
assai piccato, e che solo il rispetto per la propria reputazione,
così faticosamente costruita con tanti furbi ammicchi e tante
sapienti leccatine, lo trattenevano dal dare della stronza alla
Jebreal.
Non è sfuggito, parimenti, quell’«a
me non piacciono i social»,
che, detto da chi ci costruisce sopra tre quarti di trasmissione, suonava alquanto grottesco. Tutto giusto, certo,
ma non mi è parso sia stato questo l’essenziale.
L’essenziale,
a mio modesto avviso, è stato che l’incidente
ha finalmente sciolto tutte le ambiguità sulle quali Diego Bianchi
ha saputo fino a quel punto reggere da scaltro equilibrista.
Rivelatori, in tal senso, sono stati alcuni termini cui è ricorso in
quegli otto lunghissimi minuti di excusatio.
Ha esordito in questo modo: «È stata una settimana decisamente pesante, impegnativa, sul fronte degli avvenimenti, della storia che si fa, e anche di chi ovviamente cerca in qualche modo, con gli strumenti che ha, di raccontarla. Noi ci siamo preparati per tutta la settimana, come sempre, per questa puntata, e poi, a un certo punto, è successo che, nell’assurdità del momento, oggi la notizia siamo diventati noi, e questa cosa francamente sorprende. Diciamo che a noi piace rincorrere le notizie, scoprire le notizie, dare le notizie: essere la notizia già meno».
Mettendo da parte l’epica che accomuna, nella fatica, «la storia che si fa» e chi la racconta, Propaganda live ha mai dato una notizia? Ne ha mai «scoperta» una? Le «rincorre», questo sì, e, soprattutto, le commenta. Per meglio dire: fa suo il commento che su una data notizia dà il volto noto che è ospitato dalla trasmissione o il tweet scelto nella marea di tweet che l’hanno commentata. Nell’uno e nell’altro caso, come è ovvio, la scelta è legittimamente insindacabile, d’altronde, almeno fino a quando l’ho seguita io, Diego Bianchi ha più volte tenuto a far presente: «Questa trasmissione è mia»; anche in questa occasione, peraltro, ha precisato: «La scelta dei nostri ospiti non è mai neutra. Su questo palco non salgono i politici, per determinati motivi, ma soprattutto non salgono neppure certi pensieri che voi vedete giustamente rappresentati nei talk show».
Una trasmissione, dunque, che, seppure con l’espediente di dar voce a questo e a quello, sostanzialmente esprime una linea editoriale e una linea politica. Fin troppo manifeste, direi, oltre che fortemente motivate, visto l’armamentario messo in campo contro gli avversari, offerti a un pubblico assai fidelizzato come oggetto di esecrazione, differita in feroci prese per il culo, che quasi sempre mirano a farsi tormentoni, per acquistare la viralità del meme.
Una trasmissione propagandistica, dunque, come d’altronde il titolo rivendica, e con fierezza si potrebbe dire, se non fosse che, a suo tempo, quando Gazebo si spostò da Rai3 a La7, la scelta di chiamarla Propaganda live, fu dichiaratamente ironica, a rigettare l’accusa che proprio in quel senso le era stata mossa: «Per non dare ragione a Salvini – disse Diego Bianchi – si fa quello che vuole Salvini». Aveva ragione Matteo Salvini, dunque, ma doveva aspettare quattro anni per vedersela pienamente riconosciuta da un Diego Bianchi senza più alcuna possibilità, e forse neppure voglia, di schermirsi schernendosi. Senza più neppure necessità di farlo, poi, visto che la sua trasmissione ora va in onda da un’emittente privata, e col tempo ha maturato i crediti di cui gode ogni marchettificio culturale del Belpaese, protetto dalla rete di interessi in cui è riuscito a crescere e irrobustirsi.
Interessi che qui sono riusciti a estendersi
in più campi: Propaganda
live
può promozionarti il libro o il disco, se sei un vip, ma può pure
darti quindici secondi di notorietà, se sei un anonimo account su
Twitter;
può promuovere ad opinionista un comico e ripescare dal
dimenticatoio un cantante in voga mezzo secolo fa; può preparare il
ritorno in campo di Enrico Letta facendogli fare il Vaso degli Esteri
e creare il clima più favorevole al giudizio che un tribunale dovrà
emettere su Mimmo Lucano; può strizzare un occhio ai centri sociali
con un’intervista a Zerocalcare e fare una leccatina al culo di
Sergio Mattarella con una striscia di Makkox, il genio. Scampoli di
potere, è ovvio, peraltro esercitato in una nicchia relativamente
angusta, ma quanto basta a nutrire ambizioncine e carrierucce,
rafforzando la certezza di essere referenti di un’area.
Quale sia l’area di cui un Diego Bianchi può avere avuto modo, più o meno a buon diritto, di credersi referente, non è un mistero: è quella che, pur con sempre minor consenso in Italia, esprime la ben nota presunzione di superiorità morale e culturale di certa sinistra, che proprio a questa sua irrinunciabile presunzione deve le sue più cocenti sconfitte.
Accade, infatti, che si inviti in trasmissione il
sindacalista di colore che si batte contro lo sfruttamento di
immigrati pagati poco e in nero per raccogliere pomodori in Puglia, e
a chiudere l’intervista
ci
sia
lo stacchetto musicale della band il cui leader è quel ristoratore
che fa lavorare una ragazza senza un regolare contratto e, quando
quella ha da ridire, la liquida con l’epiteto
di «pazza
incattivita dalla vita».
E lì, a «rincorrere
la notizia» trovi
un altro, e la notizia sei tu, e a contorno ti stanno gli artisti che
hai promozionato, qui in riconoscente difesa del
musicista-ristoratore, uno dei «tre
o quattro amici»
che alla tua trasmissione collaborano da anni, e che dunque della
trasmissione sono espressione almeno quanto te: puoi cavartela
dicendo che questo ti «piace
meno»?
Poi,
e s’è
già detto: «A
me non piacciono i social».
Paradossale, s’è
già detto pure questo, ma perché? In sostanza, perché dei social
non puoi sempre servirti come vuoi. E qui la riflessione è costretta
a esorbitare in domande che su queste pagine ho già posto, e che
oggi ritornano: ma
un vip che twitta, che apre una pagina su Facebook
o
su Instagram
–
esattamente – cosa vuole? Che cerca? In altri termini: cosa muove
uno scrittore, un attore, un politico, un giornalista, un cantante ad
offrirsi, almeno nelle intenzioni, all’interlocuzione sul web? Non
dovrebbe essere affetto dalla smania che consuma il volgo alla
disperata ricerca di un’occasione per affiorare con la punta del
naso dall’anonimato e per dar sfogo in questo modo a frustrazioni
di ogni sorta.
Tanto meno mancano occasioni di socializzare, al vip,
anzi, quasi sempre ne ha di eccezionali, quantitativamente e
qualitativamente. Insomma, non sta sui social per vincere la
solitudine. Né lo fa perché gli mancano opportunità di comunicare:
a differenza di chi ha solo il web per aprir bocca, a uno scrittore,
a un attore, a un politico, a un giornalista, a un cantante sono
offerte di continuo mille occasioni per esprimere opinioni e giudizi.
E allora? Cos’è che spinge un vip a darsi pubblicamente, oltre che
in cambio di un compenso, quando lavora, anche così, a gratis? Dalla
prontezza a retwittare ogni complimento a loro indirizzato, ogni
dichiarazione di stima o di simpatia, ogni dimostrazione di
ammirazione o di affetto, si potrebbe supporre sia per vanità,
ipotesi che non vacilla neppure al constatare che spesso i vip
retwittano anche gli insulti ricevuti, perché si sa che i meccanismi
della vanità spesso sono perversi.
Mera ingordigia di attenzioni, si
direbbe, travestita però da quel bisogno di contatto col pubblico
che fa tanto democratico e alla mano, e che perciò è un efficace
strumento di autopromozione professionale, oltre che di
fidelizzazione dei fan. Salvo imprevisti, tuttavia, com’è
nel caso in cui l’area
di cui ti credevi referente si spacca, e una parte, d’improvviso,
trova condivisibili le ragioni che hanno portato Rula Jebreal a
rifiutare il tuo invito, e poco convincenti le tue spiegazioni.
Povero Zoro, povero equilibrista, si capisce lo sbandamento, si capisce la vertigine! Si capisce, dunque, pure il suo farsi forza dicendo: «Qui non cade nessuno». Unico momento di vero pathos in otto minuti tutti da ridere.
Povero Zoro, povero equilibrista, si capisce lo sbandamento, si capisce la vertigine! Si capisce, dunque, pure il suo farsi forza dicendo: «Qui non cade nessuno». Unico momento di vero pathos in otto minuti tutti da ridere.