venerdì 12 novembre 2021

mercoledì 19 maggio 2021

Povero Zoro!

 



Non guardo Propaganda live da mesi, dunque ho dovuto recuperare su rivedila7 la puntata andata in onda venerdì 14 maggio, che solo grazie ai commenti di chi seguo su Twitter ho appreso fosse stata disertata da Rula Jebreal, invitata a parlare dellennesimo riacutizzarsi del perenne conflitto tra israeliani e palestinesi, ma non più disposta a farlo dopo aver saputo di essere la sola donna ad essere ospitata in quella puntata. Impegnato comero in un delizioso weekend su unisoletta covid free, però, non ho potuto recuperare la puntata prima di lunedì sera, e qui non metterebbe conto di parlarne, se non fosse che quanto è parso interessante a me, ascoltando il monologo di Diego Bianchi che apriva la serata, non è parso degno di nota a chicchessia.
Si è rilevato, infatti, che il suo imbarazzo fosse assai piccato, e che solo il rispetto per la propria reputazione, così faticosamente costruita con tanti furbi ammicchi e tante sapienti leccatine, lo trattenevano dal dare della stronza alla Jebreal.
Non è sfuggito, parimenti, quell«a me non piacciono i social», che, detto da chi ci costruisce sopra tre quarti di trasmissione, suonava alquanto grottesco. Tutto giusto, certo, ma non mi è parso sia stato questo lessenziale.
Lessenziale, a mio modesto avviso, è stato che lincidente ha finalmente sciolto tutte le ambiguità sulle quali Diego Bianchi ha saputo fino a quel punto reggere da scaltro equilibrista. Rivelatori, in tal senso, sono stati alcuni termini cui è ricorso in quegli otto lunghissimi minuti di excusatio.

Ha esordito in questo modo: «È stata una settimana decisamente pesante, impegnativa, sul fronte degli avvenimenti, della storia che si fa, e anche di chi ovviamente cerca in qualche modo, con gli strumenti che ha, di raccontarla. Noi ci siamo preparati per tutta la settimana, come sempre, per questa puntata, e poi, a un certo punto, è successo che, nellassurdità del momento, oggi la notizia siamo diventati noi, e questa cosa francamente sorprende. Diciamo che a noi piace rincorrere le notizie, scoprire le notizie, dare le notizie: essere la notizia già meno».
Mettendo da parte lepica che accomuna, nella fatica, «la storia che si fa» e chi la racconta, Propaganda live ha mai dato una notizia? Ne ha mai «scoperta» una? Le «rincorre», questo sì, e, soprattutto, le commenta. Per meglio dire: fa suo il commento che su una data notizia dà il volto noto che è ospitato dalla trasmissione o il tweet scelto nella marea di tweet che l’hanno commentata. Nell’uno e nell’altro caso, come è ovvio, la scelta è legittimamente insindacabile, d’altronde, almeno fino a quando l’ho seguita io, Diego Bianchi ha più volte tenuto a far presente: «Questa trasmissione è mia»; anche in questa occasione, peraltro, ha precisato: «La scelta dei nostri ospiti non è mai neutra. Su questo palco non salgono i politici, per determinati motivi, ma soprattutto non salgono neppure certi pensieri che voi vedete giustamente rappresentati nei talk show».
Una trasmissione, dunque, che, seppure con l’espediente di dar voce a questo e a quello, sostanzialmente esprime una linea editoriale e una linea politica. Fin troppo manifeste, direi, oltre che fortemente motivate, visto l’armamentario messo in campo contro gli avversari, offerti a un pubblico assai fidelizzato come oggetto di esecrazione, differita in feroci prese per il culo, che quasi sempre mirano a farsi tormentoni, per acquistare la viralità del meme.

Una trasmissione propagandistica, dunque, come d’altronde il titolo rivendica, e con fierezza si potrebbe dire, se non fosse che, a suo tempo, quando Gazebo si spostò da Rai3 a La7, la scelta di chiamarla Propaganda live, fu dichiaratamente ironica, a rigettare l’accusa che proprio in quel senso le era stata mossa: «Per non dare ragione a Salvini – disse Diego Bianchi – si fa quello che vuole Salvini». Aveva ragione Matteo Salvini, dunque, ma doveva aspettare quattro anni per vedersela pienamente riconosciuta da un Diego Bianchi senza più alcuna possibilità, e forse neppure voglia, di schermirsi schernendosi. Senza più neppure necessità di farlo, poi, visto che la sua trasmissione ora va in onda da un’emittente privata, e col tempo ha maturato i crediti di cui gode ogni marchettificio culturale del Belpaese, protetto dalla rete di interessi in cui è riuscito a crescere e irrobustirsi.
Interessi che qui sono riusciti a estendersi in più campi: Propaganda live può promozionarti il libro o il disco, se sei un vip, ma può pure darti quindici secondi di notorietà, se sei un anonimo account su Twitter; può promuovere ad opinionista un comico e ripescare dal dimenticatoio un cantante in voga mezzo secolo fa; può preparare il ritorno in campo di Enrico Letta facendogli fare il Vaso degli Esteri e creare il clima più favorevole al giudizio che un tribunale dovrà emettere su Mimmo Lucano; può strizzare un occhio ai centri sociali con un’intervista a Zerocalcare e fare una leccatina al culo di Sergio Mattarella con una striscia di Makkox, il genio. Scampoli di potere, è ovvio, peraltro esercitato in una nicchia relativamente angusta, ma quanto basta a nutrire ambizioncine e carrierucce, rafforzando la certezza di essere referenti di unarea.

Quale sia larea di cui un Diego Bianchi può avere avuto modo, più o meno a buon diritto, di credersi referente, non è un mistero: è quella che, pur con sempre minor consenso in Italia, esprime la ben nota presunzione di superiorità morale e culturale di certa sinistra, che proprio a questa sua irrinunciabile presunzione deve le sue più cocenti sconfitte.
Accade, infatti, che si inviti in trasmissione il sindacalista di colore che si batte contro lo sfruttamento di immigrati pagati poco e in nero per raccogliere pomodori in Puglia, e a chiudere lintervista ci sia lo stacchetto musicale della band il cui leader è quel ristoratore che fa lavorare una ragazza senza un regolare contratto e, quando quella ha da ridire, la liquida con lepiteto di «pazza incattivita dalla vita».
E lì, a «rincorrere la notizia» trovi un altro, e la notizia sei tu, e a contorno ti stanno gli artisti che hai promozionato, qui in riconoscente difesa del musicista-ristoratore, uno dei «tre o quattro amici» che alla tua trasmissione collaborano da anni, e che dunque della trasmissione sono espressione almeno quanto te: puoi cavartela dicendo che questo ti «piace meno»?

Poi, e sè già detto: «A me non piacciono i social». Paradossale, sè già detto pure questo, ma perché? In sostanza, perché dei social non puoi sempre servirti come vuoi. E qui la riflessione è costretta a esorbitare in domande che su queste pagine ho già posto, e che oggi ritornano: ma un vip che twitta, che apre una pagina su Facebook o su Instagram – esattamente – cosa vuole? Che cerca? In altri termini: cosa muove uno scrittore, un attore, un politico, un giornalista, un cantante ad offrirsi, almeno nelle intenzioni, all’interlocuzione sul web? Non dovrebbe essere affetto dalla smania che consuma il volgo alla disperata ricerca di un’occasione per affiorare con la punta del naso dall’anonimato e per dar sfogo in questo modo a frustrazioni di ogni sorta.
Tanto meno mancano occasioni di socializzare, al vip, anzi, quasi sempre ne ha di eccezionali, quantitativamente e qualitativamente. Insomma, non sta sui social per vincere la solitudine. Né lo fa perché gli mancano opportunità di comunicare: a differenza di chi ha solo il web per aprir bocca, a uno scrittore, a un attore, a un politico, a un giornalista, a un cantante sono offerte di continuo mille occasioni per esprimere opinioni e giudizi. E allora? Cos’è che spinge un vip a darsi pubblicamente, oltre che in cambio di un compenso, quando lavora, anche così, a gratis? Dalla prontezza a retwittare ogni complimento a loro indirizzato, ogni dichiarazione di stima o di simpatia, ogni dimostrazione di ammirazione o di affetto, si potrebbe supporre sia per vanità, ipotesi che non vacilla neppure al constatare che spesso i vip retwittano anche gli insulti ricevuti, perché si sa che i meccanismi della vanità spesso sono perversi.

Mera ingordigia di attenzioni, si direbbe, travestita però da quel bisogno di contatto col pubblico che fa tanto democratico e alla mano, e che perciò è un efficace strumento di autopromozione professionale, oltre che di fidelizzazione dei fan. Salvo imprevisti, tuttavia, comè nel caso in cui larea di cui ti credevi referente si spacca, e una parte, dimprovviso, trova condivisibili le ragioni che hanno portato Rula Jebreal a rifiutare il tuo invito, e poco convincenti le tue spiegazioni.
Povero Zoro, povero equilibrista, si capisce lo sbandamento, si capisce la vertigine! Si capisce, dunque, pure il suo farsi forza dicendo: «Qui non cade nessuno». Unico momento di vero pathos in otto minuti tutti da ridere.

giovedì 13 maggio 2021

Un’allegoria inservibile

 

Davide Racca, Descrizione del dispositivo (partic.) *


 
«Al condannato viene scritto sul corpo,
con lerpice, il comandamento che ha infranto»
Franz Kafka, Nella colonia penale (1914)


«La similitudine non è più la forma del sapere,
ma piuttosto loccasione dellerrore»
Michel Foucault, Le parole e le cose (1966)




1. Michel Foucault apre Surveiller et punir (1975) con la descrizione che la Gazzetta di Amsterdam del 1° aprile 1757 dà del supplizio subìto pochi giorni prima da un tal Damiens, parricida: tenaglie gli strappano brani di carne; nelle ferite così aperte vengono versati piombo, pece e zolfo fusi; poi è smembrato; i suoi pezzi vengono bruciati; le ceneri sono sparse al vento.
È uno degli ultimi supplizi che, nei secoli precedenti, un po dappertutto in Europa, si sono tenuti sulla pubblica piazza: pochi decenni ancora – dice Foucault – e «il corpo suppliziato, squartato, amputato, simbolicamente marchiato sul viso o sulla spalla, esposto vivo o morto, dato in spettacolo, [sarà] scomparso» da quella piazza, perché «la meccanica esemplare della punizione [ha dintanto] muta[to] i suoi ingranaggi: la giustizia non si addossa più pubblicamente la parte di violenza che è legata al proprio esercizio», e, «per effetto di questo nuovo ritegno scrive, dando qui esemplare saggio di cosa sia il «metodo genealogico» di cui è debitore a Nietzsche – tutto un esercito di tecnici ha dato il cambio al boia, anatomista immediato della sofferenza: sorveglianti, medici, cappellani, psichiatri, psicologi, educatori».
Certo, ora la pena mostra «meno crudeltà, meno sofferenza, maggior dolcezza, maggior rispetto, maggiore “umanità”», ma è solo perché, insieme al dispositif punitif che la somministra, è mutato «loggetto stesso dell’operazione punitiva»: «non è più il corpo, è l’anima» («alla espiazione che strazia il corpo, deve succedere un castigo che agisca in profondità sul cuore, il pensiero, la volontà, la disponibilità»). Diremmo che ora il comandamento non si accontenta più di sanzionare la sua violazione, ma vuole essere inciso a fondo in chi lha violato, vuole che il condannato labbia impresso in sé per sempre, che in lui possa essere leggibile a tutti.
Scorrono le pagine, si chiude il primo capitolo (Il corpo del condannato), si apre il secondo (Lo splendore dei supplizi), e il lettore si aspetta che da un istante allaltro, come allegoria di questo dispositif, gli si pari innanzi lApparat, la Maschine, che In der Strafkolonie di Franz Kafka uccide il condannato dopo avergli inciso a fondo nella carne, per dodici lunghe ore, il comandamento che ha violato. Non accade.
Per meglio dire: accade, ma a posteriori. Accade, cioè, che il racconto di Kafka appaia foucaultiano, per esempio, a Edson Passetti (Kafka-Foucault, sem medos – Ateliê Editorial, 2004), a Stefano Marchesoni (Parrhesia e forma-di-vita Nóema, IV-1, 2013), a Micaela Latini (Scrivere la colpa Baig VII, febbraio 2014), a Davide Racca (Nota al testo per la sua traduzione del racconto – Zona Contemporanea, 2015), a Nicolas Bareït (Reading Kafka after Foucault: “In der Strafkolonie” – Revue de Science Criminelle et de Droit Pénal Comparé, II, 2, 2016), a Gabriella Calcagno (La condanna di avere un corpo – operavivamagazine.org, 6.4.2016), ad Alessandro Baccarin (Colonia penale archeologiafilosofica.it, luglio 2017), e chissà a quanti altri, sfuggiti alla mia peraltro rapida ricerca, che ha mosso i passi dal constatare che anche in chi ha più fatto uso della «cassetta degli attrezzi» di Foucault qui in Italia – e parlo di Giorgio Agamben – non vi è alcun cenno a In der Strafkolonie: lungo le 1367 pagine che raccolgono la sua produzione (Homo sacer. Edizione integrale 1995-2015 – Quodlibet, 2018), Kafka viene citato una dozzina di volte, senza che mai neppure un cenno richiami il suo racconto.
Come mai? Non per un rigetto della chiave allegorica come metodo danalisi, evidentemente, perché Agamben la usa spesso, e Kafka non gliene offre poche: con Der Prozeß, con Vor dem Gesetz, con Die Acht Oktavhefte, perfino con i Briefe an Milena. Impensabile, poi, che non abbia letto In der Strafkolonie o che, avendolo letto, possa averlo trovato allegoricamente inerte.
Stessa cosa può dirsi per Foucault, che Didier Eribon ci dice leggesse Kafka «enthusiastically», per giunta in tedesco, accomunato a lui dallinteresse per «the same topics, including alienation, institutional power, the phenomenon of the body, death and authorship, the limitations of literature and language» (Michel FoucaultTheory and Society, XXII, 3, 1993).
Se poi torniamo a Surveiller et punir, dove abbiamo già visto che il dispositif punitif ha una «meccanica» e degli «ingranaggi», troviamo che Foucault insiste pure sulla sua natura «tecnica», tiene a sottolineare che ha lo scopo di essere «marchiante», che il procedimento cui dà vita ha una modalità «rituale», che la sua azione vuole essere «clamorosa»: non vi è piena corrispondenza con la descrizione che Kafka ci dà della Maschine? Dando per scontato che non si tratti di un atto mancato per rimozione, cosa rende inservibile a Foucault (e ad Agamben) lallegoria kafkiana? Per cercare una risposta occorre spostare lattenzione dalla Maschine alla vicenda che le si consuma dattorno. Ma prima, forse, è il caso di chiarire perché fin qui si è preferito parlare di allegoria piuttosto che di metafora.
Entrambe, infatti, si servono dellanalogia per dare unimmagine concreta a unastrazione, ma, a differenza della metafora, lallegoria concretizza questa immagine su un piano che non è quello del mero sensibile: lallegoria mira ad animare lanalogia, a darle una struttura razionale, a conferirle movimento in un contesto narrativo (apologo, favola, mito, parabola), sicché sul piano dellargomentazione, dove è spesa come figura retorica, ovviamente allo scopo di persuadere, lallegoria regge dove la metafora cade. Ma regge se il contesto narrativo le consente il movimento. Bene, la Maschine di Kafka regge come metafora, ma come allegoria cade a tre quarti del racconto, e probabilmente è per questo che Foucault e Agamben rinunciano ad evocarne limmagine: funziona come un dispositif solo fino a un certo punto, poi non più.


2. La Maschine – ha spiegato l’ufficiale al visitatore – «è uninvenzione del nostro vecchio comandante. Io ho collaborato ai primi esperimenti e poi presi parte a tutti i lavori, fino alla fine. Il merito dellinvenzione, però, spetta solo a lui. Ha sentito parlare del vecchio comandante? No? Ebbene, non credo di esagerare, affermando che lorganizzazione di tutta la colonia penale è opera sua. Noi, i suoi amici, cui è nota la complessa organizzazione della colonia, ci rendemmo conto, alla sua morte, che il successore, anche con mille nuovi piani in testa, per parecchi anni non avrebbe potuto cambiare nulla di ciò che era stato fatto. Le nostre previsioni si sono avverate: il nuovo comandante ha dovuto riconoscerlo».
L’ufficiale è, così, garante di una organizzazione di cui la macchina è solo lemblema. Quando infatti il visitatore chiede se il condannato conosca la condanna, l’ufficiale risponde: «Inutile comunicargliela, la conoscerà sul suo stesso corpo»; e quando gli si chiede: «Ma saprà almeno che è stato condannato?», risponde: «Neppure questo»; e ancora, incalzato riguardo a come il condannato abbia avuto modo di potersi difendere: «Non ha avuto nessuna possibilità di difendersi»; e chiarisce: «La cosa sta così. Nella colonia penale, nonostante la mia giovane età, svolgo le funzioni di giudice, perché ho sempre collaborato col vecchio comandante in tutte le questioni disciplinari, e conosco la macchina meglio di ogni altro. Il principio secondo il quale io giudico, è questo: la colpevolezza è sempre indubbia. Altri tribunali non possono seguire a questo principio, perché sono composti da diverse persone, e sono sottoposti a istanze superiori. Ciò non avviene qui o almeno non avveniva quando cera il vecchio comandante. Quello nuovo ha provato a intervenire nella mia attività di giudice, ma finora sono riuscito a tenerlo lontano, e spero di riuscirci anche in seguito».

Il dispositif ha la stessa impenetrabile trama del disegno che nella macchina fa da guida allerpice che incide nella carne del condannato il comandamento che egli ha violato: tanto è intricato il primo, quanto evidente dovrà essere il secondo, ma cè una ratio che sostiene la relatio, ed è quella del potere cieco, ab-soluto, che fa da primum movens alla catena gerarchico-burocratica che lo amministra. «Lautorità dimostra di non aver bisogno di diritto per creare diritto», ci avverte Carl Schmitt (Die Lage der europäischen Rechtswissenschaft, 1950), ma Max Weber ci fa presente che «lesercizio di ogni dominazione, che esiga unoperazione continua di amministrazione, ha bisogno da un lato dellazione umana sottoposta agli ordini di coloro i quali pretendono di essere investititi del potere legittimo, e, dallaltro, di disporre, mediante questa subordinazione, [...] di un corpo di amministratori e dei mezzi materiali per lamministrazione» (Politik als Beruf, 1919). Lufficiale incarna appunto questa inderogabile istanza: è Apparat non meno di quanto lo sia la macchina. Ma cosa accade nel racconto di Kafka?
«Il processo e lesecuzione che lei ha loccasione di ammirare dice lufficiale al visitatore – non trovano più, nella nostra colonia, un solo aperto sostenitore. Io sono il loro unico difensore e insieme lunico legatario delleredità del vecchio comandante». Col nuovo comandante è tutta unaltra storia, lufficiale ne è cosciente, e sa cosa aspettarsi. «Ieri le ero vicino, quando il comandante la invitò. Sentii le parole dinvito. Conosco il comandante, capii subito a cosa mirava. Benché abbia autorità sufficiente per agire contro di me, ancora non ha avuto il coraggio di farlo. Vuole invece sottopormi al suo giudizio, al giudizio di un illustre straniero. Il calcolo è sottile: lei si trova nellisola da due giorni, non conosceva il vecchio comandante né il suo modo di pensare; ragiona secondo i princìpi europei, magari è un deciso avversario della pena di morte in generale e di simili esecuzioni meccaniche in particolare [...] Considerato tutto questo, pensa il comandante, è molto probabile che lei non approvi il mio procedimento. E se non lapprova, continua a pensare il comandante, non passerà la cosa sotto silenzio, perché lei è un uomo che ha il coraggio delle sue opinioni. Ha visto e imparato a rispettare i costumi di molti popoli, non si esprimerà contro questo procedimento con la violenza di cui darebbe prova nel suo Paese: ma il comandante non chiede tanto. Basta lasciarsi andare una parola di sfuggita. Non è necessario che risponda alle sue convinzioni, basta che sembri favorire la sua tesi. Sono sicuro che linterrogherà ricorrendo ad ogni astuzia. [...] Lei dirà, mettiamo: “Da noi la procedura è diversa”, oppure: “Da noi si usa interrogare laccusato, prima di condannarlo”, oppure: “Da noi ci sono altre pene oltre a quella di morte”, oppure: “Da noi le torture sono esistite solo nel medioevo”. Considerazioni, ai suoi occhi, tanto rispondenti a verità quanto naturali, considerazioni inoffensive, che non toccano il mio sistema. Ma come le interpreterà il comandante? Mi sembra di vederlo, il buon comandante, respingere la sedia e correre al balcone [...], mi sembra di sentire la sua voce: “Un grande esploratore dellOccidente, incaricato di studiare lordinamento giudiziario dei vari paesi, ha detto un momento fa che i nostri provvedimenti giudiziari sono inumani. In seguito al giudizio di una tale personalità non mi è più possibile, naturalmente, tollerare questa procedura. Da oggi in avanti ordino...”. [...] Arrivati a questo punto, le chiedo: mi appoggi nei confronti del comandante!».

L’appoggio che l’ufficiale chiede al visitatore è in apparenza anodino, ma in realtà mira a depotenziare la funzione di pretesto che il visitatore può dare al comandante: «Io non le chiedo di mentire, nemmeno per idea. Basta che lei risponda con poche parole, per esempio: “Sì, ho visto lesecuzione”, oppure: “Sì, ho ascoltato tutte le spiegazioni”. Solo questo, niente di più». Ma il visitatore si dichiara indisponibile: «Sono un avversario di questa procedura. Prima ancora che lei mi provasse la sua fiducia, fiducia di cui non abuserò in nessun caso, mi ero chiesto se avevo diritto di intervenire contro questa procedura, e se il mio intervento aveva una probabilità, sia pur minima, di successo. Non avevo dubbi sulla persona alla quale dovevo prima rivolgermi: era il comandante, naturalmente. Lei mi ha solo confermato nel mio convincimento, ma, ripeto, ero deciso in precedenza: lonestà delle sue idee mi tocca, anche se non può distogliermi dal mio proposito. [...] Dirò al comandante il mio pensiero sulla procedura, non in una riunione, ma a quattrocchi», con ciò sottintendendo: eviterò che ciò che penso possa essere usato contro la procedura (offrendomi al comandante come pretesto per abolire ciò che fin qui non ha voluto abolire pur avendone il potere); ma eviterò anche che ciò che penso possa essere usato in favore di essa (facendo in modo che la mia indifferenza costituisca un ulteriore freno).
È qui che la possibile allegoria implode, con una delle improvvise e sconvolgenti torsioni che Kafka imprime così spesso alla sua narrazione: lufficiale grazia il condannato e, dopo aver riprogrammato il comandamento che lerpice dovrà incidere (stavolta è «Sii giusto»), si stende sul lettino della macchina e le dà avvio. Ma qui, allimplosione dellallegoria corrisponde lesplosione della macchina, dalla quale quasi subito schizzano fuori ad una ad una le ruote degli ingranaggi, fino a quando «lerpice si alzò di fianco, con il corpo trafitto, come faceva soltanto nella dodicesima ora». Così, «il movimento conclusivo [quello programmato a scaricare il cadavere nella fossa destinata ad accoglierlo] non riuscì, il corpo non si staccò dai lunghi aghi; il sangue continuava a fluire, e quello rimaneva sospeso nella fossa, senza cadere. Lerpice sembrò voler tornare nella sua posizione normale, poi, quasi sentisse di non essere ancora liberato del suo carico, rimase sopra la fossa»; e lì il cadavere resta, inchiodato allApparat cui era tanto affezionato, con un comandamento inciso addosso che il sangue non consente di leggere.


3. Pare evidente che non è questo il modo in cui funziona un dispositif punitif: non si ha contraddizione interna al suo impianto; la linea gerarchico-burocratica che lo amministra non ha inerzie; a un ufficiale addetto al suo funzionamento non capiterà mai un infortunio da arroseur arrosé. Come metafora, la Maschine funziona; come allegoria, no. E probabilmente è questa la ragione per la quale in Foucault (e in Agamben) non se ne ha traccia.




* Come molte altre immagini riprodotte su questo blog, anche questa è tratta da una pagina Internet (https://www.nazioneindiana.com/wp-content/2015/08/Descrizione-del-dispositivo.jpg): qualora la sua riproduzione violasse eventuali diritti dautore, prima di far calare lerpice, si abbia la grazia di comunicarmelo (luigicastaldi@gmail.com) e sarà prontamente rimossa.